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2016/01/15

"I Don't Want To Miss A Thing"



"I Don't Want To Miss A Thing"




I could stay awake just to hear you breathing

Watch you smile while you are sleeping

While you're far away and dreaming

I could spend my life in this sweet surrender

I could stay lost in this moment forever

Every moment spent with you is a moment I treasure




Don't wanna close my eyes

I don't wanna fall asleep

'Cause I'd miss you, baby

And I don't wanna miss a thing



'Cause even when I dream of you

The sweetest dream would never do

I'd still miss you, baby

And I don't wanna miss a thing



Lying close to you feeling your heart beating

And I'm wondering what you're dreaming,

Wondering if it's me you're seeing

Then I kiss your eyes and thank God we're together

And I just wanna stay with you

In this moment forever, forever and ever



I don't wanna close my eyes

I don't wanna fall asleep

'Cause I'd miss you, baby

And I don't wanna miss a thing



'Cause even when I dream of you

The sweetest dream would never do

I'd still miss you, baby

And I don't wanna miss a thing



I don't wanna miss one smile

I don't wanna miss one kiss

Well, I just wanna be with you

Right here with you, just like this



I just wanna hold you close

I feel your heart so close to mine

And just stay here in this moment

For all the rest of time, yeah, yeah, yeah!



Don't wanna close my eyes

Don't wanna fall asleep

'Cause I'd miss you, baby

And I don't wanna miss a thing



'Cause even when I dream of you

The sweetest dream would never do

I'd still miss you, baby

And I don't wanna miss a thing



I don't wanna close my eyes

I don't wanna fall asleep

'Cause I'd miss you, baby

And I don't wanna miss a thing



'Cause even when I dream of you

The sweetest dream would never do

and I'd still miss you, baby

And I don't wanna miss a thing



Don't wanna close my eyes

I don't wanna fall asleep, yeah

I don't wanna miss a thing

I don't wanna miss a thing

Testi e musica degli Aerosmith

2016/01/05

Trappole climatiche e antropogeniche, in sintesi: ci stanno fregando!



Tra revisionismi, correzioni e ipocriti silenzi, la religione del clima esce dalla Cop21 di Parigi piuttosto acciaccata. All’apparenza compatta nell’obiettivo prometeico: contenere l’aumento temuto della temperatura del pianeta, entro la fine del secolo, sotto i due gradi (1,5). 

In realta’, tra le pieghe, pesantemente, segnata da divisioni, scetticismi, sospetti, fardelli propagandistici e aspettative non credibili. Premessa: il dogmatismo climatico e’ segnato da quella che si potrebbe definire la trappola della CO2. Vale a dire, la pretesa di ridurre il clima, fenomeno caotico per eccellenza, a un modello di laboratorio, astratto e informatico, movimentato da un solo fattore: la quantita’ di CO2 antropogenica immessa in atmosfera. 

Operazione da sciamani. 

Predire matematicamente il clima, ammonisce il bistrattato professor Zichichi, comporterebbe l’uso di equazioni differenziali con un numero di variabili troppo elevato per consentirne la soluzione. Impresa razionalmente impossibile. E che riporta, piuttosto, alla mente il diavoletto di Maxwell che divide le singole molecole di gas (per ridurre la probabilita’ a certezza) o l’apologo di Laplace: “ …se esistesse una possibilita’ di calcolare e misurare i movimenti di ogni singola particella fisica, sarebbe possibile descrivere passato, presente e futuro del mondo con esattezza matematica…”. 

Esattamente quello che pretendono di fare gli ideologi dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), il club internazionale di esperti governativi custode della dottrina ufficiale sul clima. E’ ovviamente impossibile controllare le interazioni della meccanica del clima, al fine di prevederne l’evoluzione. Un calcolo che comporterebbe, esattamente come il diavoletto di Maxwell, la misura di ogni gas o composto atmosferico e del feedback con fattori, naturali e artificiali, variabili nel tempo. 

Impossibile. 

E cosi’, per comodita’ intellettuale, i modellisti del clima hanno ridotto gli algoritmi a una sola variabile: i tassi di CO2 antropogenica immessi in atmosfera. 

Rasoio di Occam? No: riduzionismo elementare. 

Che produce, percio’, modelli irreali, distanti da un effettivo rispecchiamento della realta’, artificiali e, puramente, ipotetici. Basti dire che vengono esclusi, dagli algoritmi della modellistica del clima, i fattori chiave dei suoi andamenti evolutivi, quelli naturali: attivita’ del sole, magnetismo terrestre, oscillazioni orbitali, irraggiamento cosmico ecc. Perche’? Non tanto per la difficolta’ di misurare tali fattori quanto una pretesa programmatica intenzionale: isolare l’attivita’ umana (la CO2 antropogenica) come esclusivo fattore di incidenza. Al fine di farne l’imputato unico del riscaldamento. 

Una metodologia, osserverebbe Einstein, poco “elegante”. 

Essa semplifica l’oggetto indagato, il clima, oltre il lecito e il necessario, riduce eccessivamente la complessita’ delle variabili e insinua nei calcoli un solo fattore ad hoc, una singola costante, i volumi di emissione della CO2, per giungere a esiti pre-determinati. Nella dottrina del clima, i tassi di emissione della CO2 antropica funzionano come una sorta di termometro artificiale: tarato su una scala in cui a ogni grado di misura delle emissioni corrispondono temperature. E a ogni grado di temperatura corrispondono eventi deterministici e effetti conseguenziali. Fino a una soglia, i due gradi di aumento rispetto alle medie attuali, che segna un avvento: l’inizio di un’epoca di catastrofi. 

Insomma: millenarismo. 

Nella letteratura dell’IPCC, l’evoluzione climatica viene raffigurata in modelli predittivi e “scenari” (a 20, 30 o 50 anni e piu’) fondati, tutti, sulle medesime premesse metodologiche e differenziati, negli esisti predeterminati, solo in base a assunzioni del comportamento umano. Davvero l’uomo funziona, nei modelli dell’Ipcc, come il prometeico regolatore del clima. Una proto-scienza, insomma, quella dell’Ipcc e una sorta di religione con tutti gli ingredienti conseguenti: la pretesa del devotismo dai credenti, l’irrisione degli scettici, la scomunica dei negazionisti. Dagli “scenari” proto-scientifici dell’Ipcc, si pretende di dedurne prescrizioni e dettare comportamenti per i policy makers, condotte dei governi e contenuti delle agende politiche. 

Il problema e’ che, col passare degli anni (siamo ormai con quella di Parigi del 2015 alla 21 conferenza sul clima e a 25 anni dalla “madre” di tutti gli eventi sul riscaldamento climatico, la Conferenza di Kyoto del 1997) la dottrina del clima mostra una crescente e imbarazzante contraddizione: l’allarme degli esiti catastrofici sale sempre piu’, e sempre piu’ ravvicinato, ma l’efficacia delle prescrizioni si rivela, crescentemente, discutibile. Di piu’: la CO2 antropica, isolata e esagerata come esclusivo fattore scatenante dei cambiamenti, si rivela una trappola. 

Laddove i suoi effetti sono descritti, ansiologicamente, come sempre piu’ minacciosi, la possibilita’ e la capacita’ anche solo di mitigarne il peso in atmosfera si dimostra impossibile. In 25 anni di politiche anticarbonifere e in 20 anni di denunce e prescrizioni dell’IPCC, la quantita’ di CO2 antropica in atmosfera e’ aumentata del 60%. E con essa i costi della (inefficace) mitigazione. I criteri e le ricette della dottrina del clima inchiodano i governi a condotte e agende tanto piu’ costose quanto inefficaci ai fini dell’obiettivo dichiarato: un arresto della crescita delle emissioni. 

Una dottrina, quella del riscaldamento del clima, nata per contestare la sostenibilita’ dei modelli di sviluppo dell’ultimo secolo e mezzo, si va dimostrando, crescentemente, insostenibile nella costosa inefficacia delle prescrizioni. Negli ultimi quindici anni, tralaltro, in cui la CO2 e’ sempre aumentata, non si registrano aumenti delle temperature. La correlazione clima-CO2 non appare cosi’ salda. Appare salda, al contrario, la correlazione inversa tra costi delle politiche climatiche e efficacia. 

Il burden economico delle politiche del clima, tra il 2005 e il 2015, e’ impressionante: 176 miliardi di dollari (dati World Bank del 2011). E solo considerando il global carbon market: l’enorme bolla alimentata dal trading delle emissioni e e dai progetti di investimenti verdi. A questi volumi della finanza verde vanno aggiunti il costo degli incentivi fuori mercato alle energie rinnovabili e la fattura legata all’ import dei loro componenti impiantistici. Questa enorme esplosione finanziaria (in cui e’ prevalsa, col tempo, la componente puramente speculativa) ha partorito un aumento delle emissioni di CO2 e un costo dell’energia crescente. 

L’80 % del fardello di queste politiche si e’ concentrato in Europa. Dove, non a caso, il decennio del global carbon market ha coinciso con la crescita lenta, la crisi del debito e l’arretramento manifatturiero. Il bilancio delle politiche verdi comincia a indurre stress nei governi. E a Parigi lo si e’ avvertito. La trappola della CO2 comincia a far sentire la stretta dei suoi lacci. E fa aggrovigliare i calcoli. Il bilancio dei 25 anni alle spalle pesa. Il 90% del mondo, formalmente, sottoscrive l’impegno della Cop21: tenere le temperature del pianeta sotto i due gradi di aumento nel 2050. Ma il pathway verso l’obiettivo e’ del tutto incerto, evanescente e problematico. Azzerare in 34 anni le emissioni di CO2 (aumentate invece, come abbiamo visto, del 60% negli ultimi 25) e’, palesemente, irrealistico. 

Nelle stesse conclusioni della Cop21 il problema si e’ evidenziato in modi bizzarri: da un lato, l’unanimita’ commossa sull’obiettivo di contenere l’aumento di temperatura sotto I due gradi; dall’altro, l’evidenza che gli impegni sottoscritti dai governi portano a sforare quel tetto e a attestare l’aumento delle temperature, oltre la soglia, a 2,7 gradi. Come dire: piena catastrofe (se stessimo alle assunzioni dell’IPCC). Quello che appare sempre piu’ imbarazzante per molti osservatori e policy makers e’ l’impasse delle politiche climatiste: raggiungere l’azzeramento delle emissioni serra al 2050, attraverso la sostituzione delle fonti fossili con quelle rinnovabili e con il risparmio energetico, e’ tecnicamente irrealizzabile. 

I conti dell’IPCC non stanno in piedi. 

Il World Energy Outlook (WEO) smentisce, clamorosamente, scenari e aspettative del climatismo ufficiale: nel 2040 le fonti fossili e emissive peseranno, ancora, per il 55% dei consumi energetici (solo 15% di riduzione, quindi, rispetto ai consumi attuali); le fonti rinnovabili rappresenteranno solo un quarto del mix di energia del 2040 (e solo comprendendo il nucleare tra le fonti carbon free). Il nucleare, tralaltro, con buona pace di Greenpeace, e’ la fonte che conoscera’ il maggiore boost rispetto ai dati attuali (con una crescita del 60%). Questa e’ la vera novita’. Che gli ideologi dell’IPCC non avevano considerato. La percezione crescente di un ruolo limitato delle tecnologie rinnovabili come sostituzione delle fonti fossili, ha riproposto l’attualita’ e l’indispensabilita’ del nucleare come fonte carbon-free. 

Con evidente imbarazzo dell’attivismo climatista. 

L’esistenza di una quota di energia nucleare, attestata piu’ o meno intorno ai livelli attuali (6% di contributo di energia e 11% di energia elettrica) e’, ormai, ineliminabile in qualsiasi scenario realistico di mix energetico che intenda ridurre la quota di gas e carbone. Con 438 reattori attivi in 30 paesi e una potenza installata di 400 GWe, il nucleare e’ diventato imprescindibile nella contabilita’ della de-carbonizzazione: in termini di CO2 evitata e in termini di mix futuro. Senza la stabilizzazione della quota attuale di contributo del nucleare al portafoglio energetico non sarebbe ipotizzabile alcuno scenario di riduzione delle fonti fossili. 

Archiviati, ormai, irrazionalismi e emotivita’del post-Fukushima, la partita del nucleare si gioca non piu’ sulla sicurezza ma, solo sulla sua affordability economica: i costi degli investimenti fissi piu’ alti comparati a quelli degli impianti fossili (gas e carbone). Uno scenario destinato a cambiare: per il peso che assumeranno le politiche di tassazione della CO2; per la possibile ripresa di investimenti orientati al lungo periodo: le tecnologie di oggi consentono a una centrale nucleare un ciclo vita di oltre 60 anni (fino a quasi 100) rispetto ai 20 di media degli impianti fossili. 

In ogni caso la de-carbonizzazione totale e’ un mito da sfatare. Secondo il WEO lo scenario che ne prevede la realizzabilita’ al 2050, risultera’ gia’ vanificato nel 2040. I numeri evidenziano un racconto del tutto diverso. Le fonti fossili (gas e carbone) copriranno, alla fine del secolo, ancora oltre la meta’ del mix energetico. Le energie rinnovabili non riusciranno a essere sostitutive delle fonti convenzionali (gas, carbone e nucleare) e si attesteranno, inesorabilmente, intorno al 30% del mix energetico. Il risparmio energetico non portera’ a una decrescita dei consumi di energia ma, in base al cosiddetto paradosso di Jevons e al rebound effect (“una risorsa energetica, resa piu’ efficiente, e’ usata di piu’”) piuttosto a un aumento di essi. La de-carbonizzazione entro questo secolo, dunque, non esiste. E, conseguentemente, si dovranno rivedere le correlazioni, schematiche e perentorie, tra CO2 e temperatura imposte dalla dottrina del clima. 

Ben piu’ importante, nel medio-periodo, sara’ un dilemma che va insinuandosi, dietro l’immagine di facciata delle foto di gruppo di Parigi. Gli ultimi 25 anni, in contrasto con la retorica climatista, hanno registrato un aumento continuo delle emissioni di CO2. Secondo alcuni a tassi che sono i piu’ alti di sempre. Sara’ un caso che gli ultimi due decenni sono stati anche quelli di una prepotente riduzione degli indici di poverta’? E dell’ingresso, a un ritmo inedito nella storia moderna, di due miliardi di persone nel perimetro dello sviluppo? C’e’ una correlazione tra i due processi? C’e’ chi non si sente di escluderlo. E inoltre. Per i prossimi 34 anni (fino al 2050) la politica “ufficiale” del clima si propone non piu’ una “mitigazione” degli impatti emissivi ma, addirittura, un azzardato “azzeramento” delle emissioni fossili e, comunque, un loro drastico abbassamento. Quale sara’ l’effetto sociale di tale proposito? Come abbiamo visto l’obiettivo dell’azzeramento delle emissioni carbonifere e’, tecnicamente, irrealizzabile dal lato della generazione di energia (le fonti rinnovabili si attesteranno solo sul 30% del mix di energia e sul 40 % di quello elettrico). E allora? Il timore e’ che possa farsi strada l’idea di abbordare l’azzeramento delle emissioni dal lato, invece, dei consumi. 

C’e’ un dato piuttosto inquietante degli scenari dell’IPCC per il 2050: la scarsa considerazione e, spesso, il silenzio sul tema dei consumi energetici futuri. Qualcuno (R.Partenen & M.Korhonen, Climate Gamble) vi ha visto il gioco d’azzardo che allignerebbe nella contabilita’ energetica del climatismo ufficiale: la velleita’ e l’illusione di congelare, sul lungo periodo, i consumi di energia. Tendenzialmente la domanda di energia nel mondo aumentera’ del 37% gia’ nel 2040. La popolazione mondiale, dai 7 miliardi attuali, raggiungera’ i 10 miliardi di persone nel 2050. 

Gli scenari dell’IPCC riflettono scarsamente questo dato. Nei modelli piu’ ottimistici del club del clima si percepisce una convinzione: al 2050 la dotazione di energie rinnovabili sara’ tale da coprire, da sola, il livello attuale di consumi energetici. Appunto: il livello attuale! E che ne facciamo della domanda di energia di tre miliardi di persone in piu’ esistenti a quella data? Proiettato sulla popolazione mondiale al 2050, il livello attuale di consumi soddisfarebbe solo un terzo del fabbisogno energetico dell’unanita’. Per non parlare dei numeri diffusi nei programmi dell’ambientalismo radicale. Per Greenpeace al 100% dei fabbisogni energetici al 2050 provvederanno fonti rinnovabili (80%) e risparmio energetico (20%). 

Ma il fabbisogno ipotizzato al 2050 e’ l’attuale livello dei consumi. Vale a dire: 9 miliardi e mezzo di persone dovrebbero, necessariamente, dimezzare il consumo di energia oppure, in cambio, 3 miliardi e mezzo di persone dovrebbero rinunciare, quasi del tutto, a consumare energia e elettricita’. Il sospetto dei paesi poveri o in via di sviluppo verso le implicazioni sociali e sottosviluppiste della de-carbonizzazione e’, dunque, fondato. 

La trappola della CO2 puo’ operare, effettivamente, come un fattore di freno dello sviluppo: nell’impossibilita’ tecnica di sostituire le fonti fossili dal lato della generazione di energia, qualcuno immagina, follemente, di realizzare l’obiettivo dal lato dei consumi. Una prospettiva terrificante di impoverimento e di stagnazione. E una clausola dissolvente formidabile frapposta alle aspettative dei paesi in ritardo. Strano che questo sospetto sociale e malthusiano della retorica della de-carbonizzazione sia sfuggito alla Chiesa della Laudato si. 

A Parigi, invece, nel backstage delle celebrazioni ufficiali della Cop21, la diffidenza sociale e la preoccupazione del gamble stagnazionista si e’ fatta avvertire: con il nulla di fatto sulle ipotesi di massiccio ricorso alla tassazione del carbonio; con il rifiuto dei paesi poveri di aderire, sin da oggi, a impegni troppo vincolanti sulle emissioni future; con lo stesso ridimensionamento lessicale della de-carbonizzazione nei documenti ufficiali; con la richiesta di massicci trasferimenti verso I paesi poveri. La talpa del revisionismo climatico sembra aver iniziato a scavare.

Scritto da Umberto Minopoli per Il Foglio 6 Gennaio 2016

2016/01/03

Tributo alle vittime innocenti di una ferocia senza confini

Eccoli, sono loro, i volti delle vittime del terrore, di un tranquillo weekend di paura diventato l'incubo peggiore per centinaia di famiglie che in una notte hanno perso figli, padi e madri, fratelli e sorelle, nipoti e amici. Il terrore non deve sovrastare gli animi, l'odio non deve annichilire le menti, non posso parlare di vendette, non sarebbe umano ma l'indifferenza non è la soluzione allora chi ha cOlpito va punito, risalendo la catena dell'odio fino a chi l'ha generata, e non importa quanto in basso o in alto è necessario andare. E se dovessero arrivare a distruggere un popolo lo faranno affinché le genti non vivano sempre nel terrore.







La cosa peggiore è riconoscere, all’uscita della Morgue, i lineamenti di queste ragazze e di questi ragazzi, logorati dal tempo e dalla sofferenza, sul volto delle madri e dei padri venuti a riconoscerli. 

La cosa peggiore è avere 129 vite solo da immaginare. Vite di artisti, di ricercatori, di scrittori: immaginare quanto sarebbero state belle le loro canzoni, le loro scoperte, le loro opere. Immaginare quanto sarebbero stati belli i loro figli. Vite infinite.

La cosa peggiore è che, ora che tutti sono stati riconosciuti, non resta nessuno che possa pensare: lui, o lei, potrebbe essere ancora vivo.

La cosa peggiore è l’ignoranza di assassini che non sanno cosa significhi aver portato un bambino nella pancia o averla accarezzata, aver pianto quand’è nato, essersi svegliati di notte quando piangeva, essersi preoccupati quando faceva tardi con gli amici, aver gioito per la sua laurea, aver provato un misto di orgoglio e di nostalgia a vederlo partire per una grande città.

La cosa peggiore è pensare a tutti i genitori condannati a sopravvivere a un figlio, e alla pena che la strage di Parigi rinnova dentro di loro.

La cosa migliore è considerare quanto il dolore ormai appartenga al mondo, quanto sia globale e condiviso: le vittime venivano da 19 Paesi diversi.

La cosa migliore è la consapevolezza che le vittime sono più forti e lasciano segni più profondi dei carnefici.

La cosa migliore è riascoltare la dichiarazione della madre di Valeria Solesin, le uniche parole in italiano sentite in questi giorni alla tv francese - «nostra figlia mancherà molto a noi e anche al nostro Paese», e concludere che è davvero così.

La cosa migliore è rileggere Pasolini, in morte del fratello Guido: «Quanto sia il dolore di mia madre, mio e di tutti questi fratelli e madri non mi sento ora di esprimere. Certo è una realtà troppo grande, questa di saperli morti, per essere contenuta nei nostri cuori di uomini». Ma «senza il loro martirio non si sarebbe trovata la forza sufficiente a reagire contro la bassezza, e la crudeltà e l’egoismo». «Noi alla società non chiediamo lacrime; chiediamo giustizia».


L'articolo originale viene dal Corriere.it, a firma di Aldo Cazzullo. I nomi delle vittime li trovate sul web. Sempre sul web potete trovare tutto, volevo che il ricordo fosse perpetuato dai volti prima che col tempo svaniscano.


2016/01/01

Zuppa di smog a colazione, pranzo e cena...



Scritto da Nicola Porro per il giornale.it

La mini polemica tra il sindaco Pisapia e Beppe Grillo su smog e alberi tagliati a Milano, conforta la tesi dello storico Robert Conquest: «Tutti sono di destra nelle cose di cui si intendono».

Pisapia sembra un pericoloso conservatore quando ricorda al leader dei Cinque stelle che sì, a Milano, sono stati tagliati circa cinquecento alberi, ma per far posto ad una verde metropolitana. Entrambi, vittime dell’integralismo ambientale, sbagliano però il bersaglio.
Non è certo che questo inquinamento sia così mortale come lo dipingono (tra poco lo vedremo) ma è sicuro che nulla ha a che vedere con il mito della deforestazione. In Italia si realizza, i sorrisi si evitino please, un censimento pubblico degli alberi. Ebbene non è mai esistita una stagione (in migliaia di anni dicono gli esperti) con un maggior numero di foreste. 

Vi sembra grossa? Anche a chi scrive, ma è così: abbiamo 210 alberi pro capite. Negli ultimi dieci anni, mentre ci raccontavano del consumo del suolo e piripi piripa, in Italia abbiamo piantumato quasi fossimo dei maniaci di Hay Day. Ecco i numeri totali: nel 2005 avevamo 10,4 milioni ettari di bosco (circa un terzo della nostra superficie); dieci anni dopo l’estensione è salita ad 11 milioni. Il che vuol dire 600mila ettari di boschi in più. Nella sola Lombardia si sono sviluppati 26mila ettari di boschi e foreste aggiuntivi. Tra un po’ gli alberi diventeranno come i cinghiali in Maremma: un discreto fastidio per gli abitanti del luogo.

La relazione tra deforestazione ed inquinamento non funziona più. Anzi, a voler essere polemici essa si sarebbe invertita: più alberi uguale più inquinamento. Tocca inventarne un’altra. E la tendenza riguarda l’intero continente. L’Europa (la fonte questa volta è Forest.org) dal 1990 al 2015 ha piantumato come una pazza. La superficie boschiva è cresciuta di 17,5 milioni di ettari, per intendersi è come dire che in Europa nell’ultimo quarto di secolo è nato un bosco grande come tutto il Friuli Venezia Giulia ogni anno. Piogge acide (ve le ricordate?) permettendo.

Come la mettiamo allora con i 68mila morti in più dell’Italia che si registreranno nel 2015? E di cui i politici illuminati si fanno un gran cruccio. Per Grillo rischiano di essere legati proprio all’inquinamento. Anche l’Oms parla di record di «morti premature», causa smog. Partiamo da una piccola considerazione: quella dei morti è l’unica statistica che si riesce a fare con precisione prima della fine del periodo di osservazione. Ma prendiamoli pure per buoni. Nel 2015 ci potrebbero essere più morti (lo ricordava anche Silvio Garattini) grazie alla chimica. 

Ma non quella inquinante: quella buona. Grazie alla quale siamo tra le popolazioni più longeve del mondo. Si arriva ad un punto in cui però tocca morire: non più a 70 anni, ma in media per le donne in Italia a 84 anni. Questa media si è spostata in avanti e ciò corrisponde ad un effetto statistico semplice: bassa mortalità ieri, recupero oggi. Garattini addirittura ci ricorda come la folle campagna antivaccini (tra cui quelli influenzali soprattutto per i più anziani) stia determinando una piccola, ma pericolosa, epidemia nelle fasce di popolazione più a rischio. 

Riguardo all’Oms e ai suoi morti non bisogna aggiungere molto a quanto scritto da Umberto Veronesi: «Morti premature è un termine ambiguo su cui sono scettici molti scienziati. Tumori al polmone e malattie cardiovascolari riconducibili in qualche modo all’aria che respiriamo sono in diminuzione». Avanti con la prossima frottola ambientalista.

Ps. Per favore considerate la vostra responsabilità ambientale prima di non stampare questo articolo. Se potete, stampatelo su un bel foglio di carta A4, alimenterete così l’industria cartaia, di cui l’Italia era un’eccellenza, contribuirete a generare posti di lavoro e al taglio degli alberi in eccesso.



2015/12/06

Scienza ad capocchiam


Scienza ad capocchiam 

Primo: L’aumento della temperatura del pianeta è stato di 0,8 gradi in quasi un secolo e mezzo circa (dal 1850). Poi nel 1998 si è fermato. Da 17 anni non aumenta più? Di quanto dovrebbe riprendere, nei prossimi pochissimi anni, per portarci ai 4 gradi in più previsti dai religiosi del clima riuniti a Parigi? Nessuno lo dice.... 

Secondo: se in un secolo e mezzo (1850/1998) di piena industrializzazione e di CO2 umana immessa in atmosfera, la temperatura è aumentata di 0,8 gradi come è possibile che nei soli prossimi 80 anni (previsioni dei religiosi del clima) aumenti di 5 gradi? 

Cervellotico. Niente di scientifico. Sciamanismo. 

Dovuto al fatto che siccome non si possono fare previsioni esatte sul clima, data l’inferenza sull’andamento del clima di variabili che lo influenzano e i cui effetti non sono calcolabili, i climatisti hanno scelto, per comodità, un solo criterio (il gas serra immesso dall’uomo, la CO2) ) e su di esso si costruiscono modelli matematici di proiezioni sul futuro. Che non sono dunque previsioni scientifiche. 

Che sono impossibili. 

Terzo: come fa ad essere antropico l’effetto dovuto alla CO2 industriale che è solo il 5% della CO2 naturale in atmosfera. Che è solo, a sua volta, il 10% degli altri gas serra (vapore acqueo e metano ) di origine naturale. Che però hanno un effetto serra cumulato assai maggiore della CO2. La fisica e la chimica nelle proiezioni dei climatisti religiosi sono ad capocchiam. Di catastrofico c’è solo il conto economico delle assurde politiche anti CO2. Che, tralaltro, sono realizzate dalla sola Europa che però nel conto della CO2 internazionale umana (che pure è, come abbiamo visto, infinitesimale) conta come la briscola a merenda. 

Però è sufficiente a tenere bassa la crescita europea. Ai poveracci seguaci della religione del warming sfugge che quelle risorse enormi che pure si spendono inutilmente (perché le emissioni stanno aumentando sempre nonostante le 20 conferenze sul clima che hanno preceduto questa di Parigi) sulla CO2 (emission trading, incentivi fuori portata per le rinnovabili) potrebbero essere spesi per combattere, invece, l’inquinamento, i pericoli alla salute (Hiv, epidemie ecc), per tecnologie a difesa degli eventi estremi (città costiere, assetti idrogeologici ecc).

Quarto: nessun criterio fisico, chimico e ambientale può dimostrare una correlazione tra CO2 e catastrofi climatiche. In 12,000 anni di vita dell’uomo noi abbiamo sperimentato solo effetti benefici della CO2. Perché, invece, un 5% di CO2 umana (sul 95% che è naturale) dovrebbe, in futuro, essere catastrofico? È solo una premonizione religiosa. 

Biblioteche di libri anticonformisti e schiere di migliaia di scienziati (una di essi era la coraggiosa Montalcini) che la dittatura del pensiero unico del warming antropico mette al bando, smentiscono. 

Quinto: la causa dei periodi di riscaldamento (anche assai superiori all’attuale) vissuti in precedenza, quando non c’era CO2 umana, a che erano dovuti? Erano dovuti a cause naturali: oscillazioni dell’asse terrestre, attività del sole, oscillazioni dell’orbita terrestre, cicli degli oceani. Siccome, però, di queste cause fisiche conosciamo ancora poco, i chierici del warming si buttano sulla “politica” delle cause antropiche e della CO2, in mancanza di meglio. 

Scienza da scarpari. 

Ci sarebbe abbastanza da potersi togliere i paraocchi. O no?