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2020/01/01

La Cina è vicina... al crollo finanziario




Più che i "cigni neri", eventi rari e imprevedibili, il Partito comunista teme i "rinoceronti grigi", pericoli noti ed evidenti, come i grandi mammiferi cornuti, ma che rischiano di essere ignorati fin quando non è troppo tardi. La montagna di debito complessivo della Cina, che ha superato il 300% del Pil, è uno di questi bestioni, e nonostante le autorità comuniste stiano già da anni cercando di contenerla il pericolo è tutt'altro che scongiurato. Anzi, nelle ultime settimane i segnali di allarme si moltiplicano: banche locali che fanno crack, l'indebitamento delle famiglie a livelli record, quasi il 100% del reddito disponibile, un aumento dei default delle imprese, perfino quelle di Stato un tempo considerate al sicuro da ogni tempesta.

Per il momento non si tratta ancora di un'emergenza. Un'asta di titoli di Stato per 6 miliardi di dollari conclusa con successo dalla Banca centrale lo conferma. Eppure lo stress finanziario rende molto più stretta la strada del governo, nel momento in cui l'economia cinese sta rallentando in maniera brusca. Un tempo a frenate di questo tipo la leadership rispondeva varando mega stimoli, ora né la Banca del popolo né il governo sembrano intenzionati a rovesciare soldi dall'elicottero: sciogliere le briglie della politica monetaria o di quella fiscale rischierebbe di far crescere ancora l'indebitamento, incentiverebbe bolle speculative e spingerebbe aziende e famiglie a spendere oltre le loro possibilità. 

I rischi finanziari in questo momento non si concentrano tanto a livello centrale, di debito pubblico, quanto alla periferia dell'Impero. Secondo un recente rapporto della Banca del popolo, dei 4.400 prestatori attivi in Cina, 586 sono classificati ad "alto rischio". Si tratta soprattutto di piccoli operatori locali, distributori di contanti che alimentano i sogni di espansione delle aziende e le ambizioni di carriera dei funzionari provinciali. Negli ultimi mesi il governo è dovuto intervenire per nazionalizzare Baoshang bank, semi sconosciuto istituto della Mongolia Interna, poi ha coordinato un salvataggio di altri due operatori, Jinzhou e Hengfeng. A inizio novembre i correntisti di due banche, una dello Henan e una del Liaoning, si sono precipitati agli sportelli per prelevare i loro risparmi, dopo aver sentito di indagini che riguardavano i manager. Solo l'intervento delle autorità ha impedito il collasso, ma in un Paese privo di trasparenza e revisori indipendenti i dubbi sulle reali condizioni delle banchette di provincia restano enormi.

La autorità hanno annunciato che costringeranno gli istituti in difficoltà a puntellarsi, ricapitalizzando, fondendosi e tagliando i crediti deteriorati. È un intervento coerente con l'imperativo della stabilità, in questo caso finanziaria, messo in primo piano da Xi Jinping. Solo che la stretta sul credito voluta dal presidente cinese è anche uno dei fattori, se non il principale, alla base del rallentamento dell'economia. Molte aziende, soprattutto quelle private, senza sponde politiche, faticano a finanziarsi o rifinanziarsi (il loro debito complessivo è al 165% del Pil), proprio mentre i profitti si riducono. Il numero dei default cresce: a inizio dicembre hanno raggiunto i 17 miliardi di dollari, superando il totale del 2018. E tra le imprese che non riescono più a onorare i debiti alcune sono di Stato: mercoledì scorso il gruppo Tewoo, specializzato nel trading delle commodities, ha annunciato che non potrà ripagare un bond da 300 milioni di dollari, proponendo ai sottoscrittori una conversione in perdita, quello che in termini tecnici si chiama "haircut".

È una clamorosa prima volta per un'azienda di Stato, status che fino a oggi offriva la garanzia, implicita ma non per questo meno reale, di un salvagente anti crisi. Ora il messaggio del governo sembra essere diverso: non tutti potranno essere sostenuti. In teoria è un segno di maturità del sistema, in pratica rischia di trasformarsi in un terremoto, considerato che nell'economia cinese il rischio creditizio non è mai stato davvero prezzato dal mercato.

Per Xi e i suoi consiglieri economici dunque i prossimi mesi si annunciano un complicato gioco di equilibrismo tra contenimento del debito e stimolo alla crescita. Da condurre con aggiustamenti quotidiani e cercando di evitare contraddizioni, per quanto possibile. Nei giorni scorsi il governo ha ordinato alle province di procedere all'emissione di bond per finanziare le infrastrutture, anticipando le quote previste per i primi mesi del prossimo anno. Nuovo debito per evitare una frenata troppo brusca, ma nuovo debito che sarà sempre più difficile onorare in un'economia dalla produttività stagnante. Con il rinoceronte grigio prima o poi Pechino dovrà fare i conti.

2019/12/27

Geo-Tracking




La mia nuova televisione mi ha appena chiesto di sapere dove sono. È una tv intelligente, una smart tv, di quelle collegate ad Internet. Per configurarla non si usa il telecomando ma una app da scaricare sul telefonino che promette di collegare tutti gli elettrodomestici in modo da poterli controllare anche quando non sei in casa. Mica male. Mi venisse voglia di parlare con il frigo all'improvviso, saprei come fare. 

Ma per procedere la app pretende di conoscere la mia posizione. Sempre. Cosa vorrà mai sapere? Se sposto la tv da 70 pollici dal soggiorno alla camera da letto? 

Qualunque cosa facciamo, qualunque app usiamo, da qualche tempo ci chiedono di conoscere la nostra posizione. Non succede per caso. La Corte di Giustizia europea qualche mese fa ha ribadito che il consenso al geo-tracking non possa più essere implicito: ce lo devono chiedere espressamente. In breve: il monitoraggio della nostra posizione le app lo facevano già prima ma ora serve il nostro permesso. Che di solito arriva subito, con un clic infastidito, come se dovessimo liberarci da una incombenza. Che vuoi che sia. Che male fa. A chi vuoi che importi di sapere in quale stanza guardo la tv o cucino. È il consenso accordato in fretta, un consenso informato ma solo teoricamente.

A volte in effetti la cosa appare molto sensata: se state usando una app con le previsioni del tempo, far conoscere la propria posizione può servire per ricevere un avviso in caso di temporale improvviso in zona. In altri casi sembra addirittura inevitabile: una app sul traffico stradale o per il servizio taxi deve per forza sapere dove siete per servirvi meglio. Ma perché vogliono sapere dove siete anche quando non usate la app? Perché l'utilizzo di quei dati di solito non si ferma lì. Con la nostra autorizzazione, in pochi istanti compiono un viaggio segreto nel senso che non sappiamo nulla delle tappe e dei destinatari. Sappiamo solo che nelle oscure informative sulla privacy vengono chiamati "terze parti" o "partner". E di solito li autorizziamo a fare quello che vogliono.

Quei partner poco conosciuti

Un esempio: il 1 gennaio andrà in vigore la nuova privacy policy di un grande editore americano che pubblica riviste di lusso in tutto il mondo. Nella privacy policy si chiede di accettare il cosiddetto "Oba", l'online behavioral advertising, una pubblicità adatta al nostro comportamento. Per farlo, dicono, hanno bisogno di sapere tutto di noi: l'editore e i suoi partner. Quali? Boh. Cosa? C'è un elenco piuttosto esaustivo: la marca e il modello del pc o dello smartphone, le preferenze, il sistema operativo e il browser che usiamo per navigare. E poi dove siamo, il luogo esatto e l'ora, le pagine che abbiamo visitato, quanto tempo ci siamo stati, come abbiamo reagito a contenuti e inserzioni. 

Con quali garanzie? 

Nessuna: l'uso di tecnologie di monitoraggio da parte dei partner, dice il testo, è soggetto alle loro privacy policy e noi non ne vogliamo sapere nulla. Ponzio Pilato in confronto era un gigante. 
Sorveglianza globale

Il problema non è commerciale. 

Quello che stiamo iniziando a capire è che quel viaggio dei dati non cambia soltanto il nostro destino di consumatori - ci fanno comprare quello che vogliono, proponendocelo magicamente al momento giusto e nel posto giusto - ; ma alla fine compromette la nostra libertà e quindi la democrazia. Come questo possa accadere, come quel banalissimo dato personale condiviso con la smart tv possa contribuire a creare il più capillare sistema di sorveglianza personale di massa che l'umanità ricordi, è il senso di questa storia. 

In principio erano i cookie

Partiamo dalla fine. Qualche giorno fa due giornalisti del New York Times hanno pubblicato il risultato di una lunga inchiesta che è partita quando qualcuno ha girato loro i dati di 12 milioni di telefonini di cittadini americani relativi ad alcuni mesi del 2016 e del 2017. In un unico documento (data set), c'erano circa 50 miliardi di informazioni geografiche, il punto esatto dove stavano quei telefonini e quando si sono spostati. Teoricamente si tratta di informazioni anonime: nel senso che non dovrebbe essere possibile risalire all'identità del possessore del telefonino. Ma non è così. Ci sono nel mondo cinque o sei grandi società che si occupano di ricostruire le nostre identità digitali con una precisione da far invidia ai restauratori della Cappella Sistina. 

Si chiama data cleansing ed è la combinazione di tutti i dati personali che condividiamo quando navighiamo. In principio erano solo i cookie: piccoli pezzetti di software che ci agganciano quando visitiamo un sito per acquisire informazioni. Alcuni servono per "visitarlo meglio": non ci fanno scrivere ogni volta la password, ci mostrano i contenuti che ci interessano di più. Altri, di solito cookie di terze parti, cioé non gestiti dal sito, ci profilano e basta. Non memorizzano solo le pagine che visitiamo (per capire i nostri interessi e mostrarci le pubblicità più adatte), ma sanno anche quale computer usiamo, con quale sistema operativo, eccetera.

Se poi ci siamo collegati usando le credenziali di Facebook o il browser di Google, Chrome, sanno anche nome, cognome, indirizzo e telefono. Inoltre se invece del pc, stiamo usando un telefonino, su ogni pagina ci sarà un piccolo file trasparente delle dimensioni di un pixel (0,01 centimetri per lato) che svolge questo compito, compreso conoscere la tua posizione sempre, visto che il telefonino lo porti sempre con te. Lo scorso anno un professore della Vanderbilt University, Douglas Schmidt, ha pubblicato il risultato di una ricerca intitolata "Google Data Collection", nella quale ha dimostrato che uno smartphone con un sistema operativo android (quello installato su oltre otto telefonini su dieci nel mondo), anche quando non lo stiamo usando, se ha il browser Chrome attivo, segnala la nostra posizione a Google circa 340 volte al giorno. Quattordici volte ogni ora. 

Incrociare i dati

E quindi, sì certo, il dato della mia posizione in questo momento è anonimo, ma quanto ci vuole ad incrociarlo con tutte le altre tracce digitali che ho scelto più o meno consapevolmente di condividere? Ci vuole pochissimo, meno di un quarto d'ora, se lavori per una di quelle società che ricompongono il puzzle. Ma quel puzzle non è un gioco, è la nostra vita: chi siamo, cosa facciamo, dove andiamo. Con chi. Combinato con il nostro profilo psicologico che noi stessi aggiorniamo in tempo reale: cosa ci piace e cosa non ci piace. Il pulsante like introdotto da Facebook dieci anni fa e adottato da tutti i siti è un formidabile sondaggio continuo al quale ci sottoponiamo ignari del fatto che anche questo innocuo pezzetto andrà a comporre il nostro puzzle. 

I giornalisti del New York Times da quel set di dati, relativo soltanto a 12 milioni di smartphone monitorati per alcuni mesi, hanno scoperto chi di notte aveva visitato la Playboy Mansion di Los Angeles; chi era entrato nelle ville hollywoodiane di Tiger Woods, di Johnny Depp, di Arnold Schwarzenegger; ma anche chi era andato alla cerimonia di insediamento del presidente Trump e quelli che invece avevano manifestato contro il presidente. 

La marcia delle donne. 

Nomi e cognomi. Con tutto il resto. Volendo è facile: su una mappa prendi un puntino, il segnale di un telefonino, e un software ti dice tutto il resto, compresa la ricetta dei ceci e in quale stanza guardi la tv. Non è divertente. Anzi a volte è macabro. Come la storia di quei due telefonini che ogni giorno si spostavano da una casa ad un ospedale per malati di cancro. Ad un certo punto uno, quello della moglie, ha smesso di funzionare. E sull'altro, il marito che ancora non sapeva di essere vedovo, è apparsa la pubblicità di un servizio di pompe funebri. 

Non è solo marketing

È marketing, si basa su una metrica che si chiama "Cpm", che vuol dire cost per thousand, costo pagato per migliaia di persone che vedono un certo annuncio. Lo vedono perché gli interessa, perché magari hanno cercato quella parola su Google. Ma grazie alla georeferenziazione è nato il marketing di prossimità, che è molto più efficace non solo perché quella pubblicità la vedi quando passi accanto al negozio giusto; ma perché di te si sa anche quando guadagni, quanto spendi, se hai una amante. Tutto. A certi inserzionisti piace vincere facile. 

Il problema non è solo il nostro conto in banca, che nel magico mondo dell'Oba è solido come un castello di sabbia; è la nostra libertà. Il New York Times ha osservato che i giovani che manifestavano a Hong Kong qualche settimana fa, avevano una maschera sul viso per sfuggire ai sistemi di riconoscimento facciale; ma intanto i loro telefonini dicevano tutto di loro.

Ma ora tocca alla politica 

In Europa teoricamente siamo un passo avanti anche grazie al fatto di aver avuto giuristi illuminati come Stefano Rodotà e Giovanni Buttarelli, innamorati della rete ma consapevoli dei rischi di abusi. E così già nel 2011 è stata approvata una direttiva per il consenso informato sui cookie. E nel maggio del 2018 è entrato in vigore il regolamento sulla gestione dei dati personali (Gdpr) che ha ispirato regole simile che stanno per andare in vigore in California. 

Un grande successo che però può rivelarsi una beffa. Nel marzo del 2018 il quotidiano The Guardian rivelò che 50 milioni di profili Facebook erano stati utilizzati illegalmente per condizionare le elezioni presidenziali americane del 2016. Era l'inizio dello scandalo Cambridge Analytica. A quasi due anni di distanza, anche per effetto di una applicazione distratta delle nuove norme, quel sistema che tanto aveva scandalizzato il mondo, sembra diventato la norma. 

Con il nostro consenso, è diventato legale ammassare i nostri dati personali e ricostruire le nostre identità digitali con una granularità che nulla ha a che fare con "l'erogazione del servizio". 

Che fare? 

Noi utenti abbiamo il dovere di prestare più attenzione a quel che facciamo, potremmo revocare i vari consensi prestati (non facilissimo), ma rischia di rivelarsi utile come svuotare l'oceano con un cucchiaio: neghi un consenso per una app e intanto il browser dice tutto di te. Spetta ai Garanti della Privacy difenderci, e alla politica prendere il tema sul serio. Ma in Italia l'attuale Garante Antonello Soro da sei mesi può gestire solo l'ordinaria amministrazione perché i partiti non si mettono d'accordo sul successore (Soro a Repubblica ha detto di interpretare l'ordinaria amministrazione "in senso lato" e quindi senza limitazioni sulle indagini).
In fondo si tratta di rispondere ad una semplice, banalissima domanda: se una legge ci avesse imposto di andare in giro con un braccialetto che ci spia sempre, cosa avremmo fatto? La rivoluzione, minimo. In questi dieci anni lo smartphone, le app, la rete ci hanno migliorato la vita, ma il prezzo non può essere la nostra libertà. 

Post scriptum. 

La sera del 23 dicembre, sei ore dopo la pubblicazione di un post sul sito di Repubblica sul tema il chief innovation officer di Mondadori Andrea Santagata, ha informato il giornale di aver modificato la privacy policy della app di ricette di cucina "Giallo Zafferano", levando l'autorizzazione a terzi ad usare i dati degli utenti, "autorizzazione", ha aggiunto, che non è presente nei contratti con i partner e che quindi non è mai stata concessa loro e che sarebbe comparsa nella nuova privacy policy "per errore".

2019/12/25

Non dimenticatevi di me


“Non dimenticatevi di me”, queste le ultime parole che un uomo in fin di vita lascerebbe per i suoi cari. Scontato? Non tanto. 

Nel tempo delle passioni fugaci anche i ricordi più importanti svaniscono. Il rischio: niente di prima nell’oggi, niente futuro che passi memoria. Non possono darsi progetti che non fanno i conti con le proprie radici. Eppure sembra inarrestabile la volontà del nostro tempo di cancellare la memoria, non solo la storia collettiva, ma la personale, familiare. Bisogna compiere uno sforzo immane per salvarci dalla banalità di un tempo dove non c’è spazio per i ricordi. Anche la cenere che fu corpo è meglio consegnarla al vento.

Oggi più che mai la necessità di lottare per la memoria di chi si è amato è un dovere della salvaguardia dell’umano, non solo per la storia individuale, ma per un’attitudine collettiva alla memoria tradita. A morire si muore tutti, anche se spesso colpevolmente lo dimentichiamo. Paura della morte? Forse. 

Ma la morte, paura o meno, arriva comunque e il rischio è morire da morti senza lasciare nulla di sé. Dovrebbe far paura non la morte finale, ma vivere da morti mentre la vita si distende, quella sì che dovrebbe preoccupare, una vita senza qualità, senza affetti, senza bene consegnato. Il male fatto semina dapprima odio e rancore e poi come logica conseguenza nasce il bisogno di cancellare per sempre la memoria di chi lo ha fatto. Il bene resta, fruttifica in chi riconoscente si aggrappa alla memoria come eredità da accrescere, rende possibile la lotta quotidiana provocando “una corrispondenza di amorosi sensi”.

Possiamo nutrirci di quei singolari momenti per poter affrontare la vita con altra sostanza, con inaudita forza. E come prendere fiato prima di andare sott’acqua. Se riesci a portare nel tuo cuore e nella tua memoria il bello del passato che hai provato, la vita che ti è stata consegnata da chi ti ha preceduto, anche se i luoghi e i tempi di quelle emozioni forti sono ormai lontani, nulla ti vieta di tuffarti proprio in quello spazio dei ricordi in cui trovare forza per trasformare il presente in perenne ottimismo. Nietzsche sosteneva che gli uomini più grandi sono rimasti celati. 

Il rischio c’è se chi si è arricchito della loro vita non esercita il dovere della memoria. Non così dove l’amore sa raccontare il passato al presente, la riconoscenza, la passione di un incontro che la morte non uccide. Porteremo le loro foto nei nostri portafogli, le metteremo in portaritratti sui nostri comodini, ne faremo dipinti che fissino nella tela il loro sguardo, ma soprattutto li terremo impressi nei nostri cuori e nelle nostre menti. E chiameremo memoria la loro vita e della loro vita ricorderemo il giusto e la giustizia. E la racconteremo come esempio da tramandare ai nostri figli.

“Papà mi diceva”, “la mamma mi ha insegnato”, e la vita di chi ha consegnato vita continuerà a respirare nella nostra, porterà a compimento il suo destino. Memoria è legare amore con amore, è fare giustizia dell’amore di chi giusto mi ha insegnato la vita. Maestro, amico, amante, padre, madre, uomo, donna, giusti che hanno salvato il mondo senza saperlo, perché hanno salvato la mia vita: “salva una vita sola e hai salvato il mondo intero”.

A Gerusalemme esiste il “viale dei giusti” dedicato a quegli uomini e a quelle donne che, pur non essendo ebrei, in nome della umanità e della giustizia, hanno messo a rischio la propria vita, per salvare dalla morte e dalla persecuzione degli innocenti mandati al macello dall’ingiustizia umana. Per ognuno di questi eroi, persone comuni ma semplicemente fedeli all’umanità che vestivano, è stato piantato un albero che porta il loro nome. Nei viali della nostra storia personale dovrebbero essere piantati gli alberi dei tanti giusti che coprono con la loro ombra la nostra vicenda umana. 

E se gli uomini non sono capaci di dare merito a chi li ha salvati dalla banalità e dal degrado il loro nome sarà cancellato dalla memoria presente, ma di sicuro i nomi dei giusti saranno per sempre impressi in cielo. Ricordando imparo dal passato dei trapassati il mio dovere presente, la gioia e il dolore del quotidiano da vivere con dignità, appassionato e curioso di quanto la vita mi offre, pronto a dare il mio contributo per renderla migliore per tutti.

2019/12/24

Perché la app di ricette vuole sapere dove sono?





Ieri sera ho aperto la app che uso da molti anni per cucinare. Una app di ricette. 

Volevo un consiglio su come usare i ceci in modo nuovo. Prima della risposta mi ha chiesto il permesso di poter seguire i miei spostamenti. Si chiama geo-tracking ed è l’attività che alcuni pezzetti di software svolgono: ci seguono in tempo reale. 

Ufficialmente per darci informazioni georeferenziate: le notizie della città dove ti trovi, le previsioni del tempo che davvero ti interessano. Ma anche offerte commerciali: guarda che in quel negozio c’è una cosa che fa per te. Si chiama marketing di prossimità. 

Ok, ma le ricette di prossimità che roba sono? Perché una app di cucina ha bisogno di sapere dove mi trovo per darmi dei consigli? Pasta e ceci si fa sempre nello stesso modo, a meno che uno non voglia adattare la ricetta agli ingredienti locali. In altri tempi avrei cliccato ok, dando il permesso.


Ma qualche giorno fa ho letto una poderosa inchiesta del New York Times su questo tema: dice che quei dati consentono di fatto di identificare e spiare chiunque. Possono documentare tradimenti coniugali, inclinazioni politiche, trattative commerciali o anche malattie. 

Volendo, si sa tutto. Tu dai il consenso per una app che ti dice che tempo fa, per esempio, e quei dati vengono rivenduti a società che costruiscono profili sempre più dettagliati. Al punto di poterci identificare uno per uno. Sono tornato così a vedere i termini della privacy della mia app di cucina preferita. 

Dice che i miei dati vanno ad un grande editore italiano, ok; ma anche a tre multinazionali di cui non avevo mai sentito parlare, che di mestiere raccolgono dati che a loro volta hanno dei partner, non menzionati, con cui potranno condividere i miei dati. La mia posizione mentre faccio pasta e ceci, ma anche tutto il resto. Mi sembra troppo. 

Ci vorrebbe un garante della privacy, ma da sei mesi i partiti non riescono a trovarne uno e si sono appena presi altri tre mesi di tempo. Nel frattempo userò un libro di ricette.

2019/11/28

FRANA DI GOVERNO



Non so se ci si rende conto che il governo del premier Conte, incensato dalla TV e dai media buonisti-progressisti, sta inanellando un “buco” dopo l’altro.

Le acciaierie di Taranto sono state messe in crisi anche dallo sconsiderato emendamento del M5S sulla revoca della tutela penale pregressa, l’operazione Alitalia è bloccata e – giunti alla ottava proroga dei tempi -  non si muove foglia, ma intanto perde 900.000 euro al giorno, mentre per la nuova legge sulla prescrizione dei processi non ci si capisce più nulla, così come la “querelle” sul fondo salva stati a livello europeo che ha tutte le caratteristiche di un mega-pasticcio.

La manovra economica resta un ibrido che cambia tutti i giorni aumentando il deficit per far contenti tutti in vista delle elezioni emiliane (con l’Europa che fa finta di essere distratta) e intanto il paese sprofonda come i suoi viadotti.

Certo, per Conte è sempre colpa di quelli “di prima” ma era proprio lui il premier quando è crollato il ponte Morandi e quel genio di Toninelli - che doveva risolvere tutto - non ha fatto neppure fatto partire l’indagine sui viadotti pericolanti che intanto continuano a crollare. Ma cosa si aspetta per penalizzare concretamente quelle società autostradali che hanno guadagnato (e continuano a guadagnare) fortune colossali ma non hanno neppure controllato la manutenzione?

Le divisioni interne al governo sono quotidiane e logoranti con il PD contro i 5 Stelle, e Renzi (nei guai giudiziari e di immagine) che ce l’ha contro tutti: non c’è una sola materia dove ci sia un minimo di coesione, solo la paura ad affrontare nuove elezioni.

MA QUESTA PAURA NON STA CONDANNANDO L’ITALIA AL BLOCCO, ALLA PARALISI, ALLA RECESSIONE?

RIFLETTETE: C’E’ UN PROBLEMA CHE SIA STATO RISOLTO IN QUESTI ULTIMI MESI?

2018/06/01

Zodiac e il Mostro di Firenze

"Io Zodiac e il Mostro? Bugie" Ma l'ammissione è registrata

Pubblicato sabato, 02 giugno 2018 ‐ Il Giornale.it
Francesco Amicone, Firenze. Giuseppe Joe Bevilacqua ha smentito di essere il Mostro di Firenze e Zodiac. "Non ho confessato di essere l'autore dei delitti a loro attribuiti per il semplice fatto che non li ho commessi. Queste notizie - ha detto l'ex militare americano accostato da un recente inchiesta giornalistica del Giornale alla figura dei due serial killer - hanno gravemente leso la mia dignità ed onorabilità, e turbato la serenità dell'intera mia famiglia. Per tali ragioni ho già attuato le vie legali per la tutela dei miei diritti".Se qualcuno gli avesse posto una domanda anche più diretta "Signor Bevilacqua, lei è un'idiota?" la notizia sarebbe stata se avesse risposto di "sì". Ma questa non è una notizia. È l'avvocato di Bevilacqua che dice che il suo assistito non ha ucciso 14 persone. Ma forse l'avvocato farebbe bene a porgli domande migliori. Il suo assistito può ancora giocarsi la carta del pentimento (con ritardo dovuto alla paura, stavolta). A conferma che la smentita di Bevilacqua non conta niente non c'è soltanto il buonsenso, ma anche le sue parole (intercettate) dell'11 settembre 2017, quando al telefono disse (fra le altre cose) al suo biografo: "Loro lo sapevano", riferendosi alla sua vita da serial killer e ai suo colleghi del Criminal Investigation Detachment, Ray D'Addario e Joe Colombo.Il biografo non crede che sia vero (che i suoi colleghi lo sapevano). Ma ci sono altri aneddoti, oltre alle ammissioni di settembre. Uno di questi è quando Bevilacqua seduto di fronte al suo biografo al Bar Marconi di Falciani disse dove Zodiac poteva avere portato il corpo di Donna Lass, una delle sue vittime. Non solo: fece un cerchio attorno al luogo.Era un giorno di metà estate del 2017. Fu la prima volta che si accennò a Zodiac, fra Bevilacqua e il biografo. Proprio a pochi chilometri dalla sua ex casa (a 300 metri dall'ultimo delitto del Mostro) e a pochi chilometri dalla palestra di Tavarnuzze che dal 1979 porta (ma è una coincidenza) lo stesso nome del killer: Zodiac. Ecco, Bevilacqua al Bar Marconi, fu interrogato dal biografo in merito alla sua presenza nel 1970 sul Lake Thaoe (20 secondi di silenzio, per rispondere "sì, ma non posso parlarne"). Ammise di essere stato nei pressi delle scene del crimine di Zodiac nel medesimo periodo dei suoi delitti (Santa Rosa, 1969 e Riverside, 1966) ma inoltre si lasciò scappare una battuta che avrebbe potuto risparmiarsi (con il senno di poi). Infatti, alla domanda del biografo: "Dove avresti portato un corpo tu se fossi stato il serial killer?", dopo qualche ipotesi al volo, fece con decisione un cerchio attorno a un luogo preciso: "A Heavenly Valley", disse ridendo. Il biografo gli chiese: "Perché?". Bevilacqua rispose (sempre ridendo): "Perché significa paradiso".È risaputo che Zodiac sosteneva che le sue vittime sarebbero finite nel "Paradiso degli schiavi". Quello che non tutti sanno è che le due lettere dell'ottobre 1970 che alludevano alla sparizione di Donna Lass sul Lake Tahoe portavano un particolare francobollo con la dicitura: In the beginning God.... La frase biblica continua così: created the Heavens. In principio Dio creò i Cieli. È possibile che Bevilacqua ne abbia ancora un paio del tutto simili nella sua collezione di francobolli che tiene a casa, di fianco all'album fotografico con la croce celtica. Basterebbe mandare qualcuno a darci un'occhiata. Non c'è niente di cui avere paura...

UE in affanno, arriva Savona



Il rebus del governo si è risolto secondo un principio matematico innegabile: cambiando l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia. Insomma, se era tutto un problema di caselle legato al nome e all’eventuale ruolo del prof Savona, il triumvirato Conte-Salvini-Di Maio l’ha risolto spostando Cincinnato in una posizione ancor più strategica e incisiva in ambito Ue di quanto avrebbe potuto essere quella da titolare del Mef. E allora, come Tito Livio ebbe a definire il politico romano «Spes unica imperii populi romani» («ultima speranza per l’autorità del popolo romano») anche i media odierni – detrattori e sostenitori, indifferentemente – vedono nell’economista “pomo della discordia” una figura cruciale di “radicale eurocritico”, “ultima speranza” istituzionale di ridisegnare i contorni problematici dei rapporti tra Roma e Bruxelles.

Savona, il Cincinnato del governo giallo-verde

Professore di economia, ex ministro del governo Ciampi ed ex presidente del Consiglio di amministrazione di molte e importanti banche e società italiane, accademico di lungo corso e fine analista, il suo curriculum non è certo quello di un outsider di rango, ma quello dello stratega che non vuole sottoscrivere il forfait dell’Italia dall’euro, semmai creare le condizioni per la riforma della Ue in modo da salvare gli obiettivi fondanti prefissi. E così, se da ministro dell’economia avrebbe potuto avvicinarsi all’obiettivo, con la nomina – effettiva con il giuramento delle 16 di questo pomeriggio – al vertice del dicastero degli Affari Europei con il coordinamento delle politiche comunitarie potrà centrare l’obiettivo e da una posizione privilegiata. Del resto, stando a quanto riferisce il Giornale online in queste ore, «per accettare, Savona ha giustamente posto alcune pregiudiziali, a cominciare dalla possibilità che gli è stata accordata di andare a ricoprire un ministero «contiguo».

Cambiare la UE per riformarla, non per annientarla

E così, l’ex Bankitalia ed ex Confindustria, dopo aver indicato lui stesso il nome di  chi sederà dietro la scrivania in via Veneto, destinata nelle intenzioni iniziali proprio a lui,ribadisce e sottolinea – come registrato dal quotidiano diretto da Sallusti – di essere «stato chiamato per le mie competenze europee perché ho seguito da vicino le vicende di Bruxelles fin dai primi passi della Ue. È giusto, quindi, che io possa fornire il mio contributo senza che sia tirato nuovamente in ballo l’accusa di essere nemico dell’euro». E allora, la domanda oggi diventa: «Chi è più europeista?» Chi  sta minando dalle fondamenta le possibilità di sopravvivenza della Ue o chi, come il prof Savona, e come da lui specificato, punta ad aprire un dialogo con i nostri partners chiedendo la riforma per salvare gli obiettivi che si era prefissa?…

2018/05/28

Colpo di Stato



Copio qui la lettera aperta del Professor Paolo Savona indirizzata a tutti quelli che non l'hanno voluto come minostro dell'economia.
E' doveroso ricordare che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha rifiutato il Prof. Savona perché spaventato dalla minaccia di uscire dall'Euro ma anche dal ricatto di istituzioni straniere, prima tra tutti Moody's che hanno affermato di voler ridurre il rating dell'Italia se Savona fosse diventato ministro.
Il presidente ha quindi tradito la fiducia degli italiani cedendo al ricatto esterno di chi, nel nostro paese non conta nulla ma specula largamente sulla nostra economia e sui nostri risparmi.
Peggio di così l'Italia potrà andare, segnatevelo, ormai siamo in caduta libera.

Governo, Savona: "Ho subìto un grave torto da Mattarella"

Ho subito un grave torto dalla massima istituzione del Paese sulla base di un paradossale processo alle intenzioni". La risposta di Savona a Mattarella.


Ho subito un grave torto dalla massima istituzione del Paese sulla base di un paradossale processo alle intenzioni di voler uscire dall’euro e non a quelle che professo e che ho ripetuto nel mio Comunicato, criticato dalla maggior parte dei media senza neanche illustrarne i contenuti. Insieme alla solidarietà espressa da chi mi conosce e non distorce il mio pensiero, una particolare consolazione mi è venuta da Jean Paul Fitoussi sul Mattino di Napoli e da Wolfgang Münchau sul Financial Times. 

Il primo, con cui ho da decenni civili discussioni sul tema, afferma correttamente che non avrei mai messo in discussione l’euro, ma avrei chiesto all’Unione Europea di dare risposte alle esigenze di cambiamento che provengono dall’interno di tutti i paesi-membri; aggiungo che ciò si sarebbe dovuto svolgere secondo la strategia di negoziazione suggerita dalla teoria dei giochi che raccomanda di non rivelare i limiti dell’azione,perché altrimenti si è già sconfitti, un concetto da me ripetutamente espresso pubblicamente. Nell’epoca dei like o don’t like anche la Presidenza della Repubblica segue questa moda.

Più incisivo e vicino al mio pensiero è il commento di Münchau. Nel suo commento egli analizza come deve essere l’euro per non subire la dominanza mondiale del dollaro e della geopolitica degli Stati Uniti, affermando che la moneta europea è stata mal costruita per colpa della miopia dei tedeschi. La Germania impedisce che l’euro divenga come il dollaro “una parte essenziale della politica estera”. Purtroppo, egli aggiunge, il dollaro ha perso questa caratteristica, l’euro non è in condizione di rimpiazzarlo o, quanto meno, svolgere un ruolo parallelo, e di conseguenza siamo nel caos delle relazioni economiche internazionali; queste volgono verso il protezionismo nazionalistico, non certo foriero di stabilità politica, sociale ed economica. 

È il tema che con Paolo Panerai ho toccato nel pamphlet recentemente pubblicato su Carli e il Trattato di Maastricht, dove emerge la lucida grandezza di Paolo Baffi. L’Italia registra fenomeni di povertà, minore reddito e maggiore disuguaglianze. Il 28 e 29 giugno si terrà un incontro importante tra Capi di Stato a Bruxelles: chi rappresenterà le istanze del popolo italiano? 

Non potrà andarci Mattarella, né può farlo Cottarelli. Se non avesse avuto veti inaccettabili, perché infondati, il Governo Conte avrebbe potuto contare sul sostegno di Macron, così incanalando le reazioni scomposte che provengono dall’interno di tutti indistintamente i paesi-membri europei verso decisioni che aiutino l’Italia a uscire dalla china verso cui è stata spinta. Münchau giustamente afferma che “teme non vi sia un sostegno politico nel Nord Europa” e quindi non ci resta che patire gli effetti del protezionismo e dell’instabilità sociale. Si tratta di decidere se gli europeisti sono quelli che stanno creando le condizioni per la fine dell’UE o chi, come me, ne chiede la riforma per salvare gli obiettivi che si era prefissi

2018/05/13

I magnifici 7



Onore e gloria ai vincitori, rispetto per i vinti. Se la Juventus e metà dell'Italia calcistica oggi festeggia la vittoria del settimo scudetto consecutivo, bisogna anche dare atto ai concorrenti che hanno provato sempre e comunque a togliere lo scettro alla regina e, se non sono stati capaci di scalfire il primato della Juventus, non è solo colpa di giocatori non all'altezza della concorrente, e nemmeno di allenatori e strutture. Spesso è stato quel servilismo tutto italiano che ci accompagna dalla fine della guerra e che si chiama Fiat. Oggi ha vinto la Juventus, vincerà anche il prossimo anno e molti anni ancora se non si trova una strada per uscire da questo dominio. Questo è evidente in Europa dove la Juventus non batte chiodo da anni. Una dominazione assoluta in Italia e quasi il nulla in Europa la dicono lunga su come viene considerata la squadra torinese. Se qualcuno non si decide a cambiare le carte in tavola temo che questa storia continuerà a lungo. Trovate una soluzione, trovatela voi, ho tante idee in mente, temo di non avere abbastanza frecce nel mio arco.

Uno 0-0 molto scontato ha consegnato lo scudetto alla Juventus. Non è servita nemmeno la vittoria del Napoli a Genova contro la Sampdoria. Roma-Juventus è stata una festa per due, per i bianconeri che hanno festeggiato sul campo di una rivale storica e per la Roma che pur passando dal secondo posto dello scorso anno a un probabile terzo trova comunque la qualificazione in Champions League. Se per la Juve le vittorie sono scontate e quasi dovute, per le altre certi traguardi non sono poi mai così sicuri.

La Juventus festeggia il suo settimo scudetto consecutivo all’Olimpico a Roma. L’Italia che non tifa Juventus - diciamo almeno una metà abbondante - sperava stavolta in un finale diverso, ma alla fine ha dovuto accettare un verdetto scontatissimo, atteso. Il solito.

E’ stato l’anno forse in cui la Juventus ha rischiato di più, perché il Napoli sembrava davvero poterle tenere testa: ha avuto gioco, grandi giocatori, fiducia, un pubblico che l’ha spinto e sostenuto fino all’ultimo, un grande allenatore - Maurizio Sarri -  talmente stremato dal confronto con la Juve da rischiare forse di non rimanere e di non potere (e volere) ripetere un’esperienza del genere. Ma è andata come tutti sappiamo, la Juventus ha vinto perché il suo diretto avversario ha perso la pedalata, è crollato in volata. E alla fine di quella grande sfida restano sostanzialmente i veleni a fare notizia. Non è facile accettare un dominio del genere, se ne cerca un’ingiustizia di fondo anche perché questo rende di per sè più accettabile la sconfitta.

La Juventus ha dovuto sudarselo questo scudetto. Le si rinfaccia continuamente il “non gioco” senza pensare che la Juve è una squadra in evoluzione continua e che storicamente - dall’epoca di Trapattoni a quella di Allegri - rappresenta il massimo dell’italianità nel calcio. Per cui lo spettacolo non ce l’ha nel dna, anche se poi può assortire i migliori attaccanti e i migliori talenti in circolazione: Higuain, Dybala, Douglas Costa, Mandzukic, Cuadrado, Bernardeschi. Ne ha talmente tanti la Juve da non poterli far giocare tutti insieme. E’ chiaro che il suo vantaggio sul resto del calcio italiano è soprattutto questo, aver saputo accumulare negli anni tanta ricchezza tecnica. Da far poi pesare al momento di fare i conti.

E’ soprattutto lo scudetto dell’ultima stagione (forse…) di Gigi Buffon. A 40 anni e 17 stagioni in bianconero Gigi è stato ancora il migliore. Ma un calciatore - ammesso che un portiere sia “solo” un calciatore e non qualcosa di più -, soprattutto un grande campione, deve sapersi porre un limite, non trascinarsi oltre, lasciare magnanimamente il posto che del resto lui prese ad altri portieri: Bucci, Nista, Van der Sar, per trovare i predecessori di Buffon bisogna scavare nell’album Panini. E’ arrivato il suo turno, meglio farlo col sorriso e senza drammi.

Massimiliano Allegri ha curiosamente accumulato vittorie e critiche, pur essendo ancora giovane soffre l’evolversi di un calcio teorico e a volte irrealistico. Fare meglio e di più di Antonio Conte non era facile, quasi impossibile se si pensa che fu contestato pesantemente non appena mise piede nel 2014 a Vinovo. In questi anni ha più volte rinnovato la Juve o meglio si è trovato spesso a dover inserire giocatori nuovi che la politica aziendale gli ha messo a disposizione, anche se quasi sempre campioni di grande qualità e alto costo. Ha avuto delle crisi e delle incertezze, certo, ma non sono mai durate più dello spazio di qualche giornata di campionato, così da non compromettere il risultato finale. Non capisco cosa gli si possa chiedere di più e perché il tiro ad Allegri sia diventato un perfido e irriconoscente sport nazionale.

Nel complesso bisogna riconoscere che Agnelli e Marotta hanno saputo dare stabilità a un club che si è rinnovato continuamente proprio per evitarne l’involuzione. Guardate la prima Juve di Antonio Conte e guardate quella del settimo scudetto consecutivo, sono squadre che a parte un certo zoccolo duro ormai ridottissimo  e via via sempre meno utilizzato (da ultimo Marchisio) sono completamente trasformate. E’ stato questo il segreto della continuità, non rimanere mai gli stessi, cercare sempre stimoli nuovi.

Lo dirò abbastanza chiaramente ma senza alcun veleno. Non tutto il merito dei sette scudetti della Juventus sono merito intero della Juventus. Sono merito anche di avversari che non hanno avuto la sua stessa capacità imprenditoriale e soprattutto tecnica. La scomparsa di Milano a questi livelli alla fine ha spianato la strada al club più forte. O queste squadre si attrezzano su tutti i fronti per ridurre il gap o di scudetti consecutivi la Juve arriverà a vincerne dieci.

2018/04/14

Acqua è vita



Bere 2 litri d'acqua al giorno. Ecco una raccomandazione molto comune per mantenersi in salute e garantire il benessere. Sappiamo davvero perché l'idratazione è così importante? In verita', la quantità d'acqua da assumere ogni giorno può variare in base a numerosi fattori, come lo stato di salute, l'attività fisica svolta e il luogo in cui si vive.

L'acqua è una delle componenti principali del nostro corpo e tutto l'organismo dipende proprio dall'oro blu, soprattutto per l'eliminazione delle tossine dagli organi vitali e per il trasporto dei nutrienti verso le cellule. Inoltre, l'acqua è necessaria per mantenere la corretta umidità delle mucose del naso e della gola.

La carenza d'acqua può causare disidratazione, una condizione che non permette al corpo di funzionare regolarmente. Anche uno stato di disidratazione leggero può causare affaticamento e senso di stanchezza.

Di solito quando abbiamo febbre, vomito, diarrea o influenza ci viene consigliato di bere di più per permettere al corpo di reintegrare i liquidi. Anche in caso di infezioni delle vie urinarie potrebbe essere necessario bere di più rispetto alle proprie abitudini. Le donne che allattano potrebbero avere la necessità di bere di più per mantenersi idratate. In alcuni casi, malattie del fegato o dei reni possono richiedere, al contrario, una minore assunzione di acqua.

Non solo semplice acqua. Chi fatica a ricordarsi di bere qualche bicchiere d'acqua in più, forse si sentirà più stimolato ad assumere dei frullati o dei succhi freschi preparati in casa con frutta e verdura. Anche ciò che mangiamo contribuisce alla nostra idratazione. Pensiamo, ad esempio, a cibi ricchi d'acqua come i pomodori, i cetrioli, l'anguria e il melone.

Ecco 10 motivi importanti per bere di più e fare attenzione all'idratazione dell'organismo.

1) Perdere peso

Bere acqua aiuta a regolare lo stimolo dell'appetito e a favorire il senso di sazietà. Bere di più permette di allontanare il senso di fame - soprattutto se si tende a mangiare molto fuori pasto - e a ridurre le porzioni di cibo troppo abbondanti. La disidratazione rende più difficile per il corpo metabolizzare i grassi, per questo chi vuole dimagrire ma tende a non bere molto potrebbe incontrare delle difficoltà nel perdere peso.

2) Stimolare il metabolismo

Bere più acqua aiuta a aiuta a stimolare il metabolismo e a bruciare più calorie. Secondo alcune ricerche, bere mezzo litro d'acqua nel giro di soli 30-40 minuti può incrementare la velocità a cui il nostro organismo brucia le calorie fino al 30%. Bere acqua con regolarità potrebbe essere utile per mantenere il metabolismo attivo nel corso di tutta la giornata.

3) Allenarsi meglio

L'acqua alimenta i muscoli di energia. Ecco perché si consiglia di bere prima di allenarsi o di iniziare un'attività fisica. Cogliere l'occasione degli allenamenti per bere più acqua è un'abitudine benefica dato che può contribuire a ridurre il rischio di crampi, affaticamento e distorsioni. Inoltre, chi suda deve bere di più per compensare la perdita di liquidi. La quantità di acqua da assumere dopo gli allenamenti dipende anche dalla loro durata e dai liquidi dispersi. Imparate ad ascoltare il vostro corpo per regolarvi al meglio.

4) Pelle più bella

Bere 2 litri d'acqua al giorno consente di donare al nostro organismo l'idratazione necessaria. Secondo recenti ricerche, bere acqua aiuta a combattere la pelle secca e consente all'organismo di eliminare meglio le tossine e i batteri accumulati. L'idratazione preventiva migliora l'apparenza della pelle e dona soprattutto al viso un aspetto più giovane.

5) Prevenire il mal di testa

La disidratazione è una delle cause più comuni di mal di testa. Mantenere un apporto regolare di acqua e di liquidi potrebbe dunque contribuire a prevenire molti casi di mal di testa, anche quelli dovuti all'affaticamento. È bene non sottovalutare le esigenze del nostro corpo e andare alla ricerca di quali potrebbero essere le cause del mal di testa per intervenire direttamente su di esse.

6) Migliorare la concentrazione

Basta un bicchiere d'acqua per migliorare la concentrazione. Bere un bicchiere d'acqua prima di affrontare una prova o un compito lavorativo permette al cervello di ricaricarsi e di migliorare le nostre capacità cognitive, rende più concentrati e attenti. Bere un bicchiere d'acqua soddisferebbe le esigenze di idratazione del cervello, spesso sottovalutate. A confermarlo è uno studio condotto dai ricercatori della University of East London e pubblicato sulla rivista Frontiers in Human Neuroscience.

7) Rafforzare il sistema immunitario

Bere acqua aiuta il nostro organismo a difendersi da raffreddori e malanni stagionali e a prevenire l'accumulo di sali a livello dei reni, che potrebbero causare la formazione di calcoli. L'acqua mantiene la corretta densità del sangue per evitare complicazioni a livello cardiovascolare ed è utile alle ossa per mantenerle in forma e per prevenire l'artrite.

8) Depurarsi e digerire meglio

L'acqua aiuta il nostro organismo ad eliminare le tossine e i materiali di scarto che si accumulano durante le giornate. Ciò si combina all'azione regolare dell'intestino, che ci permette di espellere le sostanze indesiderate. Movimenti intestinali regolari sono fondamentali per una corretta digestione. Bere di più potrebbe aiutare ad alleviare i problemi di stitichezza.

9) Aumentare l'energia

La corretta idratazione permette al nostro organismo di lavorare al massimo delle sue capacità. Un maggior livello di energia permette di avvertire molto meno la sensazione di stanchezza. Sentirsi più energici significa anche mettere al bando la pigrizia. Si crea dunque un effetto a catena e in positivo per cui un semplice bicchiere d'acqua potrebbe farvi sentire più forti e in forma di una tazzina di caffè.

10) Sentirsi più felici

Ecco un effetto dell'idratazione che forse non conoscevate. L'acqua incoraggia il flusso di sostanze nutritive e di ormoni nel nostro organismo. Ciò può permettere un miglior rilascio di endorfine, sostanze legate alla felicità e al buonumore. Il corpo si sentirà meglio e di conseguenza la mente sarà più serena e persino l'aspetto fisico migliorerà.