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2020/04/14

Solo per sete...


Anche prima che le borracce cominciassero ad andare di moda per ragioni ambientaliste, c’erano alcuni ambiti in cui erano usatissime: tra questi il mondo del ciclismo, dove senza l’acqua contenuta nelle borracce si va poco lontano. Come succede per tutti gli oggetti usati nelle competizioni sportive, le borracce usate dai corridori sono studiatissime e le aziende che le producono cercano di migliorarle di anno in anno. Eppure paradossalmente hanno una vita molto breve: non appena i ciclisti hanno finito di bere l’acqua che contengono, le gettano via, per alleggerirsi. Allora però possono essere raccolte dai tifosi collezionisti, ed entrare in una specie di seconda vita, esposte su uno scaffale.

Perché possa esistere il ciclismo ci sono cose la cui presenza è imprescindibile. Se quel ciclismo è su strada, ed è contemporaneo, servono, per cominciare: un po’ di asfalto, delle fibre di carbonio, due ruote di gomma vulcanizzata, dei freni, un manubrio, una catena e due pedali che permettano, completandosi a vicenda e con un paio di ruote dentate, di sfruttare un movimento centrale per convertire un moto rotatorio in spostamento in avanti. Trattandosi, poi, di un mezzo a propulsione umana, la bicicletta ha bisogno di un essere umano che ci pedali sopra. Quell’essere umano, chiunque sia, è per gran parte fatto d’acqua. Pedalando, esso consuma un po’ di quell’acqua, avvertendo quindi l’esigenza di introdurne periodicamente di nuova nel suo organismo. Può trovarla nei bar o alle fontanelle. Ma è molto più comodo portarsene appresso una scorta, specie se quell’umano che sta facendo ciclismo ha fretta di raggiungere la meta.

Una certa fretta nel raggiungere una certa meta, oggi, ce l’hanno in tanti, non solo quando vanno in bicicletta. Quelli per cui la fretta è oggettivamente motivata sono i ciclisti e le cicliste professionisti, i componenti delle uniche categorie alle quali è concesso, talvolta persino implorato, di liberarsi delle borracce appena usate. Sono una cosa strana le borracce nel ciclismo: fondamentali per qualche minuto, o qualche chilometro; poi improvvisamente superflue. Prima dell’uso sono protette, dopo diventano un peso da sacrificare alla rigorosissima causa del rapporto peso/potenza. Nel ciclismo – soprattutto in quello professionistico – la borraccia è un prodotto in cui il destinatario finale spesso non è né l’acquirente né il consumatore più importante. Il destinatario finale è un altro: chi l’ha trovata, raccolta o richiesta, magari senza pensare a tutta la strada che ha fatto quella borraccia per arrivare allo scaffale su cui adesso fa da cimelio.

Per fare una borraccia, così come per fare un mucchio di altre cose, si parte dai polimeri sintetici. In genere derivano dal petrolio – ma stiamo lavorando affinché arrivino anche da altre e migliori fonti, che non hanno bisogno di miliardi di anni per rinnovarsi – e ai nostri occhi si presentano sotto forma di piccole palline: dure, compatte, inodori e, a guardarle, per nulla attraenti. Si può sapere a grandi linee come sono ottenute quelle palline di “borracce in potenza”, ma molte aziende usano formule che preferiscono tenere per sé. In ogni caso, basta che una su cento di queste palline sia di un certo colore per avere borracce di quel colore.

Con anticipate scuse per il freddo al cuore che proverà ogni ingegnere leggendo le prossime righe, nelle fabbriche di borracce le palline vengono scaldate fino a fondersi tra loro per formare un unico fluido, che viene plasmato dalla gravità in una forma oblunga. A guardarlo bene, già si può intuire che quel pezzo potrebbe diventare una borraccia, ma è ancora presto per prenderlo in mano o versarci dentro dell’acqua: ha una temperatura di oltre 150 gradi centigradi. Quella temperatura serve a far sì che uno stampo e un forte getto d’aria permettano di allungare il pezzo, di perfezionarne la forma e di definirne i lineamenti.

Seguono una serie di procedimenti, quasi tutti svolti da una macchina, che hanno lo scopo di verificare che tutte le borracce siano uguali e allo stesso modo lisce e prive di imperfezioni. Tra questi procedimenti ce n’è uno che consiste in una veloce spazzolatura e un altro che, di nuovo e per poco, riscalda la parete esterna della borraccia, per permettere alla stampa di essere precisa e indelebile. La superficie della plastica delle borracce viene poi trattata per modificare la sua tensione superficiale. Buffo, a proposito, che questo fenomeno si chiami “bagnabilità”.

In un’altra linea di produzione – che può trovarsi a pochi metri di distanza e sotto lo stesso tetto, ma volendo anche a centinaia di chilometri – si creano tappi e valvole erogatrici, le altre due parti necessarie per trasformare il grezzo contenitore di cui sopra in un pratico aggeggio per trasportare e all’occorrenza bere liquidi senza rovesciarli. In molti casi, sia tappo sia valvola sono ricoperti da un materiale gommoso, più piacevole al contatto con le labbra e meno scivoloso.

Così come accade per spazzolini, rasoi, preservativi, smartphone, automobili e razzi spaziali, anche con le borracce si cerca sempre di fare qualcosa che sia ogni volta innovativo e migliore. Le qualità che si cerca di perfezionare sono la leggerezza, la morbidezza, l’assenza di odore e la velocità di erogazione del liquido. Qualche grammo in meno, qualche millilitro al secondo in più, e la piacevole certezza che l’acqua all’interno sappia di… acqua.

Chi di lavoro produce borracce per ciclisti passa una ragguardevole parte del proprio tempo ad ascoltare le variegate esperienze d’uso di massaggiatori, meccanici e soprattutto ciclisti. Serve a capire quali criticità trasformare in novità attraverso formule chimiche, composti e processi di produzione, il tutto senza tralasciare l’aspetto economico – si parla comunque di un contenitore d’acqua, non di un lander lunare.

Dopo essere state pensate, progettate, perfezionate, prodotte e testate, le borracce sono pronte per essere spedite. Nel caso di borracce per il ciclismo professionistico su strada, ogni squadra sa già da quale azienda prenderà le sue borracce per la stagione successiva, e quante ne ordinerà. Ancor prima che inizino i ritiri invernali, le prime borracce lasciano gli stabilimenti dirette ai magazzini delle squadre. Si possono dunque immaginare due borracce, nate dallo stesso sacchetto di palline di polimeri, estruse dalla stessa vite, cresciute nello stesso stampo, che lasciano la fabbrica lo stesso giorno: una per diventare la borraccia bianca di una squadra degli Emirati, l’altra per diventare la borraccia nera di una forte squadra britannica. Un po’ prima di Natale, entrambe viaggeranno su ruota – di camion – fino ai magazzini delle due squadre. Per poi ritrovarsi, un paio di mesi più tardi, nei portaborracce di due biciclette avversarie, magari da qualche parte sulle strade tra Milano e Sanremo.

Le borracce, comunque, raramente stanno sole. Dopo averle ordinate dalle aziende – tra le più importanti ci sono l’italiana Elite e l’olandese Tacx – le squadre le ricevono in grandi scatoloni, ognuno dei quali ne contiene circa 200. Prima di ogni corsa, e ancora prima di ogni corsa a tappe, le squadre fanno un calcolo che prende in considerazione fattori come la temperatura prevista, l’umidità, la lunghezza e la possibile difficoltà della corsa. Si parte dal presupposto che per ogni ciclista, per ogni giorno di corsa, servano almeno quattro borracce. Ma l’esperienza suggerisce che in questo calcolo è sempre meglio abbondare, quindi per la maggior parte delle corse ogni squadra prepara tra le sette e le dieci borracce per ciclista. In genere le si prepara la sera prima, così da trovarle pronte al mattino. La maggior parte delle borracce, nel ciclismo moderno, sono piene d’acqua. Ma ci sono anche quelle in cui all’acqua vengono aggiunti sali minerali o maltodestrine, talvolta in dosi e percentuali diverse da un atleta all’altro, per questione di gusti, eventuali problemi di salute e disagi alimentari, o perché così ha detto di fare l’allenatore oppure il nutrizionista. Ogni ammiraglia ha almeno un frigorifero al suo interno, che a sua volta contiene diverse decine di borracce. Almeno cinquanta sono d’acqua e almeno altre trenta di acqua e sali o acqua e maltodestrine. Nelle corse più importanti le ammiraglie sono due, ognuna con un frigorifero al suo interno. Ci sono poi le borracce che, dentro un’altra macchina, si portano avanti rispetto ai corridori, per aspettarli nella zona di rifornimento.

Qualche anno fa, qualcuno provò a usare borracce da 300 millilitri, ma non funzionò: oggi la gran parte delle borracce è da 550 millilitri. Per distinguerne il contenuto e riconoscere a chi sono destinate, ci si fanno sopra dei segni con un pennarello. Un bravo meccanico deve saper riempire il frigorifero nel modo opportuno incastrando più borracce possibile, ma deve anche mettere le borracce speciali – riempite per un determinato corridore – dove potrà trovarle facilmente. Un bravo gregario deve capire quando è il momento di andare a prenderle e portarne quante più riesce, ma deve anche ricordarsi dove sono posizionate le borracce, e quali, così da poterle prontamente servire al compagno che ne ha bisogno.

Quel che succede dopo che una borraccia arriva a chi la deve usare è lapalissiano. Il gregario porta la borraccia, chi la riceve beve un po’ – non troppo tutto insieme perché, come diceva la nonna e come dice Davide Cassani nei video su YouTube, «poi fa male» – e infine, se va bene, la ripone ancora mezza piena nel portaborraccia. Se va male, cioè se fa molto caldo o il momento è in qualche modo topico, il liquido finisce subito, e la borraccia viene buttata via. In ogni caso, appena vuota viene gettata; spesso anche prima di esserlo.

Se un buon numero di fortunate borracce vive i concitati momenti in cui assurge alla sua funzione originale, altre se ne stanno bel belle al fresco in frigorifero dalla partenza all’arrivo. Una volta arrivate, sempre che non vengano regalate a quel bambino con gli occhi grandi e supplicanti, le borracce superstiti tornano al pullman o all’albergo, insieme ai ciclisti che per quel giorno non le hanno usate. In genere, a queste borracce viene data una seconda possibilità, specialmente se il giorno dopo c’è la nuova frazione di una corsa a tappe.

Ci sono poche, pochissime borracce fortunatissime, quelle che vengono fotografate e celebrate per il modo in cui vengono afferrate, passate, svuotate o buttate. Ce ne sono altre, quasi tutte, funzionali a momenti non particolarmente rilevanti, e quindi anonime. Ce ne sono alcune che la gara non la vedono nemmeno, perché diventano borracce da allenamento. E ce ne sono altre ancora che magari neppure escono dallo scatolone in cui erano state infilate molti mesi prima.

Ogni anno, ciascuna squadra ordina molte più borracce di quelle che usa. Succede sempre, perché un ciclista senz’acqua è un problema ben più grande di un magazzino con qualche scatolone in più. Succede ancora di più quando, a maggio, una squadra cambia sponsor e tutto ciò su cui c’è scritto «Sky» deve, da un giorno all’altro, aver scritto «Ineos». E anche se non cambia lo sponsor principale, da una stagione all’altra magari cambia uno degli sponsor, o una combinazione di colori, o il pantone di un colore, o una scritta, e quindi via con altre migliaia di borracce. Le borracce inutilizzate durante l’anno passato e inutilizzabili per quello venturo vengono in genere regalate, magari a una squadra giovanile che sta nei paraggi del magazzino.

Complessivamente, una squadra professionistica maschile ordina, per ogni sua stagione, tra le ventimila e le quarantamila borracce. Solo per un giro di tre settimane ne servono più o meno tremila. Non vuol dire che in ogni tappa vengano effettivamente usate centocinquanta borracce, cioè quasi venti borracce per ognuno degli otto ciclisti in gara. Se ne portano tremila perché non si può mai sapere, e perché oltre a essere contenitori per liquidi ed eventuali pezzi da collezione, le borracce sono anche ottimi mezzi pubblicitari.

Il 6 luglio 2019 nei dintorni di Bruxelles, sede di partenza dell’ultimo Tour de France, c’erano 22 squadre, ed è lecito pensare che sparse tra biciclette, frigoriferi, bagagliai, scatoloni e gavoni ci fossero in tutto più di sessantamila borracce, più di quindici al giorno per ognuno dei centosettantasei corridori al via. Non tutti sono arrivati fino a Parigi, e nessuno ne ha certamente usate quante previsto; ma c’erano. Solo considerando le squadre maschili con licenza World Tour, si può dire che ogni stagione ciclistica comporti l’ordine di circa cinquecentomila borracce. Vuol dire, a riempirle tutte, 275mila litri d’acqua, oppure 100 chilometri di altezza se le si mette una sopra all’altra, o quasi tremila metri quadrati se le si mette una accanto all’altra.

Sembra tanto. Anzi: è tanto. Ma basta un po’ di prospettiva perché diventi poco: nel tempo che ci vuole per arrivare alla fine del presente paragrafo, che questo apparentemente non necessario inciso sta allungando giusto quanto serve, nel mondo è stato venduto, a grandi linee, un numero di bottiglie di plastica più o meno pari alle borracce prodotte per un’intera stagione per tutte le squadre maschili del World Tour. Se doveste avere dei dubbi sulla vostra velocità di lettura, è stato calcolato che in un minuto si venda nel mondo circa un milione di bottiglie di plastica.

Allargando ancora di più la prospettiva, si stima che in un anno vengano prodotte circa 350 milioni di tonnellate di plastica. Tutte le 500mila borracce da ciclismo di cui stiamo parlando pesano invece – da vuote – qualcosa di vicino alle 25 tonnellate: uno zero virgola, seguito da un po’ di altri zeri, del totale. Si può dire, quindi, che nel grande schema delle cose le borracce possono non essere considerate un grande problema ambientale, per uno sport che, tra l’altro, si basa su mezzi che vanno a muscoli e non a motore.

A prescindere dal destino a cui andranno incontro durante l’anno le borracce già prodotte, è comunque certo che ogni anno se ne produrranno di nuove, quasi sempre usando plastica vergine. Ogni borraccia, se gettata e abbandonata sul ciglio di qualche strada, in un prato o in un campo, ci mette tantissimo tempo a diventare qualcosa di diverso da una borraccia; troppo tempo per potersene fregare. Ma è vero che anche tra i professionisti – gli unici ad avere un valido motivo per buttar via una borraccia – c’è sempre più attenzione alla questione. Molte borracce, quindi, finiscono nelle “zone verdi”, le aree appositamente pensate per far sì che i ciclisti in gara si liberino di borracce, pacchetti, sacchetti, carte e cartacce. Molte altre sui cigli delle strade, nei prati o nei campi ci restano giusto qualche secondo, al massimo minuto, perché per fortuna c’è chi le raccoglie, un fenomeno che forse ha a che fare più con la passione che con l’ecologia; ma all’ambiente va comunque bene così.

Non c’è proprio modo di dire quante borracce vengano buttate ogni anno ai bordi delle strade dai ciclisti, nemmeno con un discreto margine di errore. Dipende da troppe variabili. Nel 2018, nel suo ultimo Tour de France, la Sky pensò, a complemento dell’operazione «Sky Ocean Rescue», di mettere dei codici sulle sue borracce, così che chi le trovasse potesse farlo sapere con l’incentivo di poterci vincere qualcosa. Poi la Sky cambiò sponsor e di quel progetto non si è più saputo niente. Peccato, perché nel suo piccolo avrebbe potuto dare una mano a raccontare qualche altra bella storia.

A proposito, nel mio piccolo di borracce ne ho raccolte anch’io (anche se quella che uso è un’altra: quasi tutta nera, con sopra una frase e un segno che citano i Joy Division). Quelle che raccolgo, chiedo o trovo, però, le conservo. L’ultima, per ora, è del 12 ottobre 2019. Il giorno prima si correva il Giro di Lombardia, e questa borraccia l’ha lanciata qualcuno della Bardiani-csf. Magari il promettente Luca Covili, che arrivò sul traguardo di Como 20 minuti e 100 posizioni dopo il vincitore Bauke Mollema. O magari uno tra Lorenzo Rota e Giovanni Carboni, quel giorno i migliori piazzati della squadra, giunti rispettivamente sessantatreesimo e sessantaquattresimo. Io l’ho raccolta a poco più di cento chilometri dall’arrivo, alla rotonda che sta all’incrocio tra la strada provinciale 51, che sale da Civate, e la strada provinciale 60, che scende da Galbiate, mentre passava il gruppo a caccia dei fuggitivi di giornata, sotto al cartello pubblicitario di un’azienda specializzata «nella vendita, installazione e manutenzione di stufe e caminetti».

È una borraccia bianca, con tappo nero e valvola rossa. Sopra ci sono i nomi e i loghi di: Bardiani valvole («Che trovano la loro applicazione negli impianti dell’industria lattiero-casearia, dell’industria di processo alimentare e bevande, dell’industria farmaceutica e cosmetica»), csf Inox («Pompe centrifughe e pompe volumetriche industriali»), Guerciotti («Azienda storica del ciclismo e leader nello sviluppo e nella produzione di biciclette da corsa»), LifeCode («Integratori sportivi per raggiungere obbiettivi») ed Elite («Specializzata nella ricerca e produzione di rulli di allenamento, borracce e portaborracce per ciclismo»). C’è anche l’hashtag #greenteam, che non è uno sponsor né una dichiarazione di ecologismo, ma ha a che fare con la storia della «formazione ciclistica più longeva del ciclismo mondiale».

Insomma, non una gran storia quella della mia ultima borraccia. E nemmeno una gran borraccia, a guardarla bene, ma è comunque una in più per lo scaffale delle borracce e una in meno rimasta dove non dovrebbe stare. A guardarla, o a guardare le altre arrivate prima di lei, fa strano pensare di averci dedicato tutte queste elucubrazioni. A chi mi conosce e apprende che l’ho fatto per davvero, può fare addirittura ridere. Comprensibilmente.

Le borracce, a ben vedere, non sono strettamente indispensabili al ciclismo e chissà che fra dieci, venti o trent’anni non ci si inventi qualcosa di nuovo e diverso per far arrivare acqua e energie a chi sta pedalando. Intanto però ci sono, stanno lì da più di un secolo e vanno benissimo così. Non sono imprescindibili perché possa esistere il ciclismo: per quello basta qualcuno che pedali e qualcuno che gli dica «Dai! Dai!» a bordo strada. Se quel qualcuno si trova vicino una borraccia da raccogliere, però, è più contento.

Racconta la storia delle borracce uno dei capitoli di Acqua passata da cui questo articolo è tratto, il sesto libro scritto dalla redazione di Bidon, una rivista online dedicata al ciclismo il cui nome significa appunto “borraccia”, in francese, in molte altre lingue e in generale nella comunità internazionale del ciclismo. Acqua passata racconta un po’ tutto quello che ci si potrebbe chiedere sulle borracce nel ciclismo e racconta molte storie di borracce famose che i corridori si sono passati. Il capitolo su come vengono prodotte le borracce si intitola “Ci vuole una borraccia” e l’ha scritto Gabriele Gargantini, redattore del Post. Il libro intero si può acquistare, nella versione cartacea, dal sito di People, la casa editrice che lo ha pubblicato, oppure in versione ebook anche su Amazon o IBS.

2020/04/02

#nonandràtuttobene

Sapete perché dopo la quarantena non cambierà niente?

Perché, anche adesso che medici, infermieri e personale sanitario stanno lavorando per salvarci la vita noi riusciamo ad essere egoisti e lamentarci persino perché il vicino di casa ha fatto la torta con più ingredienti della nostra torta! Ci siamo lamentati dal primo momento di questa storia!

Ci siamo lamentati della chiusura delle scuole, quando i primi a essere stati tutelati sono stati proprio i bambini e ragazzi!

Ci siamo lamentati delle restrizioni, di tutte le restrizioni e abbiamo iniziato a fare i sapientoni "ma si cosa vuoi che succeda a berci una birra insieme?" "ma cosa faccio? Non esco più di casa?" "ma cosa cambia chiudere un centro commerciale nel week end?"...

Poi arrivano i primi morti, poi gli ospedali iniziano a rischiare il collasso, poi iniziano ad ammalarsi persone che conosciamo, poi iniziamo a renderci conto che non è uno scherzo e forse chiudere le scuole non è stata poi una cattiva idea!
Ma nonostante questo riusciamo a lamentarci e a continuare ad essere più saccenti di un primario, di un presidente del consiglio, di un sindaco, di un carabiniere, di un commesso del supermercato...

Continuiamo a lamentarci perché i bambini non possono uscire, ma pensate che ci sono bambini che non escono dai reparti di oncologia per mesi perché se no rischiano di morire! Oppure se questa soluzione vi sembra troppo drastica pensate che oggi ci sono i figli dei medici e degli infermieri che non stanno a casa con le loro famiglie perché devono salvare le altre famiglie!!! I bambini soffriranno per questa situazione sì, ma per la frustrazione dei genitori non per la loro ingenuità!

Continuiamo a lamentarci perché il Papa si è permesso di chiedere a Dio la fine della pandemia? Che ti piaccia o no è un Papa e che ti piaccia o no prega, e che ti piaccia o no le persone comuni si sentono utili pregando e non devono chiedere il permesso a te per farlo!

Ci lamentiamo perché i nostri genitori sono a casa? Ci sono gli anziani soli nelle case di riposo che non possono più ricevere visite e qualcuno muore da solo...
Vi lamentate che siete chiusi in casa? Chiedete a chi una casa non ce l ha di far cambio con voi!
Ci lamentiamo che non ci sono stati dati soldi come in America? In America se non hai l'assicurazione ti lasciano morire...

Continuate a lamentarvi ma... 

Se siete a casa con le vostre famiglie, avete da mangiare un piatto di minestra o una lasagna, una stufa o un termosifone o acqua calda, avete una birra, una bottiglia di vino o acqua, siete in salute e avete Netflix, Sky, Disney +, Infinity, avete un balcone o un giardino, un libro e tutto il resto che non apprezzate smettete di lamentarvi e rompere i coglioni perché non vi rendete conto della fortuna che abbiamo in questo momento!

E non rispondete perché non mi metto a discutere con dei cretini che non fanno altro che lamentarsi! 


2020/04/01

La Trojka è realtà!




I sovranisti smemorati invocano Mario Draghi come Presidente del Consiglio di un governo di unità nazionale. L’incapacità criminale del governo PD-M5S e l’imbarazzante gestione dell’emergenza sanitaria della coppia Conte-Casalino non possono far passare in secondo piano chi è Mario Draghi e le tappe principali della sua “onorata carriera”:

· Nel 1992, come Direttore Generale del Ministero del Tesoro, prende parte all’incontro primaverile sul panfilo Britannia con alti rappresentanti della comunità finanziaria internazionale. Nel suo discorso, anticipa quanto farà in estate, con l’avvio del piano di privatizzazioni selvagge e la svendita delle principali aziende pubbliche italiane. L’ex-Presidente della Repubblica Cossiga sintetizza efficacemente la sua azione di quegli anni: “Un vile affarista, liquidatore dell’industria pubblica italiana”. I risultati della stagione avviata da Draghi li abbiamo visti al Ponte Morandi.

· Nel 2011 firma assieme a Jean-Claude Trichet la famosa lettera con cui intimava al governo italiano ulteriori privatizzazioni, la riduzione degli stipendi pubblici, l’innalzamento dell’età pensionabile, la cancellazione di diritti sociali e tutele sindacali, l’inasprimento delle tasse. Tutto ciò per “ripristinare la fiducia degli investitori”. L’operazione sarà conclusa a luglio, con il colpo di Stato con cui la BCE cessò di acquistare i titoli di Stato italiani per far schizzare in alto lo spread e costringere Berlusconi alle dimissioni, spianando la strada all’ascesa del Governo tecnico di Monti.

· Nell’estate del 2015 la BCE di Draghi destabilizza deliberatamente l’economia greca, interrompendo il supporto di liquidità alle banche e costringendo il Governo di Tsipras ad accettare le misure di austerità del nuovo Memorandum.

Siamo nel 2020, nel pieno di una gravissima emergenza sanitaria che porterà alla peggiore crisi economica del dopoguerra, Draghi si propone come salvatore della Patria. Improvvisamente il debito pubblico non è più un problema: dopo aver privatizzato i profitti bisogna socializzare le perdite per tenere a galla gli istituti finanziari e per derubare definitivamente i paesi europei della loro sovranità nazionale con l’inganno degli Eurobond.

Draghi non è l’uomo nuovo: rappresenta il potere di sempre, quello dei tagli che hanno devastato la nostra sanità pubblica, delle privatizzazioni che hanno lasciato nel degrado le nostre infrastrutture, dell’austerità che ha abbandonato alla povertà milioni di cittadini. Chi ha organizzato il problema non può presentarsi come la soluzione. Chi vuole dirsi realmente sovranista non può che rifiutare radicalmente qualsiasi ruolo di Mario Draghi per l’Italia che verrà. Chi invece appoggerà l’arrivo di un uomo della Troika a Palazzo Chigi sarà responsabile di alto tradimento allo stesso modo di chi ha votato le leggi e le riforme che hanno devastato il nostro paese negli ultimi anni.






fonte OrdineFuturo

Gli illusi e le supercazzole europeiste (di Elio Crovetto).


Parlare con il ‘senno del poi’ per quanto non sia il mio sport preferito, permette di poter commentare oggettivamente gli eventi sulla base di fatti e comportamenti avvenuti e consuntivati, pertanto, quando necessario, è utile praticarlo.
Ed è da questo presupposto che stamane riflettevo sull’Europa, ma attenzione, non sull’Europa di oggi, quella dell’emergenza Covid per intenderci, ma sull’Europa ante-Covid, quella che fino a soli due mesi fa discuteva temi comunitari fino a quel momento prioritari quali politiche economiche e Patto di Stabilità, gestione del fenomeno immigrazione, riflessioni post-Brexit, ecc.

Su quell’Europa discutibile - ed infatti discussa - molte persone tra le quali molti amici, hanno sempre ribadito l’idea Europeista auspicando - in riferimento agli aspetti più contraddittori delle politiche adottate – il miglioramento dell’Europa, la necessità di lavorare per dare peso ai pensieri ed alle necessità di paesi oggi secondari, tra cui il nostro, nell’ambito dell’attuale assetto politico e decisionale Europeo ad evidente trazione nord-europea, guidato di fatto da un solo paese leader, la Germania, da una corte di paesetti tirapiedi (Olanda, Finlandia, Estonia ecc.) e da una Francia a corrente alternata che - in funzione delle proprie convenienze – sceglie tema per tema. La Gran Bretagna aveva invece già salutato tutti e lasciato il tavolo.

Tutto questo fervore Europeista e migliorista credo nella ovvia e genuina convinzione che ciò non fosse una mera utopia, ma un obiettivo concreto e realizzabile, che passava – necessariamente – per una supposta consapevolezza dei paesi leader della necessità di un cambiamento e – soprattutto - per la loro disponibilità allo stesso.

Ipotesi queste peraltro non campate in aria, evincibili tutto sommato da un vento, o meglio, una brezza leggera che sembrava soffiare in direzione diversa dopo clamorosi ed oggettivi fallimenti come la Brexit o la gestione della crisi Immigrazione, un vento fatto dalle diverse dichiarazioni più o meno ufficiali, dalle interviste, dalle asserzioni di solidarietà, dai tanti bla bla che puntualmente spuntavano da Bruxelles e riempivano tv, giornali e social ad ogni acuirsi di crisi.
Ma come si dice “Dal dire al fare c’è di mezzo il mare” e difatti, fino a Marzo 2020, sono rimaste solo parole, ricche di spirito Europeista, di fratellanza blustellata, di tante speranze, ma sempre e solo parole.


Poi è arrivato il Covid-19.

Come uno tsunami poderoso, annunciato ma largamente sottovalutato, è entrato a gamba tesa in Europa, falcidiando in pochissime settimane i sistemi sanitari e le economie dei paesi EU, ed in particolare ha colpito di più i paesi meno virtuosi, i poveracci insomma.
Ha ingenerato una crisi umanitaria/sanitaria/economica senza precedenti, la cui portata è incommensurabilmente più grande di tutte le altre fino ad ora affrontate dall’Europa, una crisi che – proprio in virtù della sua portata e della veemenza - non ammette tentennamenti né tanto meno ammette errori.

Quello che per il teatrino Europeo proprio non ci voleva: una crisi anti-supercazzole.
Eggià, il Covid-19 non lo si vince con le dichiarazioni, parole o promesse, ma lo si vince con i “fatti”, e al contempo non lo si può vincere un domani più o meno lontano, ahimè lo si deve vincere “ieri”.
Ecco qui che cade la maschera, in questo caso né chirurgica né FFP3 (quelle se le sono tenute ben strette), cade invece la maschera dell’ipocrisia Europea, dell’Europa che comanda, con il Covid-19 le parole si sciolgono come neve al sole di Agosto e rimangono solo i fatti. Ed i fatti li conosciamo tutti, non serve nemmeno ripeterli.

Ma non voglio scendere nel merito delle iniziative “comunitarie” di gestione del Covid, sulle quali credo di aver espresso più che palesemente la mia opinione, come detto all’inizio voglio rivolgermi agli illusi Europeisti, a chi aveva davvero creduto alle supercazzole che sono state raccontate dopo la Brexit, dopo la crisi Immigratoria ecc, li invito ad uscire dal torpore e a guardare i fatti, a riconoscere CHI SONO i nostri interlocutori in Europa e quello che realmente FANNO e non le supercazzole che ci raccontano per farci contenti.

Se non fosse arrivato il Covid-19 chissà per quanti anni ancora vi avrebbero illuso.
Una propaganda fatta così bene che sono arrivati al punto di farvi teorizzare che è grazie all’Unione Europea se da 75 anni non ci sono guerre in Europa… peccato che l’UE esista solo dagli ultimi 27 e - in particolare - esiste solo da 19 come unità monetaria e che all’interno di questo periodo, in nome del rigore fiscale, ha inginocchiato senza pietà paesi come la Grecia (paese cavia in questo senso, ed i prossimi siamo noi) e dato fiato al ritorno degli estremismi e sovranismi come mai accaduto nei precedenti 50 anni ante UE.

Una propaganda pacifista strombazzata da quegli stessi pulpiti che nella prima metà del secolo scorso (e non parlo di duemila anni fa) hanno causato due guerre mondiali e 92 milioni di morti, di cui 6 milioni nelle camere a gas.

Cari amici illusi e necessariamente disilludendi, mi ricordate tristemente la scena iniziale del film “SOBIBOR”, nella quale gli ebrei venivano fatti scendere da un elegante treno passeggeri ed accolti dai nazisti nel campo di sterminio con tanto di corteo di accoglienza, sorrisi e musica, per poi venire suddivisi con ragionevoli motivazioni tra quelli che sapevano lavorare legno e metalli e gli altri, dopodichè, questi ultimi, e sempre con ragionevoli parole, venivano convinti a lasciare cose e vestiti per fare una bella doccia, proposta accolta a braccia aperte dagli inconsapevoli ed illusi protagonisti.

Una doccia senza ritorno però.

Cari i miei amici illusi e disilludendi vostro malgrado, la storia insegna a capire CHI E' IL VOSTRO INTERLOCUTORE, anche in quel caso è cominciata con le parole e sorrisi, la deportazione con i carri bestiame, i “Güterwagen”, è avvenuta solo dopo.

La diversità svedese


Amo il sole della primavera italiana. Perciò avevo accettato di partecipare a tre festival letterari: Milano a marzo, Venezia ad aprile, e poi Udine verso l’estate. Invece sono finito qui, in isolamento volontario, su un’isola nell’arcipelago di Stoccolma. Non perché debba, ma perché voglio. Ho una bella scorta di legna, e posso andare a far la spesa all’emporio come al solito. Certo, oggi sta nevicando, ma la primavera arriverà anche qui.

Tutti stanno facendo la stessa domanda: perché il governo svedese non combatte la pandemia di coronavirus come fanno gli altri? Perché non introduce restrizioni e controlli? Quasi tutti i ragazzi continuano ad andare a scuola. Persino gli asili sono aperti. Possiamo ancora viaggiare come ci pare, o andare al pub se ce ne viene voglia, e anche se il divieto di assembramenti, da un massimo di 500 persone, è stato di recente abbassato a 50, ci sono enormi differenze rispetto al resto d’Europa.
Saremo forse degli ingenui? Oppure questa bizzarra strategia è spiegabile in altri modi?

Lasciate che ci provi.

In fin dei conti, il modello svedese si basa sulla fiducia. In generale, gli svedesi hanno fiducia gli uni degli altri, e nelle istituzioni: seguiamo volentieri consigli e raccomandazioni, specialmente se il primo ministro, e magari anche il re, alzano la voce. Lavatevi le mani! Non spostatevi se non è indispensabile! Proteggete gli anziani! E fintanto che questa fiducia funziona, i divieti non sono necessari. Questa fiducia rappresenta un ingente capitale, proprio come le finanze dello Stato, in parte perché nel nostro Paese la corruzione è cosa rara. Anche qui c’è stata la deregolamentazione di alcuni mercati, ma lo Stato continua a essere stabile. Anche qui ci sono delle voci critiche che temono il collasso, ma per ora si va avanti.

Inoltre, le istituzioni svedesi godono di una peculiare indipendenza. Nel nostro assetto statale, di antica tradizione, un ministro non può mettersi a fare il bello e il cattivo tempo quando l’opinione del momento pretende le maniere forti. La responsabilità operativa appartiene alle istituzioni, e al momento è l’Istituto di salute pubblica a dirigere le danze. Un epidemiologo finora sconosciuto, un grigio impiegato statale in maglioncino, tiene quotidianamente una conferenza stampa per spiegare la situazione. Il governo segue a sua volta le raccomandazioni delle istituzioni.

Un direttore generale se possibile ancor più grigio non fa che ripetere che dobbiamo guadagnare tempo. Se tutti si ammalano contemporaneamente il sistema sanitario collasserà. Più o meno tutti recepiscono il messaggio. Rimane da scegliere una strategia opportuna per appiattire il grafico dei contagi. Finora la situazione è identica in ogni Paese; la differenza è che la Svezia preferisce la libertà di scelta alle costrizioni. Si valuta che sia la strada più efficace, soprattutto pensando alle prossime settimane. O mesi.

All’inizio dell’epidemia vi fu chi chiese di chiudere tutte le scuole, come negli altri Paesi. Ma l’Istituto di salute pubblica valutò che i pro, in termini di minori contagi, non avrebbero superato i contro, in termini di carenza di personale nelle strutture sanitarie. 
In Svezia non ci sono molte casalinghe; quasi tutti lavorano, uomini e donne, e queste ultime sono preponderanti nella sanità. Chiudendo le scuole, si è pensato, molte infermiere sarebbero rimaste a casa coi figli. Inoltre si è immaginato che i ragazzi si sarebbero incontrati comunque, scambiandosi il virus, anche con le scuole chiuse.

Gli studenti più grandi e gli universitari possono seguire le lezioni a distanza senza troppi problemi, così in quel caso si è deciso di chiudere. I pro superano i contro: semplice matematica, che la gente capisce.
Tempo, è tutta una questione di tempo. Alla fine della guerra fredda, quando i neoliberisti avevano il mondo in pugno, i depositi di emergenza svedesi vennero smantellati, dunque anche noi siamo a corto di dispositivi di protezione e di respiratori, non solo di personale sanitario. Ma anche in tal caso interviene la fiducia. Confidiamo semplicemente che l’industria svedese sappia riorganizzarsi rapidamente e produrre quel che manca. Ed è quel che sta succedendo proprio ora.

Che Viktor Orbán dichiari lo stato d’emergenza non sorprende, probabilmente stava aspettando un’occasione simile, e forse sarà necessario ricorrere a misure altrettanto draconiane anche in Francia, Spagna e Italia, ma per molti aspetti la Svezia è diversa. Certo, potremmo anche noi mettere tutta Stoccolma in quarantena e mandare l’esercito a presidiare le vie d’uscita, o fare come i tedeschi e vietare gli assembramenti di più di due persone, ma qui da noi lasciare libertà di scelta funziona meglio. I vaccini per le malattie infantili, per esempio, sono sempre stati volontari. 

Eppure la Svezia è in cima alla classifica: non perché dobbiamo, ma perché vogliamo.
Va anche detto che la Svezia è un Paese omogeneo, dominato da una nutrita classe media benestante, le cui virtù possono essere fatte risalire al proletariato secolarizzato del dopoguerra e a vari movimenti popolari più o meno puritani. Ovvio, anche noi dobbiamo gestire certi ricchi viziati che reputano la settimana bianca più importante di ogni forma di solidarietà e, negli ultimi tempi, un sottoproletariato d’importazione, extraeuropeo, tra cui la povertà e l’affollamento delle abitazioni favorisce il contagio, ma si tratta di fenomeni marginali.

Gli svedesi sono in vasta maggioranza disciplinati, e io sono uno di loro. Nessuno mi vieta di andare a trovare mia madre di 95 anni, che abita in una regione dove i contagi non hanno ancora raggiunto numeri significativi, ma siccome mi si raccomanda di evitare gli spostamenti non lo faccio. Quasi tutti fanno valutazioni simili. E i risultati si vedono. Sappiamo che il contrasto all’epidemia è un questione di equilibrio, tra salute ed economia, e ci fidiamo più di altri dei nostri burocrati.

Forse, mi viene da pensare, c’entra anche il fatto che la Svezia è uno Stato nazionale antichissimo. Lo so, nella nostra epoca il nazionalismo è un flagello, ma il fatto è che la Svezia esisteva già nel medioevo, e credo che le radici della fiducia affondino fin là. Che noi svedesi siamo ingenui perché ci siamo tenuti fuori dalle guerre mondiali del Novecento non mi convince. Le tradizioni vanno ben più indietro nel tempo.

Tra l’altro, siamo più patriottici che nazionalisti. 
È una distinzione importante. 

George Orwell ha scritto una volta, nel 1945, che il patriottismo nasce dall’amore per un certo luogo e per la vita che vi si conduce, ma che non cova mai dentro di sé il desiderio di imporre lo stesso stile di vita agli altri. Di conseguenza, il patriottismo è difensivo e pacifico. Il nazionalismo, invece, che è legato al desiderio di potere politico, può facilmente imboccare la via sbagliata.
Le cose stanno più o meno così. Facciamo quel che possiamo, a modo nostro, al tempo della peste.

Un anno fa mi trovavo sulle colline a Est di Firenze, ospite della Fondazione Santa Margherita di Donnini. Ci rimasi qualche settimana, scrivevo tutto il giorno e poi la sera cenavo, bevevo vino, ridevo e battibeccavo con scrittori italiani, canadesi, irlandesi, inglesi e colombiani. Di rado andavamo d’accordo, ma siamo diventati buoni amici. È così, esattamente così, che si fa politica. Spero di tornare presto. L’isolamento è temporaneo, credetemi.

Fonte: REP.
Traduzione di Andrea Berardini
Fredrik Sjöberg è biologo e scrittore, il suo ultimo libro “Mamma è matta, papà è ubriaco”. Ha pubblicato “L’arte della fuga” e “L’arte di collezionare mosche”