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2022/05/24

Ti voglio bene




Nella marea di pensieri, scarsamente o affatto utili, che affollano la mia mente c’è un dubbio che mi attanaglia a fasi alterne. E sebbene ci siano cose infinitamente più urgenti od importanti su cui riflettere, non riesco a non perdermi in queste facezie verbali. Già perché la questione sorge attorno ad un dilemma linguistico, uno scherzo lessicale, una deficienza glottologica, insomma, qualcosa con o senza la quale potrei dormire sonni tranquilli. Ed invece mi cruccio. Ma riflettendoci bene non si tratta solo di parole, qualcosa è sotteso, o almeno io penso che qualcosa sia sotteso. L’amletico dubbio è perché nelle altre lingue non esiste un’espressione corrispondente al nostro “ti voglio bene”?

Io ho un grosso, grossissimo feticismo per la lingua italiana: godo nel leggere ed ascoltare la nostra favella, tuttavia non faccio fatica a leggere libri o guardare film in lingua originale. Sì, comprendo che per molti è un anche un grande, grandissimo limite, non per me, ma noi italiani non siamo perfetti, siamo poveri mortali pieni di mancanze e per molti, fra le altre, è questa. Non sopporto chi, pur avendo avuto istruzione o mezzi per istruirsi, non sappia parlare o scrivere nella nostra bellissima lingua natia; tuttavia tollero chi farcisce i propri discorsi di inglesismi, non perché rendano meglio il significato ma perché ‘è più moderno così’; ma soffro chi stupra l’italiano con storpiature ed errori grammaticali: sono un talebano dell’italiano, sì, signori miei, e me ne vanto!

Sono tuttavia consapevole del fatto che come tutte le lingue anche la nostra ha l’evidente limite di non saper rendere alla perfezione termini di altre favelle, motivo per cui una traduzione in italiano non sarà mai completamente fedele all’originale, non tanto per una questione di significati letterali quanto per allusioni culturali. La lingua è frutto di una costante evoluzione che si regge su migliaia d’anni di parole, concetti, usi e costumi, motivo per cui anche la nostra bellissima e flessibile lingua non saprà mai rendere appieno il senso di vocaboli come ‘improvement’, per dirne una. 

Viceversa, le altre lingue hanno lo stesso limite nei confronti della nostra, con un’aggravante significativa, non sanno tradurre un’espressione essenziale alla vita come il “ti voglio bene”. Correggetemi se sbaglio, non sono un linguista, ma il nostro “ti voglio bene” viene tradotto in inglese da “I love you”, in francese da “je t’aime”, in tedesco da “ich liebe dich”, in spagnolo da “te amo”, in sloveno da “ljubim te”, e così via. 

Ma questa espressione nelle rispettive lingue sta anche a significare “ti amo”, cosa che per un italiano ha un significato decisamente diverso. In una ipotetica ‘gerarchia’ di sentimenti il “ti amo” sta leggermente sopra al “ti voglio bene”, ha una connotazione più forte ed appassionata, più radicale e profonda; il “ti amo” è usata dagli amanti mentre il “ti voglio bene” dalle persone che, appunto, si vogliono bene. Il designer Pey-Ying Lin definisce il “ti voglio bene” come «the attachment for family, friends and animals», non contemplandolo quindi come “amore”.



E noi italiani passionali (perdonatemi il cliché) conosciamo bene la differenza tra i due termini. La questione allora è: perché le altre lingue non riconoscono questa differenza? Perché non esiste un’espressione che indica il sentimento da noi riassunto nel “ti voglio bene”? Forse gli altri popoli non si vogliano bene senza amarsi? Forse sono così ottusi da non vedere la differenza lampante tra i due termini? 

Ma allora senza alcun dubbio noi italiani siamo non solo linguisticamente superiori, siamo addirittura emozionalmente migliori, sappiamo gerarchizzare qualcosa di così sottile ed evanescente come i sentimenti; sappiamo dare un nome ad ogni sensazione. Sappiamo dare nomi. Ecco. Per me qui sta il nocciolo della questione. Per me sappiamo mettere tanti nomi, ma non sappiamo riconoscere le cose. 

Non sappiamo capire che “ti voglio bene” significa “ti amo”; non sappiamo intuire che non c’è differenza tra i due concetti, che non esiste una gradazione di amore un po’ inferiore da dare a familiari, amici ed animali; non sappiamo comprendere che se diciamo “ti voglio bene” a qualcuno non lo stiamo mettendo in guardia sul fatto che proviamo qualcosa per lei  ma non così tanto da impegnarci troppo; non siamo in grado di percepire che dire ad una persona “ti voglio bene” significa donarle un pezzetto della nostra anima, allo stesso modo in cui lo diamo a chi amiamo e questa incomprensione genera l’abuso di questa espressione che sentiamo ogni giorno e lo spreco della nostra anima fatta a pezzetti da un’ignoranza lessicale.

Pensate bene quando dite a qualcuno “ti voglio bene” perché le state dicendo “ti amo”. Pensate se invece le direste “ti amo” e se la risposta fosse “no” allora non ditele “ti amo”, non ditele nulla. Non sprecate i vostri “ti amo” (o i vostri “ti voglio bene”, non c’è differenza). 

Conservateli per chi amate davvero.

2022/03/18

Prezzi e Speculazioni italiote!



Considero Mario Draghi come un premier autorevole, ma ho l’impressione che “Supermario” sia molto, troppo attento agli interessi delle grandi multinazionali prima ancora di considerare i loro effetti per i comuni cittadini italiani.
Prima gli interessi delle case farmaceutiche che si sono gonfiate con i profitti Covid senza lo straccio di un calmiere europeo, poi il tappeto rosso alle banche che hanno fregato milioni di risparmiatori, adesso i prezzi petroliferi sui quali si sta intervenendo con grandi ritardi e dopo aver permesso profitti scandalosi.

Ne avevo scritto la settimana scorsa, colpito dai silenzi ufficiali e proprio il giorno dopo si è svegliato il ministro Cingolani che ha parlato di speculazioni, truffe, extraprofitti, manco avesse letto il mio blog. Comunque Cingolani è un ministro davvero sconcertante dichiarando pubblicamente : “Non capisco come ciò sia possibile”.

Il signor ministro non capisce?! Si chiama speculazione, quella che arriva puntuale quando un governo interviene con lentezza, permettendo utili stratosferici alle multinazionali senza scrupoli ma anche alle aziende para-pubbliche che pur dovrebbero fare gli interessi dei cittadini.

Servono poco i viaggi di Di Maio in Algeria a implorare gas se la nostra diplomazia e quella europea non riescono a convincere i paesi del Golfo ad aumentare significativamente la produzione. Paesi arabi che ringraziano Putin per l’enorme regalo portato loro dalla guerra in Ucraina e non è un caso che gli Emirati Arabi si siano astenuti anche in sede di votazioni ONU a condannare la Russia.

L’altro aspetto emblematico (e speculativo) è che i prezzi sono schizzati non appena USA e Gran Bretagna hanno parlato di embargo alla Russia. Facile per questi due paesi parlarne perché hanno una quasi assoluta indipendenza estrattiva rispetto a Putin, ma lasciando nei guai tutti gli altri, ad iniziare dai paesi europei. Il problema è acuito anche dalla ipocrisia del nostro governo: il costo del petrolio incide per circa il 35% sul prezzo alla pompa, le altre componenti fiscali, IVA e accise superano invece il 50% e – soprattutto – viene oggi raffinato petrolio che non è stato acquistato agli attuali prezzi correnti, ma stoccato a prezzi molto inferiori, senza contare che tutte le imprese petrolifere si assicurano forniture a prezzi calmierati o sono contro-assicurate rispetto alle fluttuazioni del mercato.

Per avere un’idea dell’imponenza delle speculazioni che Cingolani “non capisce” basta guardare al 2013-2014 quando vi fu una fiammata mondiale dei prezzi petroliferi.
Il 16 giugno 2014 il prezzo di greggio al barile raggiungeva il prezzo-record di 112,83 dollari, prezzo che oggi – dopo una settimana di alternanti diminuzioni, ma non se ne è accorto quasi nessuno – è intorno ai 100 dollari, ma con un prezzo medio alla pompa (fonte ministeriale del 16 marzo) di 2,18 euro al litro, mentre nel 2014 la benzina toccò il prezzo-record medio di soli 1,72 euro al litro. Una differenza alla pompa di quasi mezzo euro frutto di pura e semplice speculazione che infatti – appena si è cominciato a parlarne – per incanto si è “raffreddata”.

Comunque, se rispetto a 3 mesi fa oggi il prezzo del greggio è aumentato del 30% significa che alla pompa il prezzo della benzina dovrebbe essere aumentato di non più del 10% (un terzo del 35% di incidenza del costo del greggio sul prezzo alla pompa) a parità di “guadagno” dello stato. I carburanti sono però aumentati molto di più e la differenza è tutto maggior profitto della “catena”, dove però per oltre il 50% la catena si chiama “Stato”.

Lo Stato sta quindi generando inflazione che erode i risparmi e gli stipendi “guadagnando” molto dai rincari, oltre agli strabilianti profitti di aziende para-pubbliche come ENEL ed ENI. Si parlava di tassare almeno questi extra-profitti, ma poi tutto è evaporato e non è certo una risposta rateizzare le bollette (che prima o poi vanno comunque pagate) o ridurre di un poco le accise, visti gli extra margini.

Lo stesso vale per gli aumenti dell’energia elettrica che per quasi il 40% è fornita da energia rinnovabile che non ha avuto aumenti di prezzo, eppure con la scusa dell'aumento del prezzo del gas tra IVA, accise e balzelli vari le bollette sono più che raddoppiate.

Se lo stesso governo ha imposto lo stato di emergenza, Mario Draghi deve ora dimostrare coraggio e coerenza imponendo prezzi equi e controllati per energia e carburanti.
D'altronde non c’è libera concorrenza se di fatto un cartello di produttori (e raffinatori) fissa i prezzi a proprio piacimento, in un reciproco interesse di pochi e nel disinteresse delle inutili Autority pubbliche. Draghi dimostri insomma la sua autorevolezza ed indipendenza da quei grandi gruppi economici che troppo spesso si delineando alle sue spalle e che sembrano dettare le regole del gioco con il compiacente placet di Bruxelles.

2022/03/11

Strategie italiche che ritornano!




Non credo che l’Italia compia una buona mossa strategica contribuendo ad armare l’Ucraina e – oltre ad accogliere i profughi e ad aiuti umanitari – credo sarebbe meglio inviare aiuti militari solo di carattere difensivo.

Non è dando forza militare a Kiev che si avvicina la pace, anzi, se illudiamo l’Ucraina di difenderla militarmente si sentirà più forte per combattere i russi e sarà sempre più difficile trovare un accordo.
Sia ben chiaro che è Putin l’aggressore ed il responsabile principale della crisi, ma ora serve una tregua, un armistizio, una reciproca serie di garanzie, non altre armi da impegnare sul terreno.
Aiutare l’Ucraina significa per esempio inviare cibo e materiale sanitario, ma anche “militare” di difesa passiva (giubbotti, tecnologia difensiva, tende, ospedali da campo, cucine, mezzi di trasporto) ma NON materiale bellico o munizioni e non tanto o non solo per ragioni costituzionali, ma perché in questo modo la guerra sul terreno rischia di allungarsi.
A questo proposito non mi piace l’equivoca posizione di Biden che fa il “furbo”. Vende armi e lancia proclami, ma per gli USA conta poco l’embargo energetico russo visto che vale meno del 10% dei loro consumi, per noi Europei è ben diverso con punte del 48% delle forniture di gas. Così come l’economia USA non commercia con la Russia mentre per l’Europa è un partner importante e interi settori italiani (dalla moda ai mobili, dalla alta gamma agli elettrodomestici) sono in crisi per l’embargo.

Per uscire dalla crisi ucraina servirebbe piuttosto un colpo di scena: per esempio offrire alla Russia la possibilità di nuovamente bussare in Europa.
Detto così può sembrare assurdo mentre i tank girano per Kiev, eppure sarebbe la logica conclusione di un conflitto atroce ed assurdo, ma che sta mettendo a nudo anche tutte le contraddizioni interne al regime di Putin dove la credibilità del leader penso stia crollando di pari passo all’impantanarsi della situazione.

Un’ Ucraina garantita nella sua neutralità dalla UE, una ampia autonomia alla parte russofila del paese con una striscia di sicurezza tra le parti, il libero accesso russo alla Crimea (com’è già) e - in cambio del ritiro delle forze russe in modo almeno progressivo – anche una immediata apertura europea proprio al “nemico” del Cremlino, ovviamente obbligandolo ad alcuni passi-chiave non solo sulla via della pace, ma anche dell’accettazione dei principi europei di democrazia e pluralismo.

Impossibile? E perché mai?

Entrambe le parti avrebbero solo da guadagnaci: l’Europa blinderebbe le sue necessità energetiche, la Russia ritornerebbe ad essere aperta al commercio internazionale con una garanzia dovuta di tranquillità ai propri confini tornando a guardare ad Ovest e non ad Est dove l’abbraccio della Cina è un rischio anche per loro.

La realtà di due settimane di guerra ha messo a nudo i limiti delle forze russe in termini logistici e di combattimento recitando un copione che è già più volte andato in scena. Quando una dittatura è fragile deve inventarsi un nemico esterno per tentare di cambiare le carte sul tappeto, ma significa che ha i giorni contati o almeno il fiato corto.
Nella storia è sempre stato così e forse anche Putin ha rischiato al tavolo da poker del conflitto convinto che l’Europa e la Nato non avrebbero rilanciato, ma – quando il piatto sale – è sempre più pericoloso stare al gioco e si rischia di perdere tutto. Forse lo Zar si è reso conto che alla fine il bluff rischiava di travolgerlo e soprattutto per questo ha cominciato (forse) a trattare.

Delineare almeno all’orizzonte una strategia di riapertura a Mosca sarebbe utile, anche perché l’Europa deve sinceramente ammettere di avere delle responsabilità nella crisi ucraina e non solo dopo il 2014 ma soprattutto prima. Di fatto si è tirato in lungo quando la Russia veniva incontro con il cappello in mano ad inizio degli anni 2000 ed è trascorso invano il “momento magico” in cui Mosca avrebbe forse accettato più miti condizioni e più serie riforme in cambio dell’accesso al “salotto buono” europeo. L’Europa ha aspettato troppo, ha minimizzato, ha forse pensato di vincere facile di fatto umiliando l’avversario ed è stato un disastro per tutti.

I russi li abbiamo sottovalutati e con il senno di poi è stato un errore gravissimo dimenticare la storia, la mentalità, il nazionalismo di un popolo orgoglioso ed abituato a stringere i denti nelle difficoltà e che della democrazia non ha ancora fiducia, anche perché troppe volte è più rapida la soluzione d’imperio, dentro e fuori le mura di casa.
Non commettiamo atti potenzialmente sbagliati: quanti sanno che la Russia fa parte del Consiglio d’Europa di Strasburgo? Ora è stata logicamente “sospesa”, ma forse c’è da chiedersi se non si stia chiudendo una delle poche possibilità di incontro e di confronto. In fondo anche la Russia ha diritto di esprimere il proprio punto di vista, non certo con i carri armati ma in sede diplomatica, anche perché la presenza di popolazioni russe in Ucraina è una realtà che non si può nascondere e per la quale va trovato un equo compromesso.

Già il Consiglio d’Europa ha negato l’accesso alla Bielorussia perché “antidemocratica” ma – anche qui – come si può discutere con una controparte se la si allontana e si chiudono i rapporti?
Non ripetiamo gli errori di qualche anno fa che in qualche modo hanno poi contribuito a creare il clima che ha portato alle bombe su Kiev. Non si tratta solo di ricordarci che abbiamo bisogno della Russia anche in chiave di rifornimenti energetici, è ovvio che prima dell’economia conta la libertà ed il rispetto delle persone. Per questo la critica e la censura a Putin per i suoi metodi deve essere chiara ed inequivocabile, ma poi bisogna avere la forza di almeno tentare un minimo di dialogo.

Se si apre una fiammella di pace alimentiamola e non soffiamoci sopra per spegnere tutto: una Russia più vicina è negli interessi di tutta l’Europa, oltre che per i popoli che ci stanno in mezzo e sono le vere, innocenti vittime accerchiate dalla violenza.

2022/01/21

Il re degli imbroglioni

Gregor MacGregor, il re degli imbroglioni


Gregor MacGregor, nato in Scozia nel 1786 e morto in Venezuela nel 1845, è stato un soldato dalla vita avventurosa e un poderoso truffatore. Che si inventò Poyais, un paese centroamericano che non esisteva, se ne dichiarò governante (per la precisione cacicco) e ne vendette obbligazioni, arricchendosi parecchio. E che nel 1822, da Londra, convinse perfino alcune centinaia di persone ad attraversare l’oceano per andarci, a Poyais, causando di fatto la morte di gran parte di loro. Ancora oggi Gregor MacGregor è considerato, come scrisse qualche anno fa l’Economist nell’articolo “Il re degli imbroglioni”, l’autore «del più grande raggiro di sempre».

Figlio di un capitano di marina della Compagnia Britannica delle Indie Orientali, MacGregor crebbe parlando il gaelico scozzese e imparando solo dopo, a scuola, l’inglese. Come ha scritto The Hustle in un articolo sulla storia della sua truffa – definita «una delle più articolate e mortali della storia» – MacGregor «crebbe in una famiglia privilegiata ai margini dell’aristocrazia» ed ebbe modo di «assaporare quel tanto di ricchezza che gli bastò per sentire che ne voleva di più».

Raccontò in seguito di aver studiato qualche tempo all’università di Edimburgo, ma non ci sono prove e visto il personaggio riesce facile dubitarne. Si sa per certo che a 16 anni, poco prima che iniziassero le Guerre napoleoniche, si arruolò nell’esercito britannico. Si sposò con Maria Bowater, figlia di un ricco ammiraglio, e anche grazie ai soldi e alla fama della famiglia di lei fece una rapida carriera militare, evitando inoltre circostanze e destinazioni troppo pericolose. Per diventare in breve tempo capitano e da lì generale, ha scritto The Hustle, pagò il corrispettivo di circa 80mila euro di oggi.

Dopo alcuni anni passati a Gibilterra, nel 1810 uscì dall’esercito e tornò nel Regno Unito. Nel 1811 la morte della moglie cambiò però molto le sue prospettive di una vita agiata. Senza più i soldi e il supporto della famiglia di lei, nel 1812 partì per il Venezuela, dove era in corso una rivolta contro gli spagnoli. Lì sposò una cugina del rivoluzionario Simón Bolívar e, di nuovo, fece carriera militare, questa volta tra le file dell’esercito della Repubblica venezuelana. Ebbe alcuni successi e si fece notare come fondatore della Republic of the Floridas, che però durò giusto qualche mese. Ebbe però anche diversi insuccessi: per ben due volte abbandonò per esempio le sue truppe in battaglia e non fece nemmeno una bella figura nel cosiddetto “Amelia Island affair”, con cui si fa riferimento alla sua breve e inefficace gestione di un’isola al largo della Florida.

Con un dinamismo parecchio ottocentesco, in quel periodo MacGregor si spostò molto tra l’America del Sud e quella Centrale. Finì anche dalle parti dell’Honduras, dove sviluppò ottime relazioni con il re senza grandi poteri effettivi di un territorio della cosiddetta Costa dei Mosquito, il quale – non è ben chiaro per quali ragioni – gli vendette la proprietà di un territorio grande oltre 30mila chilometri quadrati sulla costa orientale dell’Honduras. Era un territorio grande più della Sardegna e lui ne era diventato semplice proprietario, non governante, e soprattutto era un territorio vuoto, inospitale e perlopiù disabitato, ritenuto inadatto all’agricoltura e all’allevamento.

Nell’estate 1821, una decina d’anni dopo la sua partenza, MacGregor tornò nel Regno Unito e nonostante alcuni resoconti sui suoi fallimenti – «il fatto che qualcuno possa essere indotto a seguirlo nei suoi progetti disperati sarebbe prova di un livello di follia di cui la natura umana è incapace», scrisse un autore il cui fratello aveva combattuto con lui – riuscì a presentarsi e raccontarsi come un valoroso soldato e avventuriero.

Soprattutto, riuscì a spacciarsi come cacicco di Poyais.

Mentre lui era stato in America, in Europa era finito il periodo napoleonico e nel Regno Unito c’era una generale fiducia dovuta a un’economia in crescita e a un costo della vita in diminuzione. C’era grande ottimismo ma, come ha scritto l’Economist, «investire in bond del proprio paese era considerato un noioso modo per parcheggiare fondi extra». C’erano insomma molti finanziatori interessati a nuove e più intriganti prospettive d’investimento, per esempio quelle relative a obbligazioni e titoli di stato dei paesi dell’America Latina che avevano appena ottenuto l’indipendenza o stavano per farlo, e che in sintesi avevano gran bisogno di soldi per far crescere le loro economie.

«Fu qualcosa di simile alla bolla delle dot-com» ha scritto The Hustle «con investitori che non sapevano nulla di quei paesi lontani e che furono pervasi dal bisogno compulsivo di investirci, gonfiando il valore delle obbligazioni». Nella sintesi dell’Economist, «in quei primi anni Venti dell’Ottocento c’era il clima finanziario ideale per un truffatore».

Inoltre, considerata la vivacità del contesto geopolitico latinoamericano era plausibile che fosse nato qualche nuovo stato di cui quasi nessuno aveva sentito parlare e che uno come MacGregor potesse esserne a capo.

MacGregor, raggiunto nel Regno Unito dalla moglie sudamericana, raccontò di essere tornato a Londra per presenziare, a nome di Poyais, all’incoronazione di re Giorgio IV, produsse documenti di vario tipo e promosse in vari modi il suo stato inventato. Creò una bandiera e uno stemma, fece interviste ai giornali, stampò dollari di Poyais, preparò materiali promozionali e scrisse perfino un libro su quel paese lontano, firmato con lo pseudonimo Thomas Strangeways. Anche grazie alla sua vera esperienza in quella parte di mondo, MacGregor fece tutto ciò che poteva essere utile a far percepire come vero – e meritevole di investimenti – uno stato che non lo era.
Poyais in un’illustrazione dal libro di “Strangeways”, Wikimedia

Raccontò, ha scritto l’Economist, «che i nativi non solo erano amichevoli, ma proprio amavano i britannici; che il suolo non era semplicemente fertile, ma addirittura capace di sostenere tre raccolti l’anno di cereali; che l’acqua non solo era tanta, potabile e abbondante, ma anche che nei corsi d’acqua di Poyais si poteva trovare l’oro».

Pare assurdo ma, forse per la paura di non perdere l’investimento giusto o anche solo abbindolati da certe promesse, molti comprarono da MacGregor le obbligazioni di Poyais, che secondo stime citate dall’Economist a un certo punto arrivarono a valere tutte insieme l’odierno corrispettivo di quattro miliardi di euro. Molti degli acquirenti erano scozzesi, intrigati dal fatto che MacGregor stesso fosse scozzese (e da un meccanismo noto come frode di affinità) e stuzzicati dall’idea che Poyais potesse diventare una sorta di colonia scozzese oltreoceano, in parte vendicando un piano di oltre un secolo prima con cui la Scozia aveva cercato di occupare Panama.

Visto che l’interesse cresceva MacGregor alzò i prezzi, si mise a vendere terre e finì perfino con l’organizzare viaggi verso Poyais. Riuscì a riempire due navi con un totale di quasi 250 aspiranti pionieri che partirono nel settembre 1822 e nel gennaio 1823.

Non è ben chiaro perché MacGregor, che aveva già raccolto molti soldi e che avrebbe potuto anche solo semplicemente scappare altrove, organizzò viaggi verso un paese che non esisteva. Sta di fatto che, dopo un viaggio di un paio di mesi, dove avevano sperato di trovare Poyais i migranti non trovarono nulla. Uno di loro, lo scozzese James Hastie, in viaggio con la moglie e i due figli, raccontò la sua esperienza in un breve libro.

«All’arrivo», ha scritto l’Economist, i colonizzatori «non trovarono nulla di quel che era stato promesso loro: niente porto, niente strade, nessuna città. Le popolazioni locali non erano aggressive ma nemmeno granché collaborative». Pensarono a un errore, provarono a capire dove poteva essere Poyais e intanto sopravvivere con quel che avevano. Ben presto nacquero però problemi, divergenze e ostilità di vario genere.

Molti morirono di fame o malaria ma qualcuno – grazie a contatti con popolazioni vicine e al supporto di imbarcazioni di passaggio – riuscì a lasciare quel posto inospitale. Qualcuno morì nel viaggio, qualcuno si fermò da qualche altra parte in America e una cinquantina di persone, tra cui Hastie e la moglie, riuscì a fare ritorno nel Regno Unito. «Era evidente che avessero patito sofferenze estreme e apparivano spettrali e cadaverici», scrisse un giornale scozzese.

Nel frattempo la notizia dell’inesistenza di Poyais li aveva anticipati, evitando la partenza di altre navi e incentivando invece quella di MacGregor, che scappò a Parigi, dove essenzialmente provò di nuovo a vendere l’idea di Poyais, però con meno successo. Finì in prigione, fu assolto in un successivo processo e tornò in Scozia, dove pare che provò di nuovo a intavolare alcune truffe riguardanti Poyais. Nel 1838 ripartì poi per Caracas, dove fu riaccolto come cittadino venezuelano, e lì morì nel 1845.

È probabile che MacGregor se ne andò dall’Europa per scappare dagli investitori truffati, anche se è stato scritto che diversi tra gli ex colonizzatori continuarono a credere in lui, sostenendo che erano state le navi a lasciarli nel posto sbagliato.

Intanto, nel Regno Unito, questioni economiche e geopolitiche avevano fatto scemare l’interesse per gli investimenti in titoli di stato di paesi sudamericani, che tra l’altro aveva portato al crollo del mercato azionario noto come “panico del 1825”, in conseguenza del quale fallirono oltre 50 banche britanniche.

Qualche anno fa, Tamar Frankel – professoressa dell’Università di Boston esperta di truffe finanziarie – disse all’Economist che c’erano ragioni per credere che, almeno in una certa misura, MacGregor «credeva alla sua stessa storia», o quantomeno sperava che sebbene Poyais non esistesse, sarebbe bastato portare certa gente a crederci, e portare qualcuno a viverci, per colonizzare il territorio in cui se l’era immaginata e renderla quindi reale.

La sua storia è stata ripresa e raccontata da articoli, video su YouTube, podcast e, con grande dettaglio, da David Sinclair, nel libro del 2013 The Land That Never Was.

(Fonte ilPost)

2022/01/20

SE VI SEMBRA GIUSTO…



Nei primi 2 anni di pandemia i 10 uomini più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato i loro patrimoni, passati da 700 a 1.500 miliardi di dollari, al ritmo di 15 mila dollari al secondo, 1,3 miliardi di dollari al giorno. Nello stesso periodo si stima che 163 milioni di persone siano cadute in povertà a causa della pandemia. 

In questo momento i 10 super-ricchi detengono una ricchezza sei volte superiore al patrimonio del 40% più povero della popolazione mondiale, composto da 3,1 miliardi di persone. Ogni 4 secondi nel mondo 1 persona muore per fenomeni connotati da elevati livelli di disuguaglianza come mancanza di accesso alle cure, fame, crisi idrica. Decine di milioni di persone vivono con meno di un euro al giorno.

Dall’inizio dell’emergenza Covid, ogni 26 ore un nuovo miliardario si è unito ad una élite composta da oltre 2.600 super-ricchi le cui fortune sono aumentate di ben 5 mila miliardi di dollari, in termini reali, tra marzo 2020 e novembre 2021. Sono i dati emersi nell’ultimo incontro dell’alta finanza a Davos, tenuto quest’anno – bontà loro – senza concentramento di superjet privati ma più sobriamente on line.

I dieci più ricchi del mondo risultano Elon Musk (patrimonio di 274,7 miliardi di dollari, Bernard Arnault (198,9 miliardi), Jeff Bezos (194,5 miliardi), Bill Gates (138,3 miliardi) e poi Larry Page (124,5), Mark Zuckerberg (123,1), Larry Ellison (120,8) Sergey Brin (120 miliardi), Warren Buffett (109,1) e Steve Baller (106.5). Giovanni Ferrero è l’italiano più ricco (33,3 miliardi) mentre Silvio Berlusconi e famiglia sono “solo” a quota 7,5. 

La confederazione no profit Oxfam ha calcolato nel suo ultimo rapporto che in questi due anni il numero uno di Amazon Jeff Bezos è quello che ha incrementato di più il proprio patrimonio per oltre 81,5 miliardi di dollari: il surplus nei primi 21 mesi della pandemia equivale per lui al costo completo della vaccinazione (due dosi e booster) per l’intera popolazione mondiale. 

Eppure non si riesce neppure a mettere in campo una tassa planetaria che in qualche moda colpisca ovunque e in modo progressivo i redditi che superino una soglia che personalmente considero di immoralità. 

Tranquilli, comunque, perché tutti – da Lazzaro al ricco Epulone – moriremo uguali.