Li ha riuniti nella tana del lupo, il megacomplesso dell’Europarlamento a Bruxelles, l’eurodeputato Magdi Cristiano Allam, leader del movimento "Io amo l’Italia". Due insegnano all’università Gabriele d’Annunzio di Chieti-Pescara: Alberto Bagnai politica economica e Antonio Maria Rinaldi finanza aziendale. Il terzo, Claudio Borghi, è docente di mercati finanziari alla Cattolica di Milano. Ecco una sintesi di quanto hanno detto.
LA BUFALA DELL’INFLAZIONE
«Non è affatto vero che se l’Italia uscisse dall’euro e svalutasse del 20-30% ci sarebbe un’inflazione dello stesso livello», sostiene Bagnai. «Recentemente la Polonia ha svalutato lo zloty più del 20% e l’inflazione si è ridotta. E anche nel 1992, quando lo ha fatto l’Italia, l’inflazione è diminuita. Oltretutto all’epoca l’inflazione globale viaggiava al 4-5%, mentre oggi ci troviamo in uno scenario di deflazione e quindi l’impatto sarebbe ancora minore». «L’inflazione viene dipinta come il male assoluto», osserva Borghi, «ma non è affatto così. Negli anni 80 in Italia l’inflazione viaggiava a due cifre, ma il clima economico era nettamente migliore. Oggi invece abbiamo il deflazionato disoccupato».
NESSUNA DIFFERENZA PER I RISPARMIATORI
Ma i piccoli risparmiatori che hanno investito in Bot e altri titoli di Stato italiani non rischierebbero di trovarsi con un pugno di mosche? «Nessun problema, il debito pubblico verrebbe convertito nella nuova moneta. La stessa che utilizzerebbero i risparmiatori per la fare la spesa. Quindi per loro non cambierebbe niente», rispondono all’unisono Borghi e Bagnai.
IL PROBLEMA DELLA CRESCITA
Però l’Italia è un Paese di vecchi e i pensionati hanno paura del salto nel buio. «Adesso vengono anche loro torchiati dal fisco per poter rispettare i diktat europei», osserva Borghi, «e devono capire che le loro pensioni vengono pagate da chi lavora. Se tutti sono disoccupati chi le pagherà? Anche a loro conviene preoccuparsi soprattutto di ripristinare le condizioni per la crescita». Crescita economica che finché si resta nell’euro è una chimera. «Impossibile raggiungerla dovendo rispettare il Fiscal Compact», spiega Rinaldi, «che dal 1° gennaio 2015 obbligherà tutti i 25 Paesi firmatari e ratificatori del Trattato al pareggio di bilancio e alla riduzione sistematica del 5% annuo dell’eccedenza del 60% del rapporto debito pubblico/pil. Per l’Italia questo significherebbe trovare ogni anno risorse aggiuntive per 98 miliardi di euro. Una somma pari a più di quattro volte il gettito Imu complessivo».
LA GABBIA EUROPEA
Rinaldi tiene poi a sottolineare l’assurdità dell’attuale costruzione europea: «Il Trattato di Maastricht è stato firmato il 7 febbraio 1992 e da allora non hanno ancora uniformato le aliquote Iva. Ma che mercato comune è?». Che fare, allora? «Bisogna chiedere subito la moratoria del Fiscal Compact, altrimenti è la fine. Siamo ingabbiati in un meccanismo in cui è l’economia reale a doversi adeguare all’euro e non viceversa». L’alternativa è l’uscita dall’euro, che dovrebbe essere concordata per attutire al massimo gli impatti negativi. Ma è possibile? «Credo che sarà la Germania la prima a uscire», sostiene Borghi. «Ormai ha raccolto tutto quello che poteva da questo stato di cose. E quando si tratterà di dover dare nuovi finanziamenti alla Grecia o a qualche altro Stato, a Berlino decideranno di mettere la parola fine».
Articolo di Marcello Bussi uscito sull’ultimo numero del settimanale Milano Finanza
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