Comincia tutto da una notizia data male: Schettino tiene una lezione magistrale all’Università di Roma sul tema della gestione del panico.
Poi – mi direte – è stata corretta. Non conta, conta la prima parola, il primo flash che abbaglia gli occhi. Conta che quella notizia data male toglieva al fatto il suo contesto, che è tutto, quando si dà una notizia: posso correre con una borsa in mano, ma se non scrivi che sto perdendo il treno, qualcuno mi prenderà per scippatore.
Forse andava detto che in un master – settanta-ottanta partecipanti, non una lezione pubblica, in questo caso gli studenti pagano per specializzarsi – erano previsti “case studies”, con la partecipazione dei protagonisti: quindi se c’era, per dire, da parlare di spie, ci sarebbe stata una spia. Forse andava detto che quel Master non si svolgeva “alla Sapienza” ma altrove. Che era una testimonianza di sette (quindici secondo altri) minuti, non una lezione, e poiché si studiano i casi concreti, è stato chiamato a parlare un uomo che ha vissuto un situazione limite. Ben conoscendo tutti, studenti e docenti, che quella sarebbe stata una “testimonianza di parte”. Insomma assoluto buon senso.
La pagina del Master era su Facebook, ma nessuno, prima di fare un titolo o sparare uno sms, l’ha letta. Eppure se a un fatto tu togli il contesto, ne distruggi la “logica”. E su quel fatto senza contesto, la gente giudicherà male.
Anni fa, Umberto Eco scrisse un saggio di grande forza sul caso Braibanti (Nel volume “Sotto il Nome di plagio”). Fermiamoci un attimo su quel “fatto”.
Il filosofo ed entomologo Aldo Braibanti ebbe un processo per “plagio”: era andato a vivere con un ragazzo di vent’anni, all’epoca minore età. Un processo che la sinistra dell’epoca, non tutta (il Pci poco, in fin dei conti era una “storia di froci”) combatté duramente. Vi vedeva, quella sinistra, la manipolazione di prove e informazioni tese e condannare già prima della sentenza attraverso lo “stigma”. Erano gli anni ’60 e Umberto Eco, per dimostrare la follia di quel modo di procedere, scrisse una descrizione del contenuto del suo cassetto, il cassetto della sua scrivania, ma in prosa carabinieresca. Dimostrò alla perfezione che, se descrivi “in chiave criminale” un normale cassetto di scrivania, il titolare di quel tavolo dovrà essere arrestato per gravi sospetti.
E quindi “Lectio Magistralis” è rimasta e quel concetto ha dato l’imprinting a tutta la conversazione successiva. Soprattutto perché ci si è messa l’Università. Che nel suo comunicato di fine mattinata cita i media, non i fatti giudiziari e i principi. Invece parla della conversazione del “Salga a Bordo Cazzo”. Ma quella è una notizia, oggetto di un processo. Nel comunicato del Rettore? Nel comunicato del Rettore. Conseguentemente, molti social media people parlavano di “etica”. L’etica. Come se un paese civile si reggesse sull’etica e non sul diritto, come se l’etica non fosse diventata il fantasma di questo paese da invocare appena non sai niente del merito delle cose (questo file si autodistruggerà fra 30 secondi, non ho mai scritto una cosa simile)
E quindi chi ne scrive oggi sui giornali non analizza il fatto, ma la fantasmagoria segnica prodotta su Twitter e Facebook da un paese indignato, furente, come la belva cui hai tolto il pezzo di carne dalla bocca. Ma come – ci dicono le masse furenti – questo colpevole che avevamo già divorato, voi ce lo vomitate qui, come professore universitario? Schettino è carne morta, l’altro da noi che noi abbiamo allontanato con orrore. Non potete rimetterlo in circolazione. Stiamo solo aspettando che la sanzione del tribunale ce lo metta in galera e butti via la chiave: perché lo condanneranno, questo è certo.
Questa è la cultura di oggi, altro che cassetto di Umberto Eco. E com’erano felici ieri i giornalisti di parlare di “rivolta sul web”. Ben inteso, amati colleghi, è lo stesso furore che si rivolge contro di voi quando “ve tocca”, come si dice a Roma. Ma in quei casi voi producete preoccupati editoriali sull’inciviltà del web e fate le vostre larvate, leggere, cavalleresche pressioni perché il Parlamento e il governo facciano qualche legge repressiva, o almeno una commissione di studio, che diamine, dalla quale poi venga fuori la martellata. Perché, insomma, la rivolta va bene se ci aiuta, non se ci distrugge non va bene. E questo è il vostro, fatale, errore. Perché non funziona e non funzionerà mai più così. I “lazzari” sono nelle strade, non faranno differenza, hanno sete e berranno anche il vostro, di sangue. Ma nelle strade ce li avete e ce li mettete voi, ogni giorno. Da decenni.
Perché poi “ce tocca” o “ce po’ toccà” a tutti, sempre come si dice a Trastevere. Quindi dimenticate il passato recente: gettate nel cestino la “macchina del fango”. Cancellate il “circuito mediatico-giudiziario”, non analizzate da destra e da sinistra. Ci siamo dentro tutti. Chi ieri ha massacrato con una falsa notizia l’avversario politico, oggi potrà riceverne lo stesso trattamento. È come se il vecchio caro giustizialismo fosse passato da analogico a digitale. Sì, l’avviso di garanzia era già condanna, ok. Sì, la detenzione è già anticipo di pena, ok. Sì, l’intercettazione è la “prova”, ma non lo senti come parla, questo criminale (Consiglierei la lettura di “Buio a Mezzogiorno” di Arthur Koestler)
Ma adesso si è aggiunta la velocità del Fatto Compiuto Senza Contesto, l’algoritmo del colpevole. Per carità, è la dinamica che porta i falsi untori della “Storia della Colonna Infame” di Manzoni ad essere prima torturati e poi squartati e avere le budella bruciate. Ma vuoi mettere i bit? È la nostra antropologia (cialtrona? Da linciatori? Totalitaria) alla velocità del computing e senza responsabili: la mia pietra è uguale alla tua (almeno i regimi totalitari prendono una responsabilità su di sé). Come noi nessuno sa come si costruisce una strega.
Questo sfugge a chi ancora oggi intinge la penna nello Schettino “simbolo” dell’Italia responsabile della “distruzione delle tradizioni marinare” (bum!). Che cosa strana, c’è un giornalismo dell’eccesso, della condanna, della Fustigazione Morale, ma è lo stesso che nega all’uomo comune della rete il diritto di eccedere e di fustigare. Non li sfiora l’idea di essere uguali, grandi e piccini, grandi penne e canari della magliana (un tipo che fece a pezzi con la tronchesi l’amante di sua moglie, assurto a Roma a simbolo del fare le cose male, già “simbolo”). Abbiamo creato il Lego della condanna sommaria: siamo tutti mattoncini nell’edificio dell’accusa. A turno andremo a comporre il rogo. Lo facciamo rosso, dai. Ché poi, se fosse chiaro che è un gioco della Menzogna, sarebbe un mondo perfetto: ma l’uomo del “ké” e l’editorialista illustre pensano che quella sia la realtà. No cari, la realtà, a questo punto, non esiste più, è delirio digitale totalitario.
Specialità italiana, non accade da nessun altra parte nel mondo. “Popolo der Web” e grandi intellettuali schierati insieme, uniti nella lotta, le signore che scrivono “qlk” e “ké” e Francesco Merlo. E senza il minimo sospetto che il problema non è la rete ma è il paese del Caso Tortora, dei cappi in parlamento, dell’eccesso verbale gratuito, del “non mi interessa il merito, parlo dell’etica”, della sommarietà intellettuale e dell’allontanamento da sé: io sono un italiano buono, lui è un italiano cialtrone. Stessa antropologia, stesso paese, mai “Scrittori e Popolo” furono una cosa così una e unita.
Alla fine è un paese che pensa per simboli e odia i fatti.
Eppure, all’inizio, era solo una notizia data male. La più recente. L’ultima prima della prossima.
Fonte http://www.wired.it/author/vzambardino
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