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2020/04/29

La stupidità uccide più del virus

La stupidità uccide più del virus. La nostra società è basata sulla vicinanza sociale.

Ho pubblicato gli sfoghi di due commercianti tra le migliaia di quelli che si trovano sul web perché si tocchi con mano come questo governo stia portando il paese al disastro.
Un governo di arroganti buffoni incompetenti che si ostina a non voler accettare la realtà. A non conoscere il funzionamento dell'economia del proprio paese.

Gli stipendi dei dipendenti di tutto il comparto pubblico sono pagati dalle tasse che sono a loro volta conseguenza dei ricavi fatti dal comparto privato.
Un comparto composto da attività professionali, industriali e commerciali, tutte tra loro interdipendenti.
Partendo dal settore commerciale, ci sono centinaia di migliaia di attività che si basano sulla vicinanza sociale, l'opposto della distanza.

Bar, ristoranti, parrucchieri, estetisti, palestre, alberghi, abbigliamento, mercatini,... sono centinaia di migliaia. Il distanziamento sociale mina alla radice la possibilità di sopravvivenza di queste attività. Perché, anche aprendo le attività, i ricavi crollano e non possono neanche lontanamente coprire i costi fissi, che sono i costi degli affitti, delle utenze, i costi amministrativi. In queste condizioni, dopo i debiti accumulati da due mesi di inattività, la maggior parte del settore non può sopravvivere ed è destinata al fallimento.

Il fallimento di un intero settore si propaga come uno tsunami su quello industriale, sulle attività professionali, sui servizi.

Quando tutta l'economia privata è in ginocchio, è la fine anche per quella pubblica.
Lo stato non ha un suo patrimonio, non crea posti di lavoro. TUTTI dipendono dall'economia privata. Anche le forze di polizia, che, quando diventano repressive, si accaniscono su chi paga loro lo stipendio.

Alla base della piramide, quindi, c'è la vicinanza sociale. È un fatto. È questa che permette al paese di sopravvivere. Questi assurdi discorsi di chi dice che dobbiamo cambiare i nostri stili di vita sono fatti da imbecilli che non sanno leggere la realtà delle cose.

Chi fa passare l'idea che un drastico distanziamento sociale sia inevitabile e durerà a lungo, è portatore di un'idea che ucciderà milioni di individui. Sta attivamente collaborando a compiere una strage. Non importa quante vite salverà dalla pandemia, ne ucciderà molte di più.

I media sono complici di una classe politica di stupidi vigliacchi inetti. Se realmente volessero salvare le persone dovrebbero fare l'opposto di quello che hanno fatto e stanno facendo, buttare acqua sul fuoco, rassicurare le persone. La malattia uccide, la stupidità uccide di più.

C'è la tendenza a credere che i mercati liberi e la cooperazione funzionino, tranne in situazioni difficili o "complesse" che richiedono l'intervento dello stato. Il grande Leonard Read (l'economista libertario che ha fondato la Foundation for Economic Education) vide il difetto in questo modo di pensare. Più complessa è l'economia, la società o la situazione, più dovremmo fare affidamento sui processi miracolosi e autoadattanti degli uomini che agiscono liberamente.

Quando poi lo stato è gestito da burocrati ottusi, la tragedia è inevitabile. Un governo che rifiuta la realtà deve essere spazzato via a qualunque costo.


Scritto da Aurelio Mustacciuoli su facebook.

Coronavirus, le prove (definitive?) contro la teoria del laboratorio



L'immagine mostra ambedue i presidenti di Stati Uniti e Cina. 
Perché ho inserito questa fotografia e non una del virus? 

Semplicemente le ragioni sono da ricercarsi nel continuo rimbalzo di responsabilità o colpe che i paesi rappresentati dai due presidenti si rinfacciano l'un l'altro. Con questa analisi basata su dati reali e verificati, certo non definitivi ma siamo molto vicini alla verità, si chiude il cerchio delle polemiche e viene fissata un'origine naturale e non elaborata in qualche laboratorio.
 
Ovviamente il virus si è formato in un ambiente favorevole come lo sono i mercati come li si trova in molti paesi asiatici. Ho visto personalmente mercati in Vietnam dove animali vivi in attesa di macellazione vengono sistemati in ambienti scarsamente igienici. La possibilità che si sviluppi una forma virologica in quelle condizioni è molto alta, questa volta è toccato alla Cina, la prossima chissà...

Coronavirus, le prove (definitive?) contro la teoria del laboratorio

Origine (non a Wuhan), tempi (ben prima di gennaio), genetica: le nuove acquisizioni scientifiche contro le teorie del complotto offrono l’occasione per riassumere quanto sappiamo su SARS-CoV-2
I tanti Napalm 51 dell’infosfera — i veri protagonisti dell’infodemia in corso — hanno in questa fase ottimi sostegni: l’Amministrazione di quella che resta, chissà per quanto, la superpotenza egemone (leggi le dichiarazioni del 15 aprile del Segretario di Stato Mike Pompeo, con tanto di indagine dell’intelligence annunciata); altri governi occidentali, anche se con posizioni più sfumate (Macron); un Nobel della Medicina (Luc Montagnier), il cui totale (e ormai pluridecennale) discredito presso la comunità scientifica può venire letto da alcuni — a rovescio — come una forma di eresia illuminata; un certo numero di «addetti ai lavori», ben compendiati in un’inchiesta di Jeanna Bryner per Live Science.

L’occasione mancata dei complottisti

La tesi di fondo è nota: l’agente patogeno SARS-CoV-2 (alla base della sindrome Covid-19) potrebbe essere «scappato al controllo» del «laboratorio» di Wuhan (in realtà il locale Istituto di Virologia). Nella versione hard, il virus sarebbe stato deliberatamente «manipolato ad hoc» prima di venir liberato come arma biologica; in quella soft, tutto si limiterebbe alla «fuga» (di quale «versione» del virus nessuno precisa) per un deficit tecnico-procedurale incompatibile col livello di «massima sicurezza» (BL4) in cui è inscritto l’Istituto. Varianti patafisiche di queste ore (vedi il Figaro): la condizione socioeconomica disperata di certi ricercatori dell’Istituto, che avrebbero venduto «cavie infettate» ai wet markets (i mercati di animali selvatici, già volàno di altri patogeni come la Sars) per integrare le loro magre retribuzioni. Risultato, come ricorda il biologo/immunologo Eric Muraille dell’Fnrs di Bruxelles in un intervento per Sud Ouest, il 23% degli americani e il 17% dei francesi crede ciecamente a quella tesi (ma sono percentuali in crescita).

Nell’intento — didatticamente e «politicamente» nobile — di contro-argomentare e smantellare quella tesi, Muraille sembra fornire paradossalmente carburante ai complottisti; di più, dar loro la possibilità di spingere l’acceleratore fino in fondo. Oltre ad argomenti tecnici specifici, di ordine virologico e genetico/genomico (su cui si tornerà più avanti), riconosce infatti — con la trasparenza insita nel metodo scientifico — l’effettiva fallibilità di Istituti e laboratori; quindi, alimenta la legittimità di diffidenze e sospetti, specie verso gli oltre 30 laboratori BL4 oggi sparsi per il mondo. In generale, Muraille ricorda da un lato come la Convenzione dell’aprile 1972 (che vieta messa a punto, fabbricazione e stoccaggio di armi-batteriologico-biologiche) sia stata oggetto di diverse violazioni, su tutte quella sovietica, con la continuazione di programmi di ricerca in tema (il famoso Biopreparat) anche a Convenzione firmata; dall’altro come gli «incidenti» si siano susseguiti lungo la Guerra Fredda e oltre. Vedi, tra gli altri, i due legati all’antrace: quello di Sverdlovsk del ’79 (66 morti per il carbonchio provocato dalla fuga della «spora»); e quello del settembre 2001, in un primo momento attribuito a Al Qaeda e invece opera del microbiologo Bruce Irvins del BL4 dell’Us Army (5 morti e 17 intossicati). In particolare, rievoca invece una sequenza misconosciuta o rimossa: l’unico precedente di «incidente» in tema di coronavirus, proprio in terra cinese, quando — alla fine della recidiva di Sars, il 22 aprile 2004 — due studenti dell’Istituto Nazionale di Virologia di Pechino (Nivl), originari dell’Anhui, contraggono la malattia, contagiando congiunti e colleghi (un’infermiera), per un totale di 9 casi (e un morto). Il 23 — come documenta il rapporto dettagliato del Cnc di Atlanta — l’Istituto viene chiuso e tutto rientra, poco prima dell’archiviazione cinese della Sars (18 maggio). Ma l’episodio — rafforzato dagli antefatti storici appena evocati — sembra tagliato su misura per fare da «precedente» dell’«incidente» di Wuhan. Strano non sia stato ancora utilizzato: forse altri elementi della trama si presentano più conturbanti e quindi più funzionali.

Batwoman

È tornata prepotentemente in primo piano, in questi giorni — col riaffiorare della teoria complottista — la figura di Shi Zhengli, la 55 enne virologa specializzata nello studio del genoma dei pipistrelli e, soprattutto, responsabile del Centro malattie infettive dello stesso Istituto di Wuhan. Come un Giano sottoposto a due visioni deformanti, Shi è idealizzata per un verso come una vittima inerte del Partito e della Dittatura: decifrato il genoma di SARS-CoV- 2 in tre giorni, avrebbe visto i suoi risultati occultati e le sarebbe stata «messa la museruola», fino a una specie di silenziamento punitivo. Per un altro — proprio in ottica complottista — è vista come l’artefice luciferina dell’«incidente», o almeno come la responsabile della «fuga» del patogeno e della sua penetrazione prima a Wuhan e poi nel mondo. Qualche tratto di verità — come vedremo — traspare forse dalla prima delle due visioni deformanti; ma per avere un’idea credibile della sua persona e della sua parabola (umana e scientifica) bisogna ricorrere a contributi come quello esemplare di Jane Qiu su Scientific American (Le Scienze di marzo), magari integrandolo con qualche altra fonte.

Come arriva, Shi, alla sera del 30 dicembre 2019? Alla sera, cioè, in cui viene raggiunta da una chiamata del suo «capo» (la direttrice generale Wang Yanyi) che le ordina di lasciare subito Shanghai — dove sta partecipando a una conferenza — e di precipitarsi a Wuhan per esaminare i primi campioni di malati di Covid-19? Tutto comincia proprio durante la recidiva di Sars, nella primavera del 2004, quando — nell’ottica di approfondire l’epidemia più o meno scampata e di prevenirne di successive — una Shi 40enne raggiunge coi colleghi Nanning, popolosa città del Guangxi, regione che insieme alla confinante Yunnan e al celeberrimo Guangdong (capitale Guangzhou-Canton), costituisce quell’ampia area della Cina del sud-est in cui si concentrano vaste popolazioni di pipistrelli portatori di coronavirus. Quella prima spedizione lungo grotte «profonde e strette, su terreni ripidi» (rivestite di «colonne di calcare e stalattiti bianco-latte», ma spesso «fetide» all’olfatto) non sarà trionfale: appena una dozzina di chirotteri catturati in 30 cavità, col metodo delle reti disposte agli imbocchi delle caverne per bloccare la loro uscita notturna. Né andranno meglio quelle successive, se dopo otto mesi Shi e i colleghi non hanno ancora riscontrato presenza di coronavirus nei chirotteri. Interverrà, per fortuna, la serendipity, il «volto buono» del caso: utilizzando sui pipistrelli dei kit diagnostici impiegati di solito per testare gli anticorpi prodotti da pazienti umani, il gruppo di ricerca ne trova tre (tra i mitici «ferro di cavallo») con anticorpi specifici per la SARS, deducendone come la «presenza effimera e stagionale» del virus si traducesse in una reazione immunitaria estesa «da qualche settimana a qualche anno».

Da quel momento, per Shi e la sua equipe sarà un accumularsi di successi e acquisizioni, il tutto operando specialmente nello Shitou, sito dello Yunnan (in cui le grotte sono nascoste tra ridenti villaggi collinari noti per le rose, le arance, le noci e il biancospino) selezionato dopo aver rastrellato decine di province cinesi. Giusto per fissare qualche tappa-chiave: nel 2012- indagando sul «profilo virale» di una miniera nella contea montuosa di Mojiang (sempre Yunnan) scoprono che 6 minatori colpiti da polmonite atipica (2 moriranno) l’hanno contratta toccando un fungo cresciuto sul guano dei chirotteri locali (modalità di contatto da aggiungersi come variabile a quella dei wet markets); l’anno dopo trovano una sequenza genomica coincidente al 97% tra pipistrelli e zibetti, togliendo ogni dubbio sul nesso tra ospiti «serbatoio» e «intermedi» nella SARS; a ottobre 2015 scovano tra gli abitanti di un villaggio 6 individui (su 200, cioè il 3%) dotati di anticorpi simili a quelli della SARS nei pipistrelli stessi (a riprova di possibili «convivenze» asintomatiche); a fine 2016 intuiscono la presenza di un nuovo morbo legato alla dissenteria acuta (SADS) che stermina 25.000 maiali della zona, evento particolarmente preoccupante perché l’università di Zhejiang (sud-est, sotto Shanghai) ne vede la trasmissibilità verso roditori, polli, primati e umani; e nel 2019 (con studi-break su Viruses e Nature Review Microbiology) pubblicano degli «avvertimenti» su possibili coronavirus pandemici.

Torniamo così alla sera del 30 dicembre, quando Shi rientra al laboratorio chiamata dal suo superiore. D’impatto, proprio alla luce della sua lunga esperienza, si chiede se l’autorità sanitaria municipale «si stia sbagliando». Conoscendo cioè come nessuno le regioni potenziali di un innesco zoonotico, è incredula e disorientata («Non avevo mai pensato che una cosa del genere potesse succedere a Wuhan, nella Cina centrale»), costringendosi alla domanda cruciale: «Se i colpevoli erano i coronavirus, potevano essere arrivati dal nostro laboratorio?».

Da vera scienziata, sa che è altamente improbabile, ma non impossibile: e si infila così nella «settimana peggiore» della sua vita. Sedici anni di conoscenze convergono nelle verifiche a tappeto, in quattro tappe: genomi dei pazienti sottoposti alla reazione a catena della polimerasi (che riesce a rilevare un virus amplificando il suo materiale genetico); sequenziamento completo del genoma stesso; test degli anticorpi nei campioni di sangue; test sulla capacità del virus di contagiare gli umani in una capsula di Petri. In attesa degli esiti (in lunghe notti «senza chiudere occhio»), Shi riesamina anche, febbrilmente, tutta la documentazione sulla gestione dei «materiali sperimentali» per individuare eventuali errori o imperizie, specie nella fase di smaltimento.

Il 7 gennaio 2020, la sentenza liberatoria: nessuna delle sequenze genomiche analizzate corrisponde a quelle campionate dal suo team. Eppure, da quel momento, i suoi rapporti con le istituzioni si opacizzano (eufemismo) e la sua immagine si demonizza. Il 14 manda una mail ai collaboratori in cui comunica di aver accertato la trasmissione umana del virus (ma lo stesso giorno l’Oms la nega); e il 3 febbraio pubblica su Nature uno studio (in parte anticipato da un «report» del 23 gennaio) in cui analizza il coronavirus di pipistrello ferro di cavallo (il già mitico RaTG13) coincidente al 96% con quello umano che diverrà SARS-CoV-2, ma — o forse proprio per questo — diventa la «madre del diavolo». A poco serviranno le sue reazioni, tra rabbia e incredulità: «Giuro sulla mia vita che il virus non ha nulla a che vedere col laboratorio». 

Anziché concentrarsi sulle omissioni e i ritardi del Governo (su tutti: la «bomba biologica» del Capodanno lunare di Wuhan), una parte dei media e dell’opinione pubblica interna e internazionale elegge Shi e il suo laboratorio a innesco occulto della pandemia. Ancora in questi giorni, c’è chi invoca una sua «confessione». Così come a poco serviranno, a scagionarla, l’enorme credito di cui gode, riassunto in testimonianze come quella di James Le Duc, Direttore del Galveston National Laboratory, centro di biocontenimento ad alta sicurezza in Texas («È una superba scienziata e una persona squisita») e soprattutto, la prova che ha fornito e sta fornendo in questa pandemia. La condanna per lei e il suo laboratorio sembra senza appello. A meno che…

Dal pipistrello al pangolino, e ritorno

Secondo uno degli adagi ricorrenti, le «prove della scienza» sulla (o meglio contro la) tesi-ipotesi del coinvolgimento del laboratorio di Wuhan, in versione hard o soft (arma biologica o semplice «fuga») sarebbero scorporabili da eventuali «prove dell’intelligence», come se queste ultime avessero la possibilità di bypassare o addirittura confutare evidenze genetico-genomiche ed epidemiologiche. È forse il caso, allora, di ripercorrerle, quelle «prove» — o meglio acquisizioni — scientifiche, in un riassunto cronologico-tematico.

Il break — dopo il contributo di Shi — è l’ormai celebre studio su Nature Medicine del 17 marzo (ne ha riferito prontamente e in modo esemplare su questo giornale Edoardo Boncinelli) in cui si identifica il pangolino come possibile ospite «intermedio» tra l’ospite serbatoio o reservoir (il pipistrello) e l’uomo, dove per pipistrello si intende il citato «ferro di cavallo» dello Yunnan. Il pangolino della Malesia (Paese nella cui lingua si esprime l’etimo del suo nome, «colui che si appallottola») è infatti non solo uno dei cardini della medicina popolare cinese (per via delle sue scaglie taumaturgiche), ma anche uno dei piatti prediletti nella cucina glamour del sud-est.

Starebbe quindi a SARS-CoV-2 come lo zibetto (o civetta delle palme) alla prima Sars: e questo nonostante il suo commercio sia ufficialmente (ma blandamente) vietato dal 2016. Con una differenza: il genoma dello zibetto corrisponde a quello umano (SARS-CoV) al 99,8%; mentre la corrispondenza tra il coronavirus «respiratorio» del pangolino e quello umano non è tout court al 99%, ma al 90,3%; il 99 riguarda una sezione, peraltro decisiva, quella del receptor-binding domain o Rbd (dominio di legame al recettore) cioè quella in cui le punte (o spyke) del virus agganciano la cellula umana (nel dettaglio, il recettore angiotestin converting enzyme o Ace2) per entrarvi e utilizzarla per riprodursi. È questo il passaggio-chiave. Secondo gli studiosi di Nature quell’«affinamento» specifico della configurazione molecolare del virus dipenderebbe da una pressione selettiva (nel senso di selezione naturale per mutazioni random) esercitata nell’ospite intermedio o direttamente nell’uomo, a spillover avvenuto (lo si capirà in seguito); ed escluderebbe in modo categorico («irrefutably») un intervento di manipolazione in laboratorio.

Lo stesso Muraille, del resto, nella sua requisitoria citata in apertura, riassume e chiosa bene il tutto. Ricorda brutalmente — quanto alla manipolazione — come il genoma di SARS-CoV-2 non contenga «sequenze residuali» relative ai «sistemi vettoriali» usati nella prassi per il trattamento dei virus; mentre insiste — quanto alla semplice «fuga» — sul fatto che la versione del virus «scappata al controllo» avrebbe dovuto essere adattata all’uomo secondo la configurazione appena descritta, resa cioè «compatibile» con l’assetto dei recettori della cellula umana.

Ma siamo solo all’inizio. Uno dei co-autori più autorevoli dello studio di Nature (e di interventi subito successivi su Cell e Lancet) è il virologo evoluzionista inglese Edward C. «Eddie» Holmes, vecchia conoscenza dei lettori di Spillover di Quammen (che lo intervista ai tempi della Pennsylvania University) e ora accasato a Sydney, Charles Perkins Centre. Pochi padroneggiano come lui la materia dei virus a Rna e in particolare dei coronavirus, tanto che il suo testo-principe (The Evolution and Emergence of RNA Viruses, Oxford, 2008) rimane una delle pietre angolari sul tema. In tre interventi severi e misurati sul sito accademico (27 marzo, 9 e 16 aprile), Holmes affronta molti aspetti della pandemia in corso, partendo dal rimpianto drammatico per le lezioni inascoltate al tempo della SARS, fattore decisivo nell’attuale «buco nell’acqua». Richiama, quindi, la necessità di provvedere adesso a quegli aspetti a cui si sarebbe dovuto provvedere allora: su tutto, le azioni tempestive e consistenti sui wet markets e la ricerca — in prospettiva di altri shock pandemici — non solo di un vaccino, ma anche di «un antivirale universale», che pure al momento sembrerebbe poco meno di un Graal. In più, prende posizione sulla questione della manipolazione-fuga dell’agente patogeno. Invitando a «mettere tranquillamente a dormire la teoria del complotto» (e riconducendone la «comprensibile» esplosione all’abnormità dell’evento, del suo carattere eccezionalmente inusuale), Holmes torna ai tratti biologico-evoluzionistici, focalizzando un punto-chiave: il virus del pipistrello scoperto da Shi Zhengli (RaTG13) e SARS-CoV-2 mostrano un livello di «divergenza genomica» consistente in una distanza temporale media di 50 anni — e un minimo di 20 — di cambiamento evolutivo (selettivo). Un «effetto» di ricombinazione molto difficile da ottenere in laboratorio. E aggiunge due elementi: il pangolino resta l’«ospite intermedio» più probabile, ma non sono esclusi, nello stesso ruolo, altri animali; e Wuhan è probabilmente solo un crocevia in un’emersione epidemica «molto più complessa». In effetti, su questo secondo punto stanno emergendo molte novità, riportandoci verso quel sud-est che è non solo l’habitat cinese dei pangolini, ma — come ormai tutti sanno — dei pipistrelli.

Wuhan o la penultima verità

Ha indotto giustamente meraviglia, a partire dal giorno della pubblicazione, il 7 aprile, uno studio pubblicato su PNAS (Proceeding of the National Academy of Sciences di Washington), in cui alcuni autorevoli scienziati — su tutti il genetista di Cambridge Peter Forster e l’eminente archeologo Colin Renfrew, col contributo decisivo dell’Istituto di Genetica Forense di Münster — provvedono a un’analisi comparata del complesso network filogenetico di SARS-CoV-2. In estrema sintesi: ricostruiscono, grazie a un algoritmo matematico, il percorso evoluzionistico del genoma «ancestrale» del virus nell’ospite umano, seguendone spostamenti e mutazioni, almeno nei suoi primi spostamenti. Il metodo è consolidato, in quanto già usato in 10.000 studi filogenetici: per esempio, nei primi anni ’90, il network filogenetico di cromosoma Y (presente solo nei maschi) e DNA mitocondriale (ereditato solo dalle femmine) è utile per risalire al movimento delle popolazioni preistoriche in varie zone del pianeta. Ma è la prima volta che viene usato in ambito virologico-epidemiologico: con l’effetto primario, oltretutto — come mostra una spettacolare traduzione infografica della «filodinamica» sulla prima pagina di Le Monde — di ricordarci la matrice «darwiniana» della pandemia, il suo somigliare a «un’invasione barbarica» di miliardi e miliardi di microorganismi (o meglio zombie molecolari) penetrati nelle nostre società più o meno ordinate per seminarvi il caos.

Non tutto, in questo «adattamento» virologico-epidemiologico del metodo, è a fuoco: come ricorda Forster, le mutazioni sono troppo rapide per non «ingarbugliare» l’albero: tant’è che lo studio — fondato su 160 genomi umani campionati tra il 24 dicembre e il 4 marzo — è appunto «un’istantanea» delle prime fasi epidemiche, «una supernova prima dell’esplosione». Gli esiti sono comunque carichi di implicazioni. Il gruppo di Forster ha trovato in sostanza tre varianti di SARS-CoV-2: una variante A (ancestrale, la più prossima al genoma del pipistrello) diffusa in Cina e in certe aree dell’America e dell’Australia; una derivata B, diffusa soprattutto in Asia orientale (compresa Wuhan); e una C, diffusa soprattutto in Europa ma anche in altre aree asiatiche.

Le indicazioni dei flussi sono risolutive su diversi aspetti: per esempio, nella risalita ai «pazienti zero» a livello nazionale (Italia, Messico, Brasile e così via); ma soprattutto — in coerenza con l’obiettivo primario della ricerca — gettano nuova luce sull’«innesco» epidemico, in particolare collegando la variante A a «quattro individui» del Guangdong (la regione di Guangzhou-Canton da cui è partita la prima SARS); dato tanto più interessante se accostato a quello di un uomo dell’Ontario che si ritrova contagiato il 27 gennaio dopo un viaggio in Cina, e le branche del cui genoma virale rispondono alla variante A di Foshan e Shenzhen (sempre nel Guangdong). Il «fantasma» allusivo di questi flussi viene esplicitato da Forster in un’intervista del 17 aprile a Stephen Chen del South China Morning Post, in cui lo studioso riassume la ricerca pubblicata su PNAS traendone, pur con tutte le cautele («Se fossi pressato a una risposta») due considerazioni-spartiacque: la retrodatazione dell’outbreak a un range cronologico esteso tra il 13 settembre e il 7 dicembre e la probabile collocazione dello stesso proprio nelle regioni della Cina meridionale, quelle per tanti anni perlustrate da Shi Zhengli, e da cui anche lei si aspettava (più che a Wuhan, semmai area di primo focolaio e di espansione) l’emersione di uno spillover.

Per confermare e affinare quest’ipotesi — aggiunge Forster — sarebbero necessari studi su altri genomi di pipistrelli o di possibili ospiti intermedi alternativi, oltre ai campioni di tessuti di pazienti affetti da Covid-19 tra settembre e dicembre, eventualmente conservati negli ospedali cinesi. Integrazione non trascurabile dello studio di PNAS è un contributo di questi giorni (ne riferisce sempre Chen sullo stesso giornale) del gruppo dell’epidemiologa Li Lanjuan dell’Università del Zhejiang, in cui l’analisi random dei ceppi virali di 11 pazienti di Hangzhou (capoluogo della regione) ha evidenziato una trentina di mutazioni.

Gli elementi interessanti sono due:

a) il notevole differenziale tra i ceppi a livello di carica virale (semplificando: di quantità di virus espressa) e quindi di citogenicità (capacità di danneggiamento cellulare), fino a 270 volte maggiore nei più aggressivi rispetto ai più deboli;

b) tornando alla filodinamica di PNAS, il fatto che una delle mutazioni alla base dei ceppi più aggressivi si ritrovi prima in molti Paesi europei e poi nell’area di New York (scenario confermato da uno studio indipendente) rispetto ai ceppi «medi» (meno letali) dello Stato di Washington e di altre aree americane.
Pur ricordando come tratti simili debbano poi interagire col quadro bio-immunologico e clinico del soggetto contagiato (così che ceppi deboli possono a volte risultare ugualmente letali), emergono discrimini finora impensati, da tenere presenti nel (ri)valutare la gestione politico-epidemiologica di tanti Paesi.

La teiera celeste

A conclusione di questo lungo percorso, dovrebbero essere chiare le ragioni che rendono «fantasiosa» (Holmes) l’ipotesi del virus da laboratorio (sia hard che soft): biologico-evoluzionistiche, genetico-genomiche, epidemiologiche. Se inoltre, nell’ottica introdotta nello studio di PNAS, Wuhan (e il suo mercato del pesce) risultassero il «penultimo» gradino nella risalita geo-cronologica al vero «outbreak» epidemico (pur restando il primo focolaio e la prima area di irradiazione), scemerebbero anche ragioni logiche e persino logistiche. Eppure, per un complottista doc (per un vero Napalm 51) tutto questo rischia di risultare insufficiente, se non irrilevante. Una letteratura sterminata — tra psicologia e psichiatria, specie in ottica evoluzionistica — ha ormai messo a fuoco ogni tratto delle «teorie cospirative», dal compiacimento soggettivo venato di irrisione sprezzante («io non ci casco») alla funzione aggregativo-identitaria (gruppi di eletti che irridono le «verità ufficiali» in una delle tante declinazioni del «noi contro di loro»). Alla base, il complottismo non è altro che la «degenerazione» di un impulso adattativo ancestrale: quello di scremare ordine dal caos, regolarità dall’irregolarità, senso dal nonsenso. Anche noi, come i nostri antenati del Neolitico, mescoliamo cioè effettive relazioni di causa-effetto nella lettura di fenomeni e processi con false correlazioni e ipotesi meta o patafisiche. 

Con una differenza non da poco: per i nostri antenati, il ricorso a quel mix era l’unico modo per vincere l’ansia e l’angoscia di un ambiente carico di incognite; per noi, diventa spesso il fondamento di un pregiudizio antiscientifico socialmente ed economicamente devastante, esteso dalle posizioni anti-ogm a quelle No vax. Posizioni, a proposito di No vax, cui è ormai associato anche Luc Montagnier, citato in apertura come alfiere del neo-complottismo su Wuhan (con una bizzarra teoria fanta-genomica che vedrebbe mescolate nell’RNA di SARS-CoV-2 sequenze di Dna di HIV); anche se — come dimostra Gilberto Corbellini nello spietato «necrologio in vita» che gli dedica sul Dubbio del 20 aprile — tutta la parabola dello scienziato francese è un equivoco mediatico, a cominciare da un Nobel abusivo che sarebbe dovuto andare solo alla co-vincitrice, la sua dotatissima allieva Francoise Barré-Sinoussi. Come unica (e molto parziale) attenuante per certi atteggiamenti complottisti, va ricordato l’impiego a volte «censorio» con cui gli anti-complottisti compulsivi (sì, c’è anche quella categoria) chiudono ogni discussione a proposito di fatti specifici o passaggi storici delicati (vedi Piazza Fontana o il delitto-Moro), trattando allo stesso modo la teoria cospirativa e l’esercizio critico. Ma sono sfumature fuori all’orizzonte cognitivo di un complottista doc.

Così come rischia di essere fuori dal suo orizzonte cognitivo la metafora provocatoria della «teiera celeste» di Bertrand Russell, evocata da Muraille. Secondo quella metafora, a un interlocutore che sostenesse l’esistenza di una teiera di porcellana orbitante intorno al Sole — tra la Terra e Marte — si dovrebbe rispondere che spetta a lui «l’onere della prova», non a chi dovrebbe smentirla; e questo dovrebbe valere per tutte le teorie «non falsificabili», cioè non scientifiche. Il punto è che tutti dovremmo concentrarci — vertici governativi in primis — sulle vere questioni inevase in Cina dai tempi della SARS, peraltro molto più difficili da affrontare dell’eventuale chiusura di un Istituto di virologia: la questione dei wet markets, quasi insormontabile sia per le resistenze antropologico-culturali che per l’incidenza che avrebbe la loro chiusura sull’economia cinese, con un danno tale (75 miliardi di dollari e 14 milioni di disoccupati) da spingere alla clandestinità; e quella della mancanza di trasparenza politico-mediatica sulle origini (luoghi, modi, tempi) e sulla gestione della pandemia, già evidente ai tempi della SARS e recidiva con COVID-19, strutturale in un Paese che si ostina a non comprendere le ricadute globali di eventi «locali». Sul secondo aspetto, le pressioni internazionali — a partire dagli Usa — cominciano a essere marcate. È in quella direzione che bisognerebbe insistere, anziché inseguire teorie della consistenza di teiere volanti.


STUDI E ARTICOLI

L’articolo-spartiacque di Shi Zhengli e colleghi sul virus del pipistrello associato a SARS-CoV-2 (RaTG13) è uscito su Nature il 3 febbraio 2020; quello sul pangolino come possibile «ospite intermedio» (di Kristian C. Andersen e colleghi) su Nature Medicine il 17 marzo (con un commento di Edoardo Boncinelli sul Corriere il 20 marzo).
Il ritratto di Shi Zhengli scritto da Jean Qiu è uscito su Scientific American l’11 marzo (la traduzione italiana di Lorenzo Lilli su Le Scienze il 16 marzo).
La ricerca di Peter Forster e colleghi sulla «dinamica filogenetica» di SARS-CoV-2 è stata pubblicata da PNAS (Proceeding of the National Academy of Sciences) il 7 aprile; l’intervista di Stephen Chen a Forster (South China Morning Post) il 17 aprile; l’articolo di Chen sulla ricerca dell’Università del Zhejiang (con intervista all’epidemiologa Li Lanjuan), il 20 aprile.
L’articolo di Eric Muraille, biologo-immunologo dell’FNRS di Bruxelles, è uscito su Sud Ouest il 17 aprile.

2020/04/24

Banana Republic


In Italia ormai da quasi due mesi si deve stare in casa salvo che si debba uscire e la mascherina è sempre da usare, poi no, poi si, poi forse. D’altronde i negozi sono chiusi tranne quelli aperti, il virus non colpisce i bambini e i giovani salvo quelli che se lo prendono. Infatti se hai molti sintomi sei malato, però puoi anche ammalarti senza sintomi oppure puoi avere i sintomi ma senza star male, ma essere anche contagioso pur non avendo i sintomi e se chiedi di farti il tampone per verificare se sei contagioso non puoi farlo perché non hai i sintomi.

Curati: per non ammalarti devi fare esercizio fisico, però non dovresti uscire e non puoi correre, perché sei corri allora è attività sportiva e non si può fare. Comunque tirati su e se vuoi la pizza te la portano a casa, ma chissà se chi l’ha preparata era contagioso? Poveretto il pizzaiolo: poteva essere senza sintomi, ma se era asintomatico eppure malato e ti infetta? Chissà…Anche perché il virus sulle superfici vive pochi minuti, al massimo due ore, no quattro… o forse sono sei, oppure fino a 2 giorni, ma comunque tranquillo perché in media i sintomi escono in 4 giorni, o forse fino a 11, ma magari anche molti di più…

In un paese con gli scienziati che ogni sera si contraddicono così, chiedi chi siano gli scienziati e gli esperti e scopri che sono ormai decine le commissioni, i comitati, i referenti, le cabine di regia, i tavoli tecnici, le task force (perchè scriverlo in inglese fa tanto più figo).

Tutti commissioni e tavoli ripetuti e replicati a livello centrale, regionale, provinciale e locale, così come negli assessorati e nei ministeri e dove alla fine nessuno decide perché lo deve fare sempre qualcun altro che però di solito la pensa diversamente da te.

Succede sempre così, quotidianamente, tanto dalle commissioni non si dimette mai nessuno, poi arriva (ma dopo, a posteriori) puntualmente un Magistrato che giustamente accusa, ma non era certo in prima linea a decidere quando c’era bisogno di farlo e quindi molti procedono nell’ottica che se non si decide niente almeno non si rischia, come puntualmente troppo spesso è avvenuto.

Alla fine abbiamo comunque tutti ragione, ma intanto finalmente si apre, no non si apre. Allora si apre in parte, divisi per regioni e/o ci si muoverà in date diverse, orari diversi, ma solo nell’ambito della propria regione. Nessuno pensa a chi (come me) vive su un confine regionale e quindi mi servirebbe poco poter andare a 250 km. di distanza se poi il lavoro sarebbe a cinque chilometri da casa ma – ahimé – in un’altra regione.

Alla fine restano poche certezze, per esempio quella di poter andare a fare la spesa ma - chissà perchè - non si può andare a Messa, neppure tenendo le distanze.
Messe vietate già da quella domenica 8 marzo ormai lontana, con le chiese già chiuse ma contemporaneamente i bar pieni di gente per l' ora dell’aperitivo.

Che il cibo del corpo valga più di quello dell'anima è una opinione del governo, che ha vietato perfino la benedizione delle salme in chiesa (pur se deserta o semi-deserta), chiese che non si possono legalmente aggiungere se non "nelle immediate vicinanze" delle abitazioni. .

Mi si permetta allora almeno ricordare oltre a medici, infermieri e farmacisti (ma anche a tanti volontari morti per aver trasportato i malati) una categoria di cui non ha parlato quasi nessuno: i sacerdoti.
Oltre 100 sacerdoti in Italia sono morti in queste settimane perché sono stati vicino a malati che spesso morivano da soli. 

Anche loro sono degli eroi silenziosi di questa epidemia.

2020/04/17

Un grande e brutto pasticcio all'italiana



Ci stiamo avvitando in caduta libera, ma rispetto a quando mi lanciavo da giovane col paracadute stavolta non c’è neppure quello di emergenza. Serve programmare ed attuare subito – con le dovute cautele e verifiche – una immediata ripartenza produttiva.

Troppi annunci del Premier si trasformano in delusioni e gente non all’altezza sta portando l’ Italia a un doppio disastro, sia interno che nei riguardi degli altri paesi europei dove la ripresa è già cominciata.  

Polemico? Davvero non vorrei, ma ditemi voi come si può scrivere un decreto dove, per indicare il tasso cui fare riferimento per un finanziamento alle piccolissime imprese, anziché chiaramente dire 1% (oppure 1,5% o 2%) si debba testualmente scrivere: (art.13) “Il soggetto richiedente (la banca) deve applicare al finanziamento garantito (all’azienda) un tasso di interesse… che tenga conto della copertura dei soli costi di istruttoria e di gestione dell’operazione finanziaria non superiore al tasso di Rendistato con durata residua da 4 anni e 7 mesi a 6 anni e 6 mesi, maggiorato della differenza tra il CDS banche a 5 anni e il CDS ITA a 5 anni così come definiti dall’ accordo-quadro per l’anticipo finanziario  a garanzia pensionistica di cui all’art.1, commi da 166 a 178 della legge 11 dicembre 2016 n. 232, maggiorato dello 0.20% … ecc.”

Il CDS sta per Credit Default Swap che cambia ogni mese (come il CDS ITA) e per calcolarlo si fa riferimento alla piattaforma (privata) Markit. Il punto è che neppure su questa piattaforma c’è un indicatore medio, perché l’interesse applicabile va poi calcolato per il rating e l’operatività di ogni singola banca.

I fondi disponibili, tra l’altro, coprono le necessità di una minima parte dei presunti richiedenti l’aiuto. 

Ma i ministri che approvano un decreto come questo, capiscono cosa ci sta scritto? E se non lo capiscono (come credo, visto che non lo comprendono neppure i tecnici finanziari) perché allora lo approvano, e cosa ci stanno a fare? 

Fin qui per le piccolissime imprese, ma tutte le aziende con giro d’affari oltre i 100,000 euro e fino a 499 dipendenti (il grosso della produzione, insomma) non avranno condizioni preferenziali  perché i tassi sui finanziamenti richiesti, secondo il decreto, andranno poi discussi in “trattativa di libero mercato” tra banca e azienda con affidamenti, tempi, interessi, saldo delle garanzie, procedure, modulistica da definire volta per volta. Quindi non è vero che i soldi saranno concessi a tasso vicino allo zero ma a molto, molto di più (“di libero mercato”, appunto) e in una trattativa tra banca e un'azienda che magari ha già l’acqua alla gola, secondo voi chi vince?

Eppure le banche si possono finanziare a tasso sotto lo zero con la BCE.

Quindi – in definitiva – il decreto di Conte favorisce le banche, non le imprese!

In quanti l’hanno capito dentro e fuori il governo e quanti cittadini lo possono capire, se c’è una continua informazione raffazzonata, supina e tendenziosa? 

Ma come si può pretendere che con queste pantomine l’Italia possa mai uscire dalla crisi più devastante di sempre? Ma perché - anziché chilometriche comparsate di Conte e dei suoi “tecnici” in TV (ormai un esercito tra esperti, commissioni, comitati, istituti superiori, tavoli, tavoli tecnici e task force) - non si chiariscono piuttosto queste cose e soprattutto non si scrivono norme chiare, semplici, veloci, inequivocabili?  

Eppure le norme dell’Agenzia delle Entrate per chiarire il differimento dei termini  fiscali occupano 44 pagine e ben 150 pagine la prima bozza ministeriale per “la semplificazione (!) e l’accelerazione degli investimenti in materia di opere pubbliche”.

 I numeri sottolineano bene la drammatica realtà e la spasmodica necessità di non affogare: in pochi giorni ben 105,727 imprese hanno chiesto ai prefetti di “aprire in deroga”. Di queste - a ieri - 2,296 domande erano state respinte, ma le altre lavorano (o cercano di lavorare) in regime di “silenzio-assenso”: quante siano poi effettivamente quelle in regola o meno, nessuno lo sa.  

2020/04/01

La Trojka è realtà!




I sovranisti smemorati invocano Mario Draghi come Presidente del Consiglio di un governo di unità nazionale. L’incapacità criminale del governo PD-M5S e l’imbarazzante gestione dell’emergenza sanitaria della coppia Conte-Casalino non possono far passare in secondo piano chi è Mario Draghi e le tappe principali della sua “onorata carriera”:

· Nel 1992, come Direttore Generale del Ministero del Tesoro, prende parte all’incontro primaverile sul panfilo Britannia con alti rappresentanti della comunità finanziaria internazionale. Nel suo discorso, anticipa quanto farà in estate, con l’avvio del piano di privatizzazioni selvagge e la svendita delle principali aziende pubbliche italiane. L’ex-Presidente della Repubblica Cossiga sintetizza efficacemente la sua azione di quegli anni: “Un vile affarista, liquidatore dell’industria pubblica italiana”. I risultati della stagione avviata da Draghi li abbiamo visti al Ponte Morandi.

· Nel 2011 firma assieme a Jean-Claude Trichet la famosa lettera con cui intimava al governo italiano ulteriori privatizzazioni, la riduzione degli stipendi pubblici, l’innalzamento dell’età pensionabile, la cancellazione di diritti sociali e tutele sindacali, l’inasprimento delle tasse. Tutto ciò per “ripristinare la fiducia degli investitori”. L’operazione sarà conclusa a luglio, con il colpo di Stato con cui la BCE cessò di acquistare i titoli di Stato italiani per far schizzare in alto lo spread e costringere Berlusconi alle dimissioni, spianando la strada all’ascesa del Governo tecnico di Monti.

· Nell’estate del 2015 la BCE di Draghi destabilizza deliberatamente l’economia greca, interrompendo il supporto di liquidità alle banche e costringendo il Governo di Tsipras ad accettare le misure di austerità del nuovo Memorandum.

Siamo nel 2020, nel pieno di una gravissima emergenza sanitaria che porterà alla peggiore crisi economica del dopoguerra, Draghi si propone come salvatore della Patria. Improvvisamente il debito pubblico non è più un problema: dopo aver privatizzato i profitti bisogna socializzare le perdite per tenere a galla gli istituti finanziari e per derubare definitivamente i paesi europei della loro sovranità nazionale con l’inganno degli Eurobond.

Draghi non è l’uomo nuovo: rappresenta il potere di sempre, quello dei tagli che hanno devastato la nostra sanità pubblica, delle privatizzazioni che hanno lasciato nel degrado le nostre infrastrutture, dell’austerità che ha abbandonato alla povertà milioni di cittadini. Chi ha organizzato il problema non può presentarsi come la soluzione. Chi vuole dirsi realmente sovranista non può che rifiutare radicalmente qualsiasi ruolo di Mario Draghi per l’Italia che verrà. Chi invece appoggerà l’arrivo di un uomo della Troika a Palazzo Chigi sarà responsabile di alto tradimento allo stesso modo di chi ha votato le leggi e le riforme che hanno devastato il nostro paese negli ultimi anni.






fonte OrdineFuturo

Gli illusi e le supercazzole europeiste (di Elio Crovetto).


Parlare con il ‘senno del poi’ per quanto non sia il mio sport preferito, permette di poter commentare oggettivamente gli eventi sulla base di fatti e comportamenti avvenuti e consuntivati, pertanto, quando necessario, è utile praticarlo.
Ed è da questo presupposto che stamane riflettevo sull’Europa, ma attenzione, non sull’Europa di oggi, quella dell’emergenza Covid per intenderci, ma sull’Europa ante-Covid, quella che fino a soli due mesi fa discuteva temi comunitari fino a quel momento prioritari quali politiche economiche e Patto di Stabilità, gestione del fenomeno immigrazione, riflessioni post-Brexit, ecc.

Su quell’Europa discutibile - ed infatti discussa - molte persone tra le quali molti amici, hanno sempre ribadito l’idea Europeista auspicando - in riferimento agli aspetti più contraddittori delle politiche adottate – il miglioramento dell’Europa, la necessità di lavorare per dare peso ai pensieri ed alle necessità di paesi oggi secondari, tra cui il nostro, nell’ambito dell’attuale assetto politico e decisionale Europeo ad evidente trazione nord-europea, guidato di fatto da un solo paese leader, la Germania, da una corte di paesetti tirapiedi (Olanda, Finlandia, Estonia ecc.) e da una Francia a corrente alternata che - in funzione delle proprie convenienze – sceglie tema per tema. La Gran Bretagna aveva invece già salutato tutti e lasciato il tavolo.

Tutto questo fervore Europeista e migliorista credo nella ovvia e genuina convinzione che ciò non fosse una mera utopia, ma un obiettivo concreto e realizzabile, che passava – necessariamente – per una supposta consapevolezza dei paesi leader della necessità di un cambiamento e – soprattutto - per la loro disponibilità allo stesso.

Ipotesi queste peraltro non campate in aria, evincibili tutto sommato da un vento, o meglio, una brezza leggera che sembrava soffiare in direzione diversa dopo clamorosi ed oggettivi fallimenti come la Brexit o la gestione della crisi Immigrazione, un vento fatto dalle diverse dichiarazioni più o meno ufficiali, dalle interviste, dalle asserzioni di solidarietà, dai tanti bla bla che puntualmente spuntavano da Bruxelles e riempivano tv, giornali e social ad ogni acuirsi di crisi.
Ma come si dice “Dal dire al fare c’è di mezzo il mare” e difatti, fino a Marzo 2020, sono rimaste solo parole, ricche di spirito Europeista, di fratellanza blustellata, di tante speranze, ma sempre e solo parole.


Poi è arrivato il Covid-19.

Come uno tsunami poderoso, annunciato ma largamente sottovalutato, è entrato a gamba tesa in Europa, falcidiando in pochissime settimane i sistemi sanitari e le economie dei paesi EU, ed in particolare ha colpito di più i paesi meno virtuosi, i poveracci insomma.
Ha ingenerato una crisi umanitaria/sanitaria/economica senza precedenti, la cui portata è incommensurabilmente più grande di tutte le altre fino ad ora affrontate dall’Europa, una crisi che – proprio in virtù della sua portata e della veemenza - non ammette tentennamenti né tanto meno ammette errori.

Quello che per il teatrino Europeo proprio non ci voleva: una crisi anti-supercazzole.
Eggià, il Covid-19 non lo si vince con le dichiarazioni, parole o promesse, ma lo si vince con i “fatti”, e al contempo non lo si può vincere un domani più o meno lontano, ahimè lo si deve vincere “ieri”.
Ecco qui che cade la maschera, in questo caso né chirurgica né FFP3 (quelle se le sono tenute ben strette), cade invece la maschera dell’ipocrisia Europea, dell’Europa che comanda, con il Covid-19 le parole si sciolgono come neve al sole di Agosto e rimangono solo i fatti. Ed i fatti li conosciamo tutti, non serve nemmeno ripeterli.

Ma non voglio scendere nel merito delle iniziative “comunitarie” di gestione del Covid, sulle quali credo di aver espresso più che palesemente la mia opinione, come detto all’inizio voglio rivolgermi agli illusi Europeisti, a chi aveva davvero creduto alle supercazzole che sono state raccontate dopo la Brexit, dopo la crisi Immigratoria ecc, li invito ad uscire dal torpore e a guardare i fatti, a riconoscere CHI SONO i nostri interlocutori in Europa e quello che realmente FANNO e non le supercazzole che ci raccontano per farci contenti.

Se non fosse arrivato il Covid-19 chissà per quanti anni ancora vi avrebbero illuso.
Una propaganda fatta così bene che sono arrivati al punto di farvi teorizzare che è grazie all’Unione Europea se da 75 anni non ci sono guerre in Europa… peccato che l’UE esista solo dagli ultimi 27 e - in particolare - esiste solo da 19 come unità monetaria e che all’interno di questo periodo, in nome del rigore fiscale, ha inginocchiato senza pietà paesi come la Grecia (paese cavia in questo senso, ed i prossimi siamo noi) e dato fiato al ritorno degli estremismi e sovranismi come mai accaduto nei precedenti 50 anni ante UE.

Una propaganda pacifista strombazzata da quegli stessi pulpiti che nella prima metà del secolo scorso (e non parlo di duemila anni fa) hanno causato due guerre mondiali e 92 milioni di morti, di cui 6 milioni nelle camere a gas.

Cari amici illusi e necessariamente disilludendi, mi ricordate tristemente la scena iniziale del film “SOBIBOR”, nella quale gli ebrei venivano fatti scendere da un elegante treno passeggeri ed accolti dai nazisti nel campo di sterminio con tanto di corteo di accoglienza, sorrisi e musica, per poi venire suddivisi con ragionevoli motivazioni tra quelli che sapevano lavorare legno e metalli e gli altri, dopodichè, questi ultimi, e sempre con ragionevoli parole, venivano convinti a lasciare cose e vestiti per fare una bella doccia, proposta accolta a braccia aperte dagli inconsapevoli ed illusi protagonisti.

Una doccia senza ritorno però.

Cari i miei amici illusi e disilludendi vostro malgrado, la storia insegna a capire CHI E' IL VOSTRO INTERLOCUTORE, anche in quel caso è cominciata con le parole e sorrisi, la deportazione con i carri bestiame, i “Güterwagen”, è avvenuta solo dopo.

La diversità svedese


Amo il sole della primavera italiana. Perciò avevo accettato di partecipare a tre festival letterari: Milano a marzo, Venezia ad aprile, e poi Udine verso l’estate. Invece sono finito qui, in isolamento volontario, su un’isola nell’arcipelago di Stoccolma. Non perché debba, ma perché voglio. Ho una bella scorta di legna, e posso andare a far la spesa all’emporio come al solito. Certo, oggi sta nevicando, ma la primavera arriverà anche qui.

Tutti stanno facendo la stessa domanda: perché il governo svedese non combatte la pandemia di coronavirus come fanno gli altri? Perché non introduce restrizioni e controlli? Quasi tutti i ragazzi continuano ad andare a scuola. Persino gli asili sono aperti. Possiamo ancora viaggiare come ci pare, o andare al pub se ce ne viene voglia, e anche se il divieto di assembramenti, da un massimo di 500 persone, è stato di recente abbassato a 50, ci sono enormi differenze rispetto al resto d’Europa.
Saremo forse degli ingenui? Oppure questa bizzarra strategia è spiegabile in altri modi?

Lasciate che ci provi.

In fin dei conti, il modello svedese si basa sulla fiducia. In generale, gli svedesi hanno fiducia gli uni degli altri, e nelle istituzioni: seguiamo volentieri consigli e raccomandazioni, specialmente se il primo ministro, e magari anche il re, alzano la voce. Lavatevi le mani! Non spostatevi se non è indispensabile! Proteggete gli anziani! E fintanto che questa fiducia funziona, i divieti non sono necessari. Questa fiducia rappresenta un ingente capitale, proprio come le finanze dello Stato, in parte perché nel nostro Paese la corruzione è cosa rara. Anche qui c’è stata la deregolamentazione di alcuni mercati, ma lo Stato continua a essere stabile. Anche qui ci sono delle voci critiche che temono il collasso, ma per ora si va avanti.

Inoltre, le istituzioni svedesi godono di una peculiare indipendenza. Nel nostro assetto statale, di antica tradizione, un ministro non può mettersi a fare il bello e il cattivo tempo quando l’opinione del momento pretende le maniere forti. La responsabilità operativa appartiene alle istituzioni, e al momento è l’Istituto di salute pubblica a dirigere le danze. Un epidemiologo finora sconosciuto, un grigio impiegato statale in maglioncino, tiene quotidianamente una conferenza stampa per spiegare la situazione. Il governo segue a sua volta le raccomandazioni delle istituzioni.

Un direttore generale se possibile ancor più grigio non fa che ripetere che dobbiamo guadagnare tempo. Se tutti si ammalano contemporaneamente il sistema sanitario collasserà. Più o meno tutti recepiscono il messaggio. Rimane da scegliere una strategia opportuna per appiattire il grafico dei contagi. Finora la situazione è identica in ogni Paese; la differenza è che la Svezia preferisce la libertà di scelta alle costrizioni. Si valuta che sia la strada più efficace, soprattutto pensando alle prossime settimane. O mesi.

All’inizio dell’epidemia vi fu chi chiese di chiudere tutte le scuole, come negli altri Paesi. Ma l’Istituto di salute pubblica valutò che i pro, in termini di minori contagi, non avrebbero superato i contro, in termini di carenza di personale nelle strutture sanitarie. 
In Svezia non ci sono molte casalinghe; quasi tutti lavorano, uomini e donne, e queste ultime sono preponderanti nella sanità. Chiudendo le scuole, si è pensato, molte infermiere sarebbero rimaste a casa coi figli. Inoltre si è immaginato che i ragazzi si sarebbero incontrati comunque, scambiandosi il virus, anche con le scuole chiuse.

Gli studenti più grandi e gli universitari possono seguire le lezioni a distanza senza troppi problemi, così in quel caso si è deciso di chiudere. I pro superano i contro: semplice matematica, che la gente capisce.
Tempo, è tutta una questione di tempo. Alla fine della guerra fredda, quando i neoliberisti avevano il mondo in pugno, i depositi di emergenza svedesi vennero smantellati, dunque anche noi siamo a corto di dispositivi di protezione e di respiratori, non solo di personale sanitario. Ma anche in tal caso interviene la fiducia. Confidiamo semplicemente che l’industria svedese sappia riorganizzarsi rapidamente e produrre quel che manca. Ed è quel che sta succedendo proprio ora.

Che Viktor Orbán dichiari lo stato d’emergenza non sorprende, probabilmente stava aspettando un’occasione simile, e forse sarà necessario ricorrere a misure altrettanto draconiane anche in Francia, Spagna e Italia, ma per molti aspetti la Svezia è diversa. Certo, potremmo anche noi mettere tutta Stoccolma in quarantena e mandare l’esercito a presidiare le vie d’uscita, o fare come i tedeschi e vietare gli assembramenti di più di due persone, ma qui da noi lasciare libertà di scelta funziona meglio. I vaccini per le malattie infantili, per esempio, sono sempre stati volontari. 

Eppure la Svezia è in cima alla classifica: non perché dobbiamo, ma perché vogliamo.
Va anche detto che la Svezia è un Paese omogeneo, dominato da una nutrita classe media benestante, le cui virtù possono essere fatte risalire al proletariato secolarizzato del dopoguerra e a vari movimenti popolari più o meno puritani. Ovvio, anche noi dobbiamo gestire certi ricchi viziati che reputano la settimana bianca più importante di ogni forma di solidarietà e, negli ultimi tempi, un sottoproletariato d’importazione, extraeuropeo, tra cui la povertà e l’affollamento delle abitazioni favorisce il contagio, ma si tratta di fenomeni marginali.

Gli svedesi sono in vasta maggioranza disciplinati, e io sono uno di loro. Nessuno mi vieta di andare a trovare mia madre di 95 anni, che abita in una regione dove i contagi non hanno ancora raggiunto numeri significativi, ma siccome mi si raccomanda di evitare gli spostamenti non lo faccio. Quasi tutti fanno valutazioni simili. E i risultati si vedono. Sappiamo che il contrasto all’epidemia è un questione di equilibrio, tra salute ed economia, e ci fidiamo più di altri dei nostri burocrati.

Forse, mi viene da pensare, c’entra anche il fatto che la Svezia è uno Stato nazionale antichissimo. Lo so, nella nostra epoca il nazionalismo è un flagello, ma il fatto è che la Svezia esisteva già nel medioevo, e credo che le radici della fiducia affondino fin là. Che noi svedesi siamo ingenui perché ci siamo tenuti fuori dalle guerre mondiali del Novecento non mi convince. Le tradizioni vanno ben più indietro nel tempo.

Tra l’altro, siamo più patriottici che nazionalisti. 
È una distinzione importante. 

George Orwell ha scritto una volta, nel 1945, che il patriottismo nasce dall’amore per un certo luogo e per la vita che vi si conduce, ma che non cova mai dentro di sé il desiderio di imporre lo stesso stile di vita agli altri. Di conseguenza, il patriottismo è difensivo e pacifico. Il nazionalismo, invece, che è legato al desiderio di potere politico, può facilmente imboccare la via sbagliata.
Le cose stanno più o meno così. Facciamo quel che possiamo, a modo nostro, al tempo della peste.

Un anno fa mi trovavo sulle colline a Est di Firenze, ospite della Fondazione Santa Margherita di Donnini. Ci rimasi qualche settimana, scrivevo tutto il giorno e poi la sera cenavo, bevevo vino, ridevo e battibeccavo con scrittori italiani, canadesi, irlandesi, inglesi e colombiani. Di rado andavamo d’accordo, ma siamo diventati buoni amici. È così, esattamente così, che si fa politica. Spero di tornare presto. L’isolamento è temporaneo, credetemi.

Fonte: REP.
Traduzione di Andrea Berardini
Fredrik Sjöberg è biologo e scrittore, il suo ultimo libro “Mamma è matta, papà è ubriaco”. Ha pubblicato “L’arte della fuga” e “L’arte di collezionare mosche”