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2016/07/16

I muri del commercio mondiale



La Brexit, l'ascesa di Trump, le tentazioni protezioniste di Hillary Clinton, l'arenarsi del TPP e del TTIP, i due grandi trattati commerciali promossi da Obama con i paesi del Pacifico e dell'Atlantico, lo svanire del WTO, il rifiuto europeo di concedere alla Cina lo status di economia di mercato che ne avrebbe agevolato le esportazioni. La lista dei campanelli d'allarme sulla salute della globalizzazione è lunga, ma decretarne il tramonto è prematuro. E' cambiata certamente la narrativa della globalizzazione. 

Da fenomeno che vede tutti vincitori - i capitalisti che hanno più occasioni di investire, i consumatori dei paesi ricchi che spendono meno per i loro consumi, i lavoratori dei paesi emergenti che vedono crescere i loro redditi - ad una situazione in cui i perdenti ci sono: le classi medie dei paesi ricchi che hanno visto frenare drammaticamente la crescita dei loro redditi reali. Ma i grandi motori dell'integrazione globale continuano a girare: dalla crescita esponenziale dei flussi di dati via Internet alle "catene di valore", cioè le produzioni integrate sparse su vari paesi che ormai occupano i tre quarti delle esportazioni mondiali.

O invece no? Quando Jeff Immelt, il boss di General Electric, una delle più grandi multinazionali mondiali suggerisce che la strada futura è la localizzazione delle produzioni sembra indicare che le grandi aziende hanno fiutato una svolta che alle grandi istituzioni economiche mondiali è sfuggita. In un saggio apparso su Voxeu, due studiosi, Simon Evenett e Johannes Fritz la sintetizzano così: il commercio mondiale non sta rallentando. Si è puramente e semplicemente fermato. E questa frenata coincide con una recrudescenza di misure protezionistiche.

Per il 2015, World Bank, FMI, WTO stimano tutti una crescita del commercio mondiale fra il 2,8 e il 3,1 per cento. Ma i dati (a consuntivo) dell'olandese World Trade Monitor indicano invece che non è aumentato affatto. Anzi, è un po' diminuito. Evenett e Fritz sostengono che il volume del commercio mondiale non si schioda dal livello raggiunto nel gennaio 2015, e questo vale per export, import, paesi avanzati e paesi emergenti. Un ristagno lungo 15 mesi - osservano - tranne che nelle vere e proprie recessioni non si era mai visto dai tempi della caduta del Muro di Berlino. Ma questo vale anche per il valore del commercio mondiale? 

In altre parole, non è che il crollo dei prezzi delle materie prime (petrolio in testa) e la contemporanea rivalutazione del dollaro (la valuta in cui vengono quotate) basta a spiegare la frenata complessiva del commercio? No, rispondono Evenett e Fritz. I prezzi delle materie prime, a fine 2015, erano in ripresa, quelli dei semilavorati sono caduti tutto l'anno. Per beni d'investimento e di consumo i prezzi sono scesi per la prima parte del 2015 e lì sono rimasti. Insomma, petrolio e dollaro sono solo un pezzo della spiegazione.

Qual è l'altro pezzo? Secondo lo studio, i prodotti che hanno subito la maggiore caduta sono quelli che si sono scontrati con crescenti barriere protezionistiche. Il censimento fatto da Evenett e Fritz dice che il numero delle misure protezioniste nel mondo è cresciuto del 50 per cento fra il 2014 e il 2015. Che per ogni liberalizzazione ci sono state tre nuove misure antistranieri e che il 2016 si presenta peggio del 2015. Colpa dei paesi piccoli e deboli? 

Niente affatto, oltre l'80 per cento delle iniziative protezionistiche del 2015 sono opera dei paesi del G20. Lo studio dice anche che la natura di queste iniziative sta cambiando. Prima erano soprattutto dazi, sussidi e finanziamenti alle aziende nazionali. Adesso, si diffonde la pratica di imporre agli investitori di rifornirsi sul mercato nazionale. "Buy local", insomma, come sembra aver capito Immelt. 

Per la Gran Bretagna, che si trova fuori dall'ombrello europeo, la Brexit non poteva arrivare nel momento peggiore. Ma si preparano tempi duri per tutti i grandi esportatori, come Germania e Italia.

globalizzazione, eurobarometro, commercio mondiale

Da un articolo pubblicato su Repubblica.it del 16/07/2016

2015/10/26

Economia e cultura



Una delle favole dei fratelli Grimm – immagino che siano conosciute anche in Italia – si chiama “Il gatto e il topo in società”. Un gatto convince un topo dell’amicizia che ha per lui; mettono su casa insieme, e in previsione dell’inverno comprano un vasetto di grasso che nascondono in una chiesa. Ma con il pretesto di dover andare a un battesimo, il gatto esce diverse volte e si mangia man mano tutto il grasso, divertendosi poi a dare risposte ambigue al topo su quanto ha fatto. Quando finalmente vanno insieme alla chiesa per mangiare il vasetto di grasso, il topo scopre l’inganno, e il gatto per tutta risposta mangia il topo. L’ultima frase della favola annuncia la morale: “Così va il mondo”.

Direi che il rapporto tra la cultura e l’economia rischia fortemente di assomigliare a questa favola, e vi lascio indovinare chi, tra la cultura e l’economia, svolge il ruolo del topo e chi quello del gatto. Soprattutto oggi, nell’epoca del capitalismo pienamente sviluppato, globalizzato e neoliberale. Le questioni che vuole affrontare questo “foro de arte publico”, e che vertono tra l’altro sulla questione chi deve finanziare le istituzioni culturali e quali aspettative, e di quale pubblico, deve soddisfare un museo, rientrano in una problematica più generale: quale è il posto della cultura nella società capitalistica odierna? Per tentare di rispondere, io prenderò dunque le cose un po’ più alla larga.

A parte la produzione – materiale e immateriale – con cui ogni società deve soddisfare i bisogni vitali e fisici dei suoi membri, essa crea ugualmente una serie di costruzioni simboliche. Con queste, la società elabora la sua rappresentazione di se stessa e del mondo in cui è inserita e propone, o impone, ai suoi membri delle identità e dei modi di comportamento. Per parlarne non utilizzo qui il termine marxista di “sovrastruttura”, opposta alla presunta “base economica”, perché la produzione di senso può – secondo la società in questione - svolgere un ruolo altrettanto grande, se non più grande della soddisfazione dei bisogni primari. La religione e la mitologia così come gli “usi e costumi” quotidiani – soprattutto quelli relativi alla famiglia e alla riproduzione - nonché ciò che dal Rinascimento in poi chiamiamo “arte” entrano in questa categoria del simbolico. 

Per molti versi, questi codici simbolici non erano nemmeno separati tra di loro nelle società antiche, basti pensare al carattere largamente religioso di quasi tutta l’arte. Ma soprattutto non esisteva la separazione tra una sfera economica e un’altra sfera simbolica e culturale. Un oggetto poteva allo stesso tempo soddisfare un bisogno primario e avere un aspetto estetico. Storicamente, è stata la modernità capitalista e industriale a separare il “lavoro” dalle altre attività, e a fare di esso e dei suoi prodotti, sotto il nome di “economia”, il centro sovrano della vita sociale. In concomitanza, il lato culturale e estetico, che nelle società preindustriali era inerente a ogni aspetto della vita, si concentra in una sfera a parte. 

Questa sfera è apparentemente libera dalle costrizioni della sfera economica, e in essa può affiorare una verità critica, altrimenti repressa o rimossa, sulla vita sociale e la sua crescente sottomissione alle esigenze sempre più inumane della concorrenza economica. Ma la cultura paga questa libertà con la sua marginalizzazione, con la sua riduzione a un “gioco” che, non facendo direttamente parte del ciclo di lavoro e accumulazione di capitale, rimane sempre in una posizione subordinata rispetto alla sfera economica e a quelli che la governano. Ma nemmeno quell’”autonomia dell’arte”, che ha avuto il suo apogeo nel XIX secolo, ha potuto resistere alla dinamica del capitalismo, volto a fagocitare tutto e a non lasciare niente al di fuori dalla sua logica di valorizzazione. Prima, le opere dell’arte autonoma – per esempio i quadri – sono entrati nel mercato, diventando merci come le altre. Poi, la produzione stessa di “beni culturali” è stata mercificata, mirando fin dall’inizio solo al profitto e non alla qualità artistica intrinseca. 

Questo è lo stadio della ”industria culturale”, descritto inizialmente da Theodor Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse e Günther Anders nei primi anni quaranta del secolo scorso. In seguito, si è assistiti a una specie di perversa reintegrazione della cultura nella vita, ma solo in quanto ornamento della produzione di merci, cioè sotto forma di design, pubblicità, moda ecc. La quasi-sparizione delle istituzioni culturali pubbliche ha infine eliminato gli ultimi resti di indipendenza degli artisti di fronte al denaro; ormai, essi sono raramente altro che i nuovi buffoni e cantanti di corte che debbono azzuffarsi per le briciole che i nuovi padroni, sotto il nome di sponsor, gli gettano.

Questa è la situazione in cui viviamo oggi. Certo, molti provano un disagio vago di fronte a questa “mercificazione della cultura” e preferirebbero che la cultura “di qualità” – a seconda dei gusti, può trattarsi del “cinema d’autore”, dell’opera lirica o dell’artigianato indigeno – non fosse trattata esattamente come la produzione di scarpe, giochi video o viaggi turistici, cioè con la sola logica dell’investimento e del profitto. Evocano dunque ciò che in Francia si chiama “l’eccezione culturale”: la spietata logica capitalistica va bene in tutto (e soprattutto là dove “noi” siamo i vincitori), ma che lasci gentilmente la cultura fuori dalle sue grinfie. In verità, questa speranza mi sembra ingenua e senza molto senso. Infatti, accettando la logica di base della concorrenza capitalistica, se ne accettano poi anche tutte le conseguenze. 

Se è giusto che una scarpa o un viaggio siano considerati esclusivamente in base alla quantità di denaro che rappresentano, è alquanto illogico aspettarsi poi che questa stessa logica si fermi davanti ai “prodotti” culturali. Qui vale lo stesso principio come altrove: non ci si può opporre agli “eccessi” “liberisti” della mercificazione – ciò che oggi fanno in molti - senza metterne in discussione i fondamenti, cosa che quasi nessuno fa. In ogni caso, la speranza è vana, perchè la logica globale della merce non rinuncia a dilaniare corpi di bambini, se può fare un piccolo guadagno con le mine anti-uomo; non si farà dunque certo intimorire dalle rispettose rimostranze di cineasti francesi o di direttori di musei esasperati di dover strisciare sul ventre davanti a dei manager di Coca-cola o dell’industria petrolchimica perché gli finanzino una mostra. 

La capitolazione incondizionata dell’arte di fronte agli imperativi economici è solo parte della mercificazione tendenzialmente totale di ogni aspetto della vita, e non la si può mettere in discussione per la sola arte senza tentare di rompere con la dittatura dell’economia a tutti i livelli. Non c’è nessun motivo perché proprio l’arte dovrebbe riuscire a mantenere la sua autonomia rispetto alla pura logica del profitto, se nessun’altra sfera ci riesce.

Dunque, la necessità per il capitale di trovare sempre nuove aree di valorizzazione non risparmia certo la cultura, e è evidente che all’interno della cultura, in senso lato, l’”industria del divertimento” costituisce il suo oggetto di investimento principale. Già negli anni settanta, il gruppo pop svedese “Abba” era il primo esportatore del paese, davanti all’industria militare Saab; i Beatles furono fatti baronetti dalla Regina già nel 1965 a causa dell’enorme contributo dato all’economia inglese. Inoltre, l’industria dell’intrattenimento, dalla tv alla musica rock, dal turismo alla people’s press, svolge un importante ruolo di pacificazione sociale e di creazione di consenso, ottimamente riassunto nel concetto di “tittytainment” (“entetanimiento” in spagnolo). 

Nel 1995 si riunì a San Francisco un “State of the World Forum” cui parteciparono circa 500 tra i personaggi più potenti del mondo (tra l’altro Gorbaciov, Bush, Thatcher, Bill Gates...) per discutere della questione che cosa fare in futuro con quell’ottanta per cento della popolazione mondiale che non sarebbe più stato necessario per la produzione. Come soluzione fu proposto il “tittytainment”: alle popolazioni “superflue” e tendenzialmente pericolose sarà destinato un miscuglio di nutrimento sufficiente e di intrattenimento, di entertainment abbrutente, per ottenere uno stato di letargia beata simile a quella del neonato che ha bevuto dai seni (tits in gergo americano) della madre. In altre parole, il ruolo centrale che svolge tradizionalmente la repressione per evitare i sovvertimenti sociali viene ormai largamente affiancato dalla infantilizzazione.

Il rapporto tra l’economia e la cultura non si limita dunque alla strumentalizzazione della cultura, al fastidio di vedere su ogni manifestazione artistica i logo dei sponsor – che, sia detto en passant, finanziavano la cultura anche quarant’anni fa, ma attraverso le tasse che pagavano, e dunque senza potersene vantare e soprattutto senza poterne influenzare le scelte. Tuttavia, il rapporto tra la fase attuale del capitalismo e la fase attuale della “produzione culturale” va ancora più lontano. C’è una idiosincrasia profonda tra l’industria dell’intrattenimento e la spinta del capitalismo verso l’infantilizzazione e verso il narcisismo. L’economia materiale è largamente unita alle nuove forme dell’“economia psichica e libidinale”. Per spiegare quello che voglio dire, devo un’altra volta tentare di esporne in poche parole i presupposti.

Il mondo contemporaneo si caratterizza per il prevalere ormai totale di quel fenomeno che Karl Marx ha chiamato feticismo della merce. Questo termine, spesso frainteso, indica molto più di un’adorazione esagerata delle merci, e neanche vuole solo indicare una semplice mistificazione. Si riferisce al fatto che nella società moderna e capitalistica la maggior parte delle attività sociali prendono la forma di una merce, materiale o immateriale che sia. Il valore di una merce è determinata dal tempo di lavoro necessario per la sua produzione. Non sono le qualità concrete degli oggetti a decidere del loro destino, ma la quantità di lavoro incorporata in loro – e questa quantità si esprime sempre in una somma di denaro. I prodotti che ha creato l’uomo cominciano così a condurre una vita autonoma, governata dalle leggi del denaro e della sua accumulazione in capitale. 

Bisogna prendere alla lettera il termine “feticismo della merce”: gli uomini moderni si comportano come quelli che chiamano i “selvaggi”: venerano i feticci che loro stessi hanno prodotto, attribuendogli una vita indipendente e il potere di governare gli uomini. Questo feticismo della merce non è un’illusione o un inganno, ma il modo di funzionamento reale della società della merce. Domina ormai tutti i settori della vita, ben al di là dell’economia. Questa religione materializzata comporta tra l’altro che tutti gli oggetti e tutti gli atti, in quanto sono merci, sono uguali. Non sono nient’altro che delle quantità più o meno grandi di lavoro accumulato, e dunque di denaro. E’ il mercato che esegue quest’omologazione, indipendentemente dalle intenzioni soggettive degli attori. Il regno della merce è dunque terribilmente montono, e è addirittura senza contenuto proprio. 

Una forma vuota e astratta, sempre la stessa, una pura quantità senza qualità – il denaro – s’impone man mano alla infinita molteplicità concreta del mondo. La merce e il denaro sono indifferenti al mondo che per loro non è altro che un materiale da utilizzare. L’esistenza stessa di un mondo concreto, con le sue leggi e le sue resistenze, è alla fine un ostacolo per l’accumulazione del capitale che non conosce altro scopo che se stesso. Per trasformare ogni somma di denaro in una somma più grande, il capitalismo consuma il mondo intero – sul piano sociale, ecologico, estetico, etico. Dietro la merce e il suo feticismo si nasconde una vera e propria “pulsione di morte”, una tendenza, incosciente ma potente, verso l’annientamento del mondo.

L’equivalente del feticismo della merce nella vita psichica individuale è il narcisismo. Qui, questo termine non indica, come nel linguaggio corrente, un’adorazione del proprio corpo, o della propria persona. Si tratta piuttosto di una grave patologia, ben conosciuta nella psicoanalisi: significa che una persona adulta conserva la stuttura psichica dei primissimi tempi della sua infanzia, quando ancora non c’è distinzione tra l’Io e il mondo. Ogni oggetto esterno è vissuto dal narcisista come una proiezione del proprio Io. Ma in verità questo Io rimane terribilmente povero a causa della sua incapacità di arricchirsi in veri rapporti oggettuali con oggetti esterni – in effetti, il soggetto, per farlo, dovrebbe prima riconoscere l’esistenza del mondo esterno e la sua propria dipendenza da esso, e dunque anche i propri limiti. 

Il narcisista può sembrare una persona “normale”; in verità non è mai uscito dalla fusione originaria con il mondo circostante e fa di tutto per mantenere l’illusione di onnipotenza che ne deriva. Questa forma di psicosi, rara all’epoca di Sigmund Freud, che la descrisse per primo, è diventata da allora uno dei disturbi psichici principali; se ne vedono le tracce un po’ ovunque. E non è un caso: vi si trova la stessa perdita del reale, la stessa assenza del mondo – di un mondo riconosciuto nella sua autonomia fondamentale – che caratterizza il feticismo della merce. D’altronde, questa negazione drastica dell’esistenza di un mondo indipendente dalle nostre azioni e dai nostri desideri ha costituito fin dall’inizio il centro della modernità: è il programma enunciato da Descartes quando aveva scoperto nell’esistenza della propria persona l’unica certezza possibile.

In una società basata sulla produzione di merci era inevitabile, a lungo andare, che il narcisismo diventasse la forma psichica prevalente. Ora, è evidente che l’enorme sviluppo dell’industria del divertimento sia allo stesso tempo causa e conseguenza di questa fioritura del narcisismo. In questo modo, tale industria partecipa a quella vera e propria “regressione antropologica” cui ci porta ormai il capitalismo: un annullamento progressivo delle tappe dell’umanizzazione in cui stava l’essenza della storia antecedente. Anche qui, il discorso da fare sarebbe molto lungo. Mi limito a ricordarvi le tappe per cui ogni essere umano, secondo le conclusioni della psicoanalisi, deve passare nel suo primo sviluppo psichico. 

Deve superare quel senso di fusione rassicurante con la madre che caratterizza il primo anno (si tratta di ciò che Freud chiama “narcisismo primario”, una tappa comunque necessaria) e passare attraverso i dolori del conflitto edipico per arrivare a una realistica valutazione delle proprie forze e dei propri limiti, rinunciando ai sogni infantili di onnipotenza. Solo così può nascere una persona psicologicamente equilibrata. L’educazione tradizionale mirava, più o meno bene, a questo: sostituire il principio di piacere con il principio di realtà, ma senza uccidere del tutto il principio di piacere. Le tappe non correttamente risolte dello sviluppo psicocologico dell’individuo danno luogo a nevrosi e addirittura psicosi. Il bambino non dispone dunque di una perfezione originaria, né abbandona spontaneamente il suo narcisismo iniziale. Ha bisogno di essere guidato per poter accedere al pieno sviluppo della sua umanità. 

Le costruzioni simboliche caratteristiche di ogni cultura svolgono evidentemente un ruolo essenziale in questo processo e costituiscono a questo titolo un patrimonio prezioso dell’umanità (anche se non tutte le costruzioni simboliche tradizionali sembrano ugualmente atte a promuovere una vita umana piena, ma questa è un’altra questione). Al contrario di questo, il capitalismo nella sua fase più recente – diciamo dagli anni settanta in poi -, in cui il consumo e la seduzione sembrano aver sostituito la produzione e la repressione come motore e modalità dello sviluppo, rappresenta storicamente l’unica società che promuove una massiccia infantilizzazione dei soggetti, legata a una desimbolizzazione. Ormai, tutto cospira a mantenere l’essere umano in una condizione infantile. Tutti gli ambiti della cultura, dal fumetto alla televisione, dalle tecniche di restauro delle opere antiche alla pubblicità, dai giochi video ai programmi scolastici, dallo sport di massa ai psicofarmaci, da Second life fino alle esposizioni attuali nei musei contribuisce a creare un consumatore docile e narcisista che vede nel mondo intero una sua estensione, governabile con un mouseclick.

Non può perciò esistere nessuna scusa o giustificazione per l’industria del divertimento e per l’adattamento della cultura alle esigenze del mercato che hanno contribuito così potentemente alle tendenze regressive. Ci si può dunque chiedere perché un tale degrado ha suscitato così poca opposizione. In effetti, tutti hanno contribuito a questa situazione: la destra, perché crede comunque e sempre al mercato, almeno da quando è diventata interamente liberale. La sinistra, perché crede nell’uguaglianza dei cittadini. Quello che è più curioso è proprio il ruolo svolto dalla sinistra in questo adeguamento della cultura alle esigenze del neo-capitalismo. La sinistra ha costituito spesso l’avanguardia, il battistrada nella trasformazione della cultura in una merce. Tutto si è svolto all’insegna delle parole magiche “democratizzazione” e “uguaglianza”. 

La cultura deve essere a disposizione di tutti. Chi può negare che si tratti di un’aspirazione nobile? Molto più rapidamente della destra, la sinistra – “moderata” o “radicale” che sia – ha abbandonato – soprattutto dopo il ’68 - ogni idea che possa esistere una differenza qualitativa tra espressioni culturali. Spiegate a un qualsiasi rappresentante della sinistra culturale che Beethoven vale più di un rap o che i bambini farebbero meglio a imparare a memoria delle poesie piuttosto che giocare alla play station, e lui vi chiamerà automaticamente “reazionario” e “elitista”. La sinistra ha fatto quasi ovunque la pace con le gerarchie di reddito e di potere, trovandole inevitabili o addirittura piacevoli, benché i danni che fanno siano sotto gli occhi di tutti. Ha invece voluto abolire le gerarchie là dove queste possono avere un senso, a condizione che non siano stabilite una volta per tutte, ma mutabili: quelle dell’intelligenza, del gusto, della sensibilità, del talento. 

Ma anche coloro che ammettono il decadimento della cultura generale, vi aggiungono, come un riflesso condizionato, che una volta la cultura era forse di livello più alto, ma era l'appannaggio di un'infima minoranza, mentre la grande maggioranza sprofondava nell'analfabetismo. Oggi invece tutti vi avrebbero accesso. A me sembra però che i bambini che oggi crescono con Omero e Shakespeare o Cervantes costituiscano una minoranza ancora più infima di quella di una volta. L’industria del divertimento ha semplicemente sostituito una forma di ignoranza con un’altra, così come l’enorme aumento di persone che hanno un diploma di scuola superiore o che frequentano l’Università non sembra aver incrementato molto il numero delle persone che veramente sanno qualcosa. In Francia, per esempio, si può fare un master universitario su dei temi e con delle conoscenze che trent’anni fa sarebbero stati insufficienti per ottenere il diploma di una scuola media tecnica. Non oso sperare che in Messico sia molto diverso. Così è facile che ogni anno il cinquanta per cento dei giovani consegue il diploma liceale – che grande vittoria della democratizzazione.

Non si possono chiamare i prodotti dell’industria del divertimento una “cultura di massa” o “cultura popolare”, come suggerisce per esempio il termine “musica pop”, e come affermano tutti coloro che accusano di “elitismo” ogni critica di ciò che in verità non è altro che la “formattazione” delle masse, per utilizzare una parola contemporanea assai eloquente. Il relativismo generalizzato e il rifiuto di ogni gerarchia culturale si sono spesso spacciati, soprattutto nell’epoca “postmoderna”, per forme di emancipazione e di critica sociale, per esempio in nome delle culture “subalterne”. A me sembra evidente che sono un riflesso culturale del dominio della merce. Come abbiamo già visto, la merce è una pura quantità di lavoro e dunque di denaro, sempre uguale, incapace di distinzioni qualitative. Davanti alla merce, tutto è uguale. Tutto è solo del materiale per il processo sempre uguale di valorizzazione del valore. Questa indifferenza della merce per ogni contenuto si ritrova in una produzione culturale che rifiuta ogni giudizio qualitativo e per cui tutto equivale a tutto. “L’industria culturale rende tutto uguale” sentenziò Adorno già nel 1944.

Qualcuno accuserà un’argomentazione come la mia di “autoritarismo” e affermerà che è “la gente” stessa che spontaneamente vuole, chiede, desidera i prodotti dell’industria culturale, anche in presenza di altre espressioni culturali, così come milioni di persone mangiano volentieri nei fast-food, pur potendo mangiare, per gli stessi soldi, in una taverna tradizionale. E’ facile controbattere ricordando che in presenza di un bombardamento mediatico massiccio e continuo in favore di certi stili di vita la “libera scelta” è alquanto condizionata. Ma c’è di più. Come abbiamo visto, l’accesso alla pienezza dell’essere umano richiede un aiuto da parte di chi già possiede, almeno in parte, questa pienezza. Lasciare libero corso allo sviluppo “spontaneo” non significa affatto creare le condizioni della libertà. La “mano invisibile” del mercato finisce nel monopolio assoluto o nella guerra di tutti contro tutti, non nell’armonia. 

Ugualmente, non aiutare qualcuno a sviluppare la sua capacità di differenziazione significa condannarlo a un infantilismo eterno. Vi do un esempio non tirato dalla psicoanalisi e a cui tengo molto. Esistono quattro gusti fondamentali, nel senso del sapore: dolce, salato, acido e amaro. Ora, il palato umano è in grado di percepire la decimillesima parte di una goccia di amaro in un bicchiere d’acqua, mentre per gli altri gusti ci vuole una goccia intera. Di conseguenza, nessun gusto è tanto capace di differenziazione e di una molteplicità quasi infinita di sensazioni gustative quanto l’amaro. Le culture del vino, del té e del formaggio, queste grandi fonti di piacere nell’esistenza umana, si basano su questi infiniti tipi e gradi di amaro. 

Ma il bambino piccolo rifiuta spontaneamente l’amaro e accetta solo il dolce e poi il salato. Dev’essere educato a apprezzare l’amaro, vincendo una resistenza iniziale. Svilupperà in cambio una capacità di godere che altrimenti gli rimarrebbe preclusa. Tuttavia, se nessuno glielo impone, non chiederà mai altro che il dolce e il salato, che conoscono ben poche sfumature, ma solo il più o meno forte. E così nasce il consumatore di fast food –che è basato solo sul dolce e sul salato - incapace di apprezzare gusti diversi. E quanto non si è appreso da piccoli non si apprenderà più da grandi; se il bambino cresciuto con hamburger e coca-cola diventa un neo-ricco e vuole ostentare cultura e raffinatezza, consumando vini italiani e formaggi francesi, non ci riuscirà a apprezzarli veramente.

Direi che si può applicare questo ragionamento sul “gusto” gastronomico senza molti cambiamenti anche al “gusto” estetico. Ci vuole un’educazione per apprezzare una musica di Bach o una musica tradizionale araba, mentre il semplice possesso del corpo basta per “apprezzare” gli stimoli somatici di una musica rock. E’ vero che la maggior parte delle popolazioni chiede ormai “spontaneamente” coca-cola e musica rock, fumetti e pornografia in rete: ma questo non dimostra che il capitalismo, che offre tutte queste meraviglie a profusione, è in sintonia con la “natura umana”, bensì che è riuscito a mantenere questa natura al suo stadio iniziale. In effetti, nemmeno mangiare con coltello e forchetta fa spontaneamente la sua apparizione nello sviluppo di un individuo.

Dunque, il successo delle industrie del divertimento e della cultura del “facile” – un successo incredibilmente mondiale che travalica tutte le barriere culturali – non è solo dovuto alla propaganda e alla manipolazione, ma anche al fatto che questi vengono incontro al desiderio “naturale” del bambino di non abbandonare la sua posizione narcisista. L’alleanza tra le nuove forme di dominazione, le esigenze della valorizzazione del capitale e le tecniche di marketing è tanto efficace perché si appoggia su una tendenza regressiva già presente nell’uomo. La virtualizzazione del mondo, di cui tanto si parla, è anche una stimolazione dei desideri infantili di onnipotenza. “Abbattere tutti i limiti” è l’incitazione maggiore che si riceve oggi, che si tratti della propria carriera professionale o della promessa di eterna salute e di eterna vita grazie alla medicina, delle esistenze infinite nei video-giochi o dell’idea che un’illimitata “crescita economica” sia la soluzione a tutti i mali. Il capitalismo è storicamente la prima società basata sull’assenza di limiti. E oggi si comincia a prendere la misura di che cosa ciò significa.

L’industria del divertimento è dunque assolutamente consustanziale alla società della merce. La vera arte invece, se essa si prende sul serio, se è fedele alla sua essenza, non dovrebbe dunque mai andare d’accordo con l’economia e il mercato. Il qualitativo e il quantitativo sono qui principi antitetici. Ma esiste questa “vera cultura”, e se esiste, dove la si potrà trovare? L’abbiamo definita fin qui soprattutto ex negativo, parlando di tutto ciò che non è. Manca qui il tempo per dilungarsi sulla grandezza e sull’ambiguità della cultura tradizionale. Era talvolta capace di scuotere l’osservatore, cioè il publico, capace di dire “no” non solo alla società, ma anche alla costituzione di ogni individuo, ingiungendogli, come dice una poesia del poeta tedesco Rainer Maria Rilke : “Tu devi cambiare la tua vita”, o proclamando, come il poeta francese Arthur Rimbaud: “Bisogna cambiare la vita”, o ancora come lo scrittore francese Lautréamont: “L’arte deve essere fatta da tutti, non solo da alcuni”. Certe opere del passato, mentre le guardiamo, sembrano guardarci e aspettare da noi una risposta. 

Tuttavia, non si può opporre in assoluto un’arte “alta “ o “grande” del passato, sempre volta al miglioramento dell’essere umano, all’industria culturale odierna. La complicità aperta o nascosta con i poteri dominanti e con i modi di vita dominanti ha sempre caratterizzato gran parte delle opere culturali. L’importante è che esisteva la possibilità di uno scarto, talvolta espressa attraverso la categoria estetica del “sublime”. L’opera, in quest’ottica, non deve essere “al servizio” del soggetto che la contempla. Non sono le opere che debbono piacere agli uomini, ma gli uomini che devono cercare di essere all’altezza delle opere. Non spetta allo spettatore, o “consumatore”, di scegliere la sua opera, ma all’opera di scegliere il suo pubblico e di determinare chi è degno di essa. Non spetta a noi giudicare Baudelaire o Malevitch; sono loro che ci giudicano e che giudicano della nostra facoltà di giudizio. Fino a un’epoca recente, si giudicava – in campo estetico - una persona sulle opere che sapeva apprezzare, e non le opere sul numero di persone che sapevano attirare. Chi era in grado di cogliere tutta la complessità e la ricchezza di un’opera particolarmente riuscita era dunque considerato come qualcuno che era andato molto avanti sulla strada della realizzazione umana, normalmente grazie a un lavoro duro su se stesso.

Che contrasto con la visione postmoderna per cui ogni spettatore è democraticamente libero di vedere in un’opera ciò che vuole, e dunque ciò che vi proietta lui stesso! Certo, in questo modo lo spettatore non sarà mai confrontato con niente di veramente nuovo e avrà la confortante certezza di poter sempre rimanere così com’è. E questo è esattamente il rifiuto narcisistico di entrare in un vero rapporto oggettuale con un mondo distinto da lui.

Questa attitudine a conferire dei choc esistenziali, a mettere in crisi l’individuo invece di confortarlo e confermarlo nel suo modo di esistenza è visibilmente del tutto assente nei prodotti dell’industria del divertimento, che mirano all’”esperienza” e all’”evento”. Chi vuole vendere, va incontro ai bisogni degli acquirenti e alla loro ricerca di una soddisfazione immediata, confermando l’opinione alta che hanno di se stessi piuttosto che frustrandoli con delle opere non immediatamente “leggibili”. Da quel punto di vista, non esiste più oggi quasi nessuna differenza tra un’arte “alta” o “colta” e un arte “di massa”. 

Le opere del passato vengono incorporate nella macchina culturale, per esempio tramite mostre spettacolari, restauri che devono rendere le opere godibili per ogni spettatore (per esempio, ravvivando eccessivamente i colori), o tramite versioni massacrate dei classici letterari o musicali per “avvicinarle“ al pubblico. Oppure mescolandoli a espressioni del presente che tolgono ogni specificità storica, come nel caso della famigerata piramide nel cortile del Louvre a Parigi. Il pungolo che le opere del passato potrebbero ancora possedere, foss’anche solo a causa della loro distanza temporale, viene neutralizzato tramite la loro spettacolarizazione e commercializzazione.

Niente di più fastidioso dei musei che diventano “pedagogici” e vogliono “avvicinare” la “gente comune” alla “cultura” con una pletora di spiegazioni sulle pareti e tramite auricolari che prescrivono a ciascuno esattamente che cosa deve provare di fronte alle opere, proiezioni video, giochi interattivi, museum shops, magliette... Si afferma di rendere in questo modo la cultura e la storia fruibili anche agli strati non-borghesi (come se i borghesi di oggi fossero colti). In verità, proprio questo approccio user-friendly mi pare il massimo dell’arroganza verso gli strati popolari, di cui suppone che siano per definizione insensibili alla cultura e che l’apprezzino solo se viene presentata nel modo più frivolo e infantile possibile. 

Sparisce così anche l’atmosfera piacevole dei musei un po’ polverosi di una volta, piacevole proprio perché sembrava di entrare in un mondo a parte, dove si poteva riposare dal turbine che ci circonda sempre – anche perché questi musei erano poco frequentati. Adesso, più un museo è “ben gestito” e attira il pubblico, più assomiglia a un incrocio tra una stazione metropolitana all’ora di punta e una sala informatica. A questo punto, perché ancora andarci? Tanto vale guardare le stesse opere su un CD, perché dell’”aura” dell’opera originale non è comunque rimasto niente. E’ stato un altro modo perverso di unire l’arte alla vita, di cancellare la loro differenza e di eliminare ogni idea che possa esistere qualcosa di diverso dalla piatta realtà che ci circonda. 

Il vecchio museo, con tutte le sue tare, poteva essere lo spazio appropriato all’apparizione di qualcosa di veramente inaudito per lo spettatore, proprio perché era tanto diverso da ciò che viviamo abitualmente. Oggi, le classe scolastiche che vengono trascinate attraverso le sale d’esposizione ricevono più che altro un’efficace vaccinazione preventiva contro ogni rischio di poter sentire un messaggio esistenziale dalla parte dell’arte o della storia, o almeno di andarle a scoprire per conto proprio...

La cultura cosiddetta “contemporanea”, cioè prodotta oggi, partecipa generalmente allo stesso modo regressivo. Gli artisti stessi hanno tradito il compito dell’arte. Lo si vede nell’eterna ripetizione del gesto di Marcel Duchamp nell’arte contemporanea da quarant’anni. L’urinatoio esposto nel 1917 come “fontana” era una provocazione venuta a proposito; in seguito è diventata una patente di nobiltà per esporre qualsiasi oggetto come opera d’arte, eliminando così ogni idea di un’opera eccellente o di un”sublime”. Quest’arte è altrettanto poco capace di scuotere lo spettatore quanto lo sono i prodotti dell’industria dell’intrattenimento. Mentre le avanguardie cosidette “classiche” della prima metà del XX secolo sapevano dire l’essenziale sulla loro epoca storica, l’arte di oggi riesce difficilmente a evitare l’impressione della sua insignificanza. 

Si può anche rifiutare l’idea di una “morte dell’arte” generale (io me ne sono occupato altrove), ma risulta comunque difficile trovare un’arte contemporanea all’altezza dei suoi predecessori. Essa partecipa alla derealizzazione generale, proprio come l’industria del divertimento, quindi è diventata una sottospecie del design e della pubblicità. Essa merita allora la sua commercializzazione. L’arte contemporanea si è buttata nelle braccia dell’industria culturale e chiede umilmente di essere ammessa alla sua tavola. Ciò è un risultato, tardivo e imprevisto, di quell’allargamento della sfera dell’”arte” e di quell’estetizzazione della vita che sono stati cominciati un secolo fa dagli artisti stessi, come appunto Duchamp. Sembra dunque che non esistano più molte opere capaci di contribuire alla nascita di soggetti critici. Esistono solo dei clienti. Allora fa davvero poca differenza come si gestiscono i musei. Si afferma che i musei devono adeguarsi alla necessità di “far pubblico”, pena la loro sparizione. Ma il risultato è lo stesso. Un’arte che serve soltanto a creare dei clienti soddisfatti non è comunque più un’arte degna di questo nome.

Bisognerebbe almeno ammettere una differenza qualitativa, di peso, tra i prodotti dell’industria dell’intrattenimento e una possibile “cultura vera” per poter evocare per quest’ultima un trattamento a parte. Bisogna ammettere dunque la possibilità di un giudizio qualitativo e non puramente relativo e soggettivo. C’è una grande differenza tra voler stabilire dei parametri di giudizio, pur sapendo che non discendono dal cielo, ma che debbono essere soggetti alla discussione e al cambiamento, da un lato, e negare, dall’altro, a priori la possibilità stessa di stabilire dei parametri, di modo che tutto è uguale a tutto. Se tutto si equivale, niente vale più la pena. Sono questa uguaglianza, e l’indifferenza che ne segue, a stendersi come un sudario sulla vita dominata dal mercato e dalla merce. 

Esse minano alla base la capacità degli umani di fare fronte alle minacce onnipresenti di barbarizzazione. Le sfide che ci aspettano nei prossimi tempi hanno bisogno di essere affrontate da persone nel pieno possesso delle loro facoltà umane, non da adulti rimasti bambini nel senso peggiore della parola. Sarà curioso vedere che posto terranno l’arte e le istituzioni culturali in questo passaggio epocale.

Ancora una volta ci stanno fregando, sappiatelo.

2015/08/10

Crisi imminente?


Ci sarà un crollo finanziario negli Stati Uniti entro la fine del 2015? Sempre più stimati esperti finanziari stanno avvertendo che siamo proprio sull’orlo di un’altra grande crisi economica. Naturalmente questo non significa che accadrà. Gli esperti hanno sbagliato in passato ma alcuni indizi sembrano suggerire che una nuova crisi finanziaria potrebbe essere alle porte.

I seguenti sono otto esperti finanziari che stanno avvertendo che una grande crisi finanziaria è imminente …

1 Durante un’intervista recente, Doug Casey ha affermato che stiamo andando verso “una catastrofe di proporzioni storiche” …

“Con questi governi stupidi che stampano trilioni e trilioni di nuove unità di valuta”, afferma Casey, ” andiamo verso a una catastrofe di proporzioni storiche “

Doug Casey è un investitore di grande successo a capo della Casey Research

“Non terrei capitale significativo nelle banche”, ha detto. “La maggior parte delle banche del mondo sono in bancarotta.”

2 Bill Fleckenstein avverte che i mercati degli Stati Uniti potrebbe affrontare delle ‘calamità’ nei prossimi mesi …

Bill Fleckenstein ha correttamente previsto la crisi finanziaria nel 2007,

3 Richard Russell ritiene che la crisi che sta arrivando “farà a pezzi il sistema economico attuale” …

Dal mio punto di vista, questo è il periodo più strano che ho vissuto dal 1940.

4 Larry Edelson è “sicuro al 100%” che avremo una crisi finanziaria globale “entro i prossimi mesi” …

” Il 7 ottobre 2015, il prima superciclo economico dal 1929 innescherà una crisi finanziaria globale di proporzioni epiche . Porterà l’Europa, il Giappone e gli Stati Uniti in ginocchio, e quasi un miliardo di esseri umani sulle montagne russe per i prossimi cinque anni. Una corsa che nessuna generazione ha mai visto. Sono sicuro al 100% che colpirà nei prossimi mesi . “

5 John Hussman avverte che le condizioni di mercato che stiamo osservando in questo momento si sono verificate solo in pochi momenti chiave in tutta la nostra storia …

“Guardate i dati e vi renderete conto che le nostre preoccupazioni attuali non sono esagerazioni. Semplicemente non abbiamo osservato le condizioni di mercato che osserviamo oggi, tranne che in una manciata di casi nella storia del mercato, e le cose sono andare piuttosto male”

6 Nel corso di una recente apparizione sulla CNBC, Marc Faber ha suggerito che il mercato azionario degli Stati Uniti potrebbe presto perderà fino al 40 per cento …

7 Henry Blodget suggerisce che il mercato azionario americano potrebbero presto perdere fino al 50 per cento …

8 Egon von Greyerz ha recentemente detto che stiamo andando verso “una storica distruzione della ricchezza” …

Ci sono più aree problematiche al mondo che situazioni stabili. Nessuna nazione importante in Occidente può rimborsare i propri debiti. Lo stesso vale per il Giappone e la maggior parte dei mercati emergenti. L’Europa è un esperimento fallito. La Cina è una bolla enorme, in termini di mercati azionari,mercati immobiliari e sistema bancario ombra. Gli Stati Uniti sono il paese più indebitato del mondo e hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi per oltre 50 anni.

Così vedremo l’esplosione di due bombe gemelle: una del debito da 200 trilioni di dollari e una di derivati da 1,5 quadrilioni che porterà ad una storica distruzione della ricchezza, con i mercati in calo di almeno 75-95 per cento. Il commercio mondiale si contrarrà drammaticamente e vedremo un enorme disagio in tutto il mondo.

Hanno ragione? Lo sapremo presto.

2015/07/27

Il Pellet da riscoprire


Oggi parliamo di pellet e in particolare del pellet di abete.

Il pellet di abete è, a torto o a ragione, probabilmente il più blasonato in Italia. Pellet di abete rosso o di abete bianco, la sostanza non cambia, sono equiparabili e nel tempo hanno trovato moltissimi estimatori.

Non a caso la maggior parte di pellet di abete proviene da Austria e Germania, due Paesi che oltre ad avere grande disponibilità di boschi di abete, hanno anche un’attitudine all’efficienza e al lavoro preciso. Si spiega anche così il blasone del pellet di abete rosso (o bianco): spesso e volentieri sono marche di pellet austriache o tedesche, quindi prodotti fatti con criterio, senza aggiunte o mancanze, nel rispetto dei processi. I prezzi del pellet di abete risentono di questo doppio fattore, da un lato la qualità dei processi produttivi, dall’altro della forte domanda di prodotto; e infatti sono prezzi spesso superiori alla media, non sempre però a fronte di qualità altrettanto superiore. 

La certificazione ENPlus A1, forse la più importante, è tipica di molti pellet d’oltralpe, ed è nata per premiare una filiera, un processo produttivo, che va da produttore a dettagliante. Tutto deve essere fatto con criterio e secondo certi standard, a partire dalla materia prima utilizzata e dal produttore che deve seguire un processo molto chiaro. La maggioranza degli utilizzatori di pellet cerca il pellet d’abete, rosso o bianco non fa tanta differenza. E alcuni produttori o Distributori poco seri, anzi assolutamente non seri, si approfittano di questa situazione per mettere in atto furbate, spacciando pellet per quello che non è.

Ancor prima della provenienza, quindi, occorre prestare attenzione alle certificazioni, e anche ai numeri di certificazioni, garanzia di qualità. Una volta appurato questo, si può procedere più tranquilli nella scelta del pellet. E a quel punto non fa differenza se di abete rosso, bianco, di rovere, di faggio o altri legnami. A quel punto subentrano altri fattori di valutazione, come prezzo, resa, residui di cenere.

I pellet di abete sono davvero tanti, i più noti sono probabilmente lo Pfeifer, il Firestixx, il Norica, il Binderholz il Mayr Melnhof. La maggioranza comunque del pellet austriaco. 

Meglio faggio o abete?

Ma il miglior pellet è di abete o di faggio? Il pellet di faggio ha generalmente una resa maggiore ma anche un consumo maggiore e un residuo di cenere più corposo.
Il pellet di abete, in quanto conifera (come il pino), ha una resa analoga a quella del faggio o di poco inferiore, brucia più lentamente e comporta quindi un consumo inferiore. Anche il residuo di cenere dalla combustione del pellet di abete spesso è inferiore a quello generato dal combustibile di faggio.

Ci sono differenze importanti, ma che vanno poi unite alle considerazioni sulla marca di pellet che si utilizza nonché alla propria stufa o caldaia. Una cosa fondamentale che bisogna sempre tenere in mente è che ogni stufa o caldaia lavora in maniera diversa, ognuna ha le sue tipicità che valorizzano al meglio un combustibile legnoso piuttosto che un altro. Quindi a parità di qualità di pellet, una stufa può performare meglio con un tipo che con un altro, a seconda della durezza e delle altre caratteristiche di cui bisogna tenere conto.

Alla domanda sul pellet, su quale sia meglio tra faggio e abete rispondiamo con un “dipende”, e vi invitiamo a fare prove pratiche con la vostra stufa. Le risposte possono essere diverse, e nessuna è più giusta o sbagliata. I prezzi del pellet di faggio sono tendenzialmente più bassi rispetto a quelli di abete. Anche questo è un fattore da tenere in dovuta considerazione, soprattutto a parità di performance, è verosimile che tutti preferiamo risparmiare un po’.

Altri tipi di pellet

Non solo abete e faggio, non sono gli unici due tipi di pellet presenti in commercio. Come in ogni mercato in crescita, l’offerta è varia e in evoluzione; si possono trovare pellet di rovere, di pino, di castagno, di larice, misti, anche di cereali. In particolare ci sentiamo di spezzare una lancia a favore del pellet di pino, che per la nostra esperienza si sono sempre dimostrati essere pellet di qualità (Pellexo Bianca in particolare). Hanno tutti caratteristiche diverse che si possono sposare bene o meno bene con le stufe e con le caldaie a pellet. Ma stiamo attenti a dare il giusto peso al tipo di legname di cui è composto il pellet: è senza dubbio un fattore da considerare, ma ce ne sono altri che si tendono a trascurare ma che in realtà hanno la stessa importanza o addirittura maggiore.

Pensiamo ai processi di produzione, che in un pellet certificato ENPlus A1 sono garantiti. Pensiamo alla presenza o meno di agenti leganti o di additivi all’interno del pellet; e non dimentichiamoci degli aspetti visivi e olfattivi, da valutare con attenzione per essere sempre maggiormente preparati in fase di acquisto di pellet e di valutazione dei tipi di pellet.

2015/07/14

Porti d'Italia allo sfascio.....


L’Italia è uno dei primi venti paesi al mondo per lunghezza delle coste, il terzo in Europa dopo Grecia e Regno Unito: ne ha circa 7.600 chilometri. Per la sua favorevole posizione (in mezzo al calmo Mediterraneo, a un paio di migliaia di chilometri dal canale di Suez) è stata a suo tempo detta la “piattaforma logistica del Mediterraneo”, un ideale punto di sbarco per le portacontainer, le navi su cui viaggiano quasi tutti gli oggetti che acquistiamo, e per le petroliere. Il soprannome ha ormai perso valore, dopo essere sopravvissuto per parecchi anni nei convegni del settore.

L’Italia ha infatti un’impossibilità strutturale ad assumere questo ruolo, quello di punto di arrivo da mare e smistamento via terra delle merci da distribuire verso il nord dell’Europa. Le ragioni sono in primo luogo morfologiche: la costa italiana, anche se molto estesa, è troppo frastagliata e la maggior parte dei grandi porti commerciali hanno a ridosso delicate e complesse zone urbane. All’interno, poi, gli Appennini tagliano trasversalmente in due il paese, rendendo problematici i trasporti su strada. In secondo luogo c’è una ragione prettamente logistica che aggrava e amplifica il problema morfologico: la faticosa macchina burocratica italiana. Una merce sbarcata in Italia dal mare per essere libera di circolare deve avere il nulla osta da 18 enti diversi, determinando tempi di sdoganamento medi di quattro giorni, contro il giorno e mezzo dei porti del Nord Europa. La World Bank quest’anno ci piazza al ventesimo posto nel mondo (su 160, dopo quasi tutti i paesi del Vecchio Continente) per performance logistica, l’anno scorso l’Europa a 28 al ventesimo (i criteri di valutazione sono differenti, ma in entrambi i casi veniamo dopo quasi tutti i paesi d’Europa).

Europa
Di conseguenza sono sempre stati i porti del nord Europa la porta di accesso del traffico marittimo diretto e in partenza dall’Europa, invece della piattaforma logistica del Mediterraneo. Ci sono i Paesi Bassi, piatti e con una burocrazia molto più efficiente della nostra, la Germania con il suo impeccabile sistema di trasporto interno e il Belgio. Tre paesi, tre porti: Rotterdam, Amburgo e Anversa, che da soli intercettano il 62% del traffico in arrivo in Europa (qui la classifica mondiale, dominata dalla Cina). L’anno scorso il solo porto di Rotterdam ha movimentato 11 milioni di container da venti piedi, più o meno lo stesso traffico di questo tipo movimentato nello stesso anno da tutti i porti italiani messi insieme (i primi per traffico di questo tipo sono Gioia Tauro, Genova e La Spezia, che fanno insieme 6,4 milioni di container).

Italia
L’Italia sembra quindi un piccolo paese marittimo, ma non è così. Come abbiamo detto, è un paese differente dal nord Europa, così la carenza logistica interna viene compensata dal grande numero di approdi che caratterizzano in generale una penisola. Se quindi nei singoli porti il confronto è impietoso, il fatto che abbia tanti chilometri di costa dà al contrario un indubbio vantaggio: quello di poter contare su molti più approdi. Finora ci siamo soffermati su un solo tipo di traffico, il container, che rappresenta soltanto una piccola parte delle tipologie di traffico via mare. C’è il petrolio per esempio, ma neanche qui l’Italia può vantare particolari primati (anche se Trieste e Genova, che intercettano le due grandi direttrici di traffico adriatica e tirrenica, se la cavano bene).

Trasporto marittimo
Il trasporto marittimo nel mondo si può dividere grossomodo in tre categorie: solido (container e rinfuse solide, per esempio il grano), liquido (petrolio e gas) e passeggeri (crociere e cabotaggio, il traffico a corto raggio, per esempio quello diretto in Sardegna e alle Eolie). Ecco la prima buona notizia: sommando tutte queste categorie, l’Italia nel 2012 risulta terza in Europa, dopo Olanda e Regno Unito.

Ma è nei passeggeri che il nostro paese da il meglio di sé. Meta turistica per eccellenza, l’Italia movimenta passeggeri come nessuno in Europa. Ogni anno sono quasi 40 milioni quelli trasportati. È la regina d’Europa, prima di Grecia e Danimarca. Capri, un’isola di appena 10 chilometri quadrati (meno della metà di San Benedetto del Tronto), nel 2012 ha movimentato sei milioni di passeggeri (Messina e Napoli circa otto milioni ciascuna).
I porti italiani moderni nacquero nel 1994, con l’arrivo della legge di riforma 84/94, Riordino della legislazione in materia portuale, che ha tra l’altro costituito il Corpo delle Capitanerie di Porto, e ha sostanzialmente sostituito con le autorità portuali i consorzi e gli enti autonomi che gestivano tutti gli scali con una cospicua attività merci e passeggeri.

Autorità portuali
Oggi le autorità portuali sono ventiquattro, ciascuna ha un presidente, un comitato portuale (formato da armatori, imprenditori, spedizionieri, agenti marittimi e autotrasportatori, sindacati, Regione e Comune), un segretario generale e un collegio di revisori dei conti. Disegnano il piano regolatore e possono richiedere l’autorizzazione al dragaggio dei fondali, opera periodica fondamentale per accogliere le navi cargo transoceaniche che seguendo le economie di scala diventano ogni anno più grandi. L’autorità portuale è un organismo pubblico-economico con compiti di “indirizzo, programmazione, coordinamento, promozione e controllo delle operazioni portuali” (art. 6 legge 84/94). In sostanza non può fare affari (a differenza di alcuni porti nordeuropei che somigliano a una spa) ma solo regolamentare e coordinare i soggetti imprenditoriali portuali che li fanno, oltre a programmare e indirizzare gli investimenti infrastrutturali. La sua principale fonte di incasso sono i canoni delle concessioni demaniali degli spazi portuali, per lo più banchine e cantieri nautici.

In Italia le ventiquattro “authorities” danno lavoro a più di 1.200 persone, dipendenti sottoposti al regime di impiego di diritto privato. La forma giuridica di questo ente pubblico-economico è simile a quella del Corpo Forestale dello Stato: è di fatto un’emanazione del ministero dei Trasporti, che approva il bilancio, l’organico e nomina il presidente ogni quattro anni di concerto con l’ente regionale dove risiede il porto, scegliendolo da una terna di nomi presentata rispettivamente dal Comune, dalla Camera di Commercio e dalla Provincia interessati.

Con un impianto normativo di questo tipo i porti italiani potrebbero sembrare un organismo moderno, rapido, efficiente. Ma la maggior parte delle ventiquattro autorità portuali italiane registra pesanti conflitti di interesse all’interno del comitato portuale. Ogni anno si ripete uno scontro silenzioso tra ministero dei Trasporti e dell’Economia. Quest’ultimo a ogni nuova Finanziaria vuole far valere l’elenco ISTAT degli enti pubblici, in cui è inclusa (pagina 16) l’autorità portuale, affinché anche le authorities rientrino nei tagli alla spesa o nel blocco del personale. 

Il confronto finora è stato sempre vinto dal ministero dei Trasporti che è sempre riuscito a proteggere l’autorità portuale in nome del regime di impiego “privato” dei dipendenti (è una vecchia questione controversa e particolarmente noiosa, un approfondimento si trova qui). I piani regolatori sono approvati in tempi biblici, i dragaggi vengono richiesti ma non sempre approvati perché bisogna avere prima il VAS, poi il VIA, forse nessuno dei due, forse entrambi. Infine le autorità portuali tendono ad accumulare grossi crediti sui canoni demaniali. L’esempio più eclatante è quello di Napoli, dove la principale azienda che gestisce il terminal container deve all’authority diversi milioni di euro per anni di concessioni non pagate, e siede nel comitato portuale che tra le altre cose stabilisce proprio le regole da adottare sulle pratiche creditizie.

Burocrazia e commissariamenti
Nei porti italiani si radunano tutti i problemi della pubblica amministrazione, e con essi le vicissitudini di tanti politici sia in cerca di potere che in attesa di sistemazione migliore. Nonostante l’articolo 8 della legge 84/94 stabilisca che il presidente deve essere un esperto di “massima e comprovata qualificazione professionale nei settori dell’economia dei trasporti e portuale”, un “tecnico”, capita spesso di vedere a capo di un porto deputati o senatori in cerca di parcheggio. L’esempio più recente c’è stato a Cagliari. Nel dicembre 2011 è stato nominato all’Autorità portuale il chirurgo e senatore Pdl Piergiorgio Massida. A settembre 2013 il Consiglio di Stato aveva dichiarato illegittima la sua nomina, essendo appunto un medico senza alcuna esperienza diretta nei trasporti. A novembre dello stesso anno il ministro dei Trasporti Lupi lo ha nominato commissario (di se stesso). Infine a gennaio scorso il Consiglio di Stato ha fatto decadere anche la sua carica di commissario straordinario.

Il fenomeno del commissariamento delle autorità portuali italiane è il sintomo principale dello stato in cui si trova questa macchina pubblica. Attualmente, su ventiquattro autorità portuali ben nove sono sotto regime commissariale, il 37,5% del totale. Dalla prima all’ultima commissariata, sono: Manfredonia (da quando è nata, otto anni fa, non ha mai avuto un presidente ma solo commissari), Catania (dicembre 2012), Napoli (marzo 2013), Piombino (luglio 2013), Olbia (settembre 2013), Cagliari (novembre 2013), Augusta (dicembre 2013), Gioia Tauro e Ancona (entrambe a maggio di quest’anno). Nella maggior parte dei casi i commissari nominati sono militari delle Capitanerie di porto o gli ex presidenti.

Perché così tanti commissariamenti nei porti italiani? Fondamentalmente perché il meccanismo di nomina dei presidenti è logoro. Non ci si decide (o non ci si vuole decidere) sulla terna dei nomi e così, alla scadenza dei termini, scatta il regime commissariale che, dando un discreto vantaggio gestionale al ministero da cui dipende, da temporaneo diventa a tempo indefinito (come per Napoli, ad oggi senza governance da 523 giorni) o addirittura indeterminato (come nel caso di Manfredonia). Altre volte sono gli stessi enti locali (Comune, Provincia, Camera di Commercio) a non decidersi a dare un nome ciascuno al ministero dei Trasporti, altre volte è la commissione Trasporti che se alla Camera vota sì al candidato proposto dal ministero, lo boccia al Senato. 

C’è un delicato “equilibrio partitico” da mantenere nelle poltrone delle presidenze delle autorità portuali, per cui a volte i tempi di negoziazione si allungano, fino a paralizzarsi. Ma può anche capitare che il presidente dell’Autorità portuale sia indagato, com’è successo a Napoli nel 2008 all’allora presidente Francesco Nerli sotto inchiesta per concussione. Attualmente l’Italia ha più di un terzo dei suoi porti commissariati, scali che non possono programmare, non possono investire, non possono crescere.

Buoni esempi
Non mancano però gli esempi virtuosi. C’è Genova, storico porto italiano dall’antica tradizione, con una buona organizzazione e una dirigenza relativamente coesa per gli standard italiani. Trieste con la sua zona franca, La Spezia con i suoi container, Venezia che fa miracoli con i passeggeri, anche se adesso le navi da crociera si sono fatte troppo grandi per il delicato canale di San Marco. Napoli con uno dei golfi più affollati al mondo in estate. E poi c’è la romantica avventura imprenditoriale del porto di Gioia Tauro, piana di aranceti fino al 1993, quando storia vuole che l’imprenditore genovese Angelo Ravano, tornando a casa con l’aereo, vide gli spazi dove realizzare il grande terminal container che è oggi, uno dei primi del Mediterraneo.

Il Partito Democratico ha proposto una riforma della legge 84/94 che mira principalmente a sfoltire questo folto popolo di porti. Curata e presentata ad aprile dal senatore Marco Filippi, accorpa e riduce le autorità portuali a 14, vorrebbe velocizzare l’approvazione dei piani regolatori e regolamentare i servizi tecnico-nautici (ormeggio, rimorchio e pilotaggio). Non è chiaro però in che modo intenda intervenire sui meccanismi di nomina dei presidenti e sui vincoli alle loro qualifiche professionali.

Riforma
Le scuole di pensiero per riformare i porti italiani possono riassumersi in due posizioni, entrambe valide ed entrambe con le loro controindicazioni. La prima è quella che intende mantenere l’attuale approccio “statale”, ed è ovviamente preferita dai politici. Si sceglie di riformare la “testa”, la governance ministeriale dei porti. Una strada potrebbe essere la riforma della pubblica amministrazione, una nuova regolamentazione sugli appalti, il ripristino di quello che una volta si chiamava ministero della Marina Mercantile. La seconda scuola di pensiero è quella privatistica, logicamente preferita dagli imprenditori portuali, che interviene direttamente sulla natura giuridica delle autorità portuali seguendo il modello di efficienza nordeuropeo.

Il segretario generale viene sostituito dall’amministratore delegato e il presidente politico da un presidente-manager. Questo modello è quello più utilizzato nel mondo, soprattutto nei paesi dove il trasporto delle merci via mare è una quota considerevole (Cina, Olanda, Germania, Belgio, Stati Uniti, Brasile, solo per citarne alcuni). Stabilisce una specie di organizzazione federale dei porti: godono di autonomia finanziaria, potendo trattenere parte del loro gettito fiscale, possono acquistare terminal o costruirne di nuovi (l’Autorità portuale di Rotterdam sta ultimando il terminal container più grande d’Europa, il Maasvlakte 2, esteso più di mille campi di calcio).

Le due scuole di pensiero hanno entrambe i loro vantaggi, ma entrambe sono complicate da attuare in tempi brevi in Italia. Il modello statale potrebbe soltanto peggiorare la situazione, per esempio moltiplicando le spese e la burocrazia (si pensi al ritorno del “ministero del mare”), a meno che non porti con sé una vera riforma della pubblica amministrazione. Il secondo modello, quello “federale”, potrebbe portare a enormi speculazioni. Al momento si è scelto la strada dell’immobilismo, e il commissariamento di un terzo dei porti in Italia ne è la prova evidente. Forse per la fine dell’anno potrebbe arrivare la riforma del PD, che riducendo il numero delle autorità portuali faciliterebbe perlomeno la loro gestione, riducendo significativamente anche il fenomeno dei commissariamenti.

2015/06/27

Quando l'Europa.... il destino della Grecia


Gad Lerner è l'autore dell'articolo pubblicato sotto.
Per cui quando trovate scritto "ripubblico" in effetti è lui che ha ripubblicato sul suo blog l'articolo, o il saggio, in questione. Vorrei doverosamente aggiungere un appunto. L'autore non mi è mai piaciuto, troppo aggressivo per certi aspetti, troppo di parte per altri, significa che secondo il mio pensiero siamo di fronte a un opinionista economico ondivago, dipendente dal vento, quello che tira dove lui vorrebbe.

In questo articolo tuttavia si esprime al riguardo della Grecia e della situazione ormai insostenibile che si è venuta a creare, arbitro del nostro stesso destino futuro perché tutte le volte che qualche nostro politico si affretta a allontanare dall'Italia i funesti pericoli di contagio ecco che essi puntualmente si verificano. Guardatevi dunque la spalle, i prossimi siamo noi.

Ripubblico un mio articolo uscito su “Repubblica” il 5 novembre 2011 perché mi pare che l’establishment finanziario e politico europeo stia reagendo col medesimo fastidio, quattro anni dopo, all’idea che i cittadini greci possano decidere democraticamente il loro futuro. La differenza è che oggi c’è Tsipras al posto di Papandreou, e quindi il referendum convocato non verrà soppresso.

Fino a che punto le regole vigenti nell’economia mondiale sono tuttora compatibili con l’esercizio della democrazia? La domanda è più che legittima, vista la reazione di panico con cui i mercati finanziari, e insieme a loro tanti leader politici nonché le principali istituzioni monetarie, hanno condannato la decisione del governo greco di convocare un referendum sulle ricette amare prescritte dall’Ue.

Il presidente della Banca mondiale, Robert Zoellick, ne parla come di un “lancio di dadi”. Il governo tedesco lo qualifica come inaccettabile “perdita di tempo”. Quanto alle reazioni dell’establishment di casa nostra, basti per tutti l’aggettivo con cui Ferruccio de Bortoli, sul “Corriere della Sera”, liquida il referendum indetto da Papandreou: “Scellerato”.

Scellerato il ricorso a uno strumento di democrazia diretta? E perché mai? La risposta implicita può essere una soltanto, dato che purtroppo non esiste ancora una Confederazione Europea titolare di sovranità democratica condivisa: uno Stato che, come la Grecia, ha accumulato un debito insostenibile, per ciò stesso sarebbe condannato alla perdita della sovranità nazionale; ai suoi cittadini, quindi, può venir confiscato il diritto di assumere decisioni sul proprio futuro.

Per giustificare un tale ricorso allo stato d’eccezione che contemplerebbe la sospensione dell’esercizio della sovranità popolare, qualcuno invoca il paragone storico: quando mai un leader politico come Winston Churchill avrebbe sottoposto all’opinione pubblica impaurita la decisione stoica di resistere all’aggressione nazista? La metafora bellica, però, è un’arma a doppio taglio: possiamo considerare un progresso che, nel mondo contemporaneo, il dominio sia fondato non più sugli eserciti ma sul debito. Purché si riconosca che siamo in presenza di una nuova forma di colonialismo.

Si badi bene. Il governo greco soffre di un deficit di forza e autorevolezza, è vero. Ma non si è sottratto al dovere di rinegoziare con l’Ue e il Fmi le condizioni del suo debito. Ne è conseguito un piano di rientro terribilmente oneroso. I cittadini non vengono chiamati a pronunciarsi su un singolo provvedimento, prerogativa del governo in carica, ma su una scelta per tutti loro vitale. Accettare i sacrifici necessari per continuare a far parte dell’Unione europea, o sobbarcarsi l’incognita del default? Già nella piccola Islanda, con due diversi referendum, gli elettori hanno rifiutato di onorare il piano di rimborsi predisposti dal Fmi, e hanno preferito penalizzare le banche creditrici inglesi e olandesi. E’ vero che se un’analoga decisione venisse assunta dai greci, le ripercussioni sarebbero molto più gravi per tutta l’eurozona. Ma resta la domanda: a chi spetta decidere? C’è forse qualcuno che può sostituirsi al popolo greco in un tale frangente?

Nel loro recente libro-dialogo Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky ricordano che per millenni la democrazia fu considerata un pessimo sistema di governo perché solo un’élite di avveduti saprebbe decidere per il meglio, non la massa degli ignoranti. Se invece restiamo fermi nella convinzione che “il popolo si può sbagliare ma resta il miglior interprete del proprio interesse”, e quindi “ogni altro interprete è peggiore”, allora dobbiamo guardarci dai vizi antidemocratici che contraddistinguono l’attuale gestione della crisi del capitalismo finanziario. Possiamo delegarla a autorità monetarie rivelatesi per decenni insensibili a piaghe come la disoccupazione e l’acuirsi delle disuguaglianze, se non addirittura compartecipi nel predominio della finanza speculativa? Non risulta beffardo che l’autonominatosi direttorio franco-tedesco sia oggi costituito da leader di destra che negli anni scorsi hanno boicottato una reale unione politica sovranazionale? Per non dire dei governanti italiani che fino a ieri blateravano di popoli in rivolta contro gli “euroburocrati”, salvo sottomettersi ora acriticamente ai diktat di Francoforte e Bruxelles.

Una politica incapace di rimettere in discussione i dogmi di un’economia fondata sulla lucrosa perpetuazione del debito e sull’ideologia della competizione esasperata, subisce passivamente la contrapposizione tra finanza e democrazia; sposa le convenienze della finanza a scapito della democrazia. Del resto, la levata di scudi contro il referendum greco è un atteggiamento già sperimentato in Italia. Come dimenticare che la primavera scorsa il nostro governo sperperò centinaia di milioni nell’inutile tentativo di boicottare i referendum sull’acqua e sul nucleare, rinviandone lo svolgimento? E ora, nella foga di varare un piano di privatizzazione delle aziende pubbliche, il governo si prepara a calpestare quel voto contrario di ventisette milioni di italiani convinti che si debbano preservare dei “beni comuni”. Tutti scellerati?

Gad Lerner su Repubblica, Novembre 2011 e Gad Lerner Blog Giugno 2015.

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