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2016/08/12

Italiani sempre più poveri



L’ultimo decennio ha sconvolto l’ordine economico: i figli sono più poveri dei genitori, e forse destinati a rimanerlo. Non era mai accaduto dal Dopoguerra fino al passaggio del Millennio. L’Italia si distingue, fra tutti i paesi avanzati, come quello in cui questo ribaltamento generazionale è più dirompente.

L'impoverimento generalizzato e l'inversione delle aspettative sono i fenomeni documentati nell'ultimo Rapporto McKinsey. Il titolo è "Poorer than their parents? A new perspective on income inequality" (Più poveri dei genitori? Una nuova prospettiva sull'ineguaglianza dei redditi). Il fenomeno è di massa e praticamente senza eccezioni nel mondo sviluppato. Contribuisce a spiegare - secondo lo stesso Rapporto McKinsey - il disagio sociale che alimenta populismi di ogni colore, da Brexit a Donald Trump. Per effetto dell'impoverimento e dello shock generazionale, una quota crescente di cittadini non credono più ai benefici dell'economia di mercato, della globalizzazione, del libero scambio.

Lo studio di McKinsey ha preso in esame le 25 economie più ricche del pianeta. C'è dentro tutto l'Occidente più il Giappone. In quest'area il disastro si compie nella decade compresa fra il 2005 e il 2014: c'è dentro la grande crisi del 2008, ma in realtà il trend era cominciato prima. Fra il 65% e il 70% della popolazione si ritrova al termine del decennio con redditi fermi o addirittura in calo rispetto al punto di partenza. Il problema affligge tra 540 e 580 milioni di persone, una platea immensa. Non era mai accaduto nulla di simile nei 60 anni precedenti, cioè dalla fine della Seconda guerra mondiale. 

Tra il 1993 e il 2005, per esempio, solo una minuscola frazione della popolazione (2%) aveva subito un arretramento nelle condizioni di vita. Ora l'impoverimento è un tema che riguarda la maggioranza. L'Italia si distingue per il primato negativo. È in assoluto il paese più colpito: il 97% delle famiglie italiane al termine di questi dieci anni è ferma al punto di partenza o si ritrova con un reddito diminuito. Al secondo posto arrivano gli Stati Uniti dove stagnazione o arretramento colpiscono l'81%. Seguono Inghilterra e Francia. 

Sta decisamente meglio la Svezia, dove solo una minoranza del 20% soffre di questa sindrome. Ciò che fa la differenza alla fine è l'intervento pubblico. Il modello scandinavo ha ancora qualcosa da insegnarci. In Italia, guardando ai risultati di questa indagine, non vi è traccia di politiche sociali che riducano le diseguaglianze o compensino la crisi del reddito familiare.

L'altra conclusione del Rapporto McKinsey riguarda i giovani: la prima generazione, da molto tempo, che sta peggio dei genitori. "I lavoratori giovani e quelli meno istruiti - si legge nel Rapporto - sono colpiti più duramente. Rischiano di finire la loro vita più poveri dei loro padri e delle loro madri". Questa generazione ne è consapevole, l'indagine lo conferma: ha introiettato lo sconvolgimento delle aspettative.

Lo studio non si limita a tracciare un quadro desolante, vi aggiunge delle distinzioni cruciali per capire come uscirne. Il caso della Svezia viene additato come un'eccezione positiva per le politiche economiche dei governi e gli interventi sul mercato del lavoro che hanno contrastato con successo il trend generale. "Lo Stato in Svezia si è mosso per mantenere i posti di lavoro, e così per la maggioranza della popolazione alla fine del decennio i redditi disponibili erano cresciuti per quasi tutti". 

Perfino l'iper-liberista America, però, ha fatto qualcosa per contrastare le tendenze di mercato. Riducendo la pressione fiscale sulle famiglie e aumentando i sussidi di welfare, gli Stati Uniti hanno agito per compensare l'impoverimento con qualche successo. In Italia, una volta incorporati gli effetti delle politiche fiscali e del welfare, il risultato finale è ancora peggiore: si passa dal 97% al 100%, quindi la totalità delle famiglie sta peggio in termini di reddito disponibile.

Se lasciata a se stessa, l'economia non curerà l'impoverimento neppure se dovesse ricominciare a crescere: "Perfino se dovessimo ritrovare l'alta crescita del passato, dal 30% al 40% della popolazione non godrà di un aumento dei redditi". E se invece dovesse prolungarsi la crescita debole dell'ultimo decennio, dal 70% all'80% delle famiglie nei paesi avanzati continuerà ad avere redditi fermi o in diminuzione.

2016/08/10

Marcinelle, 60 anni

Quando gli immigrati eravamo noi
L’8 agosto ricorrevano i 60 anni dalla tragedia di Marcinelle, una delle più pesanti catastrofi per l’emigrazione italiana con 136 nostri connazionali periti tra i 263 minatori bruciati o soffocati a quasi mille metri di profondità in una a miniera di carbone belga  vicino a Charleroi.

L’Italia distratta di oggi non ricorda questa pagina tremenda della nostra emigrazione né gli accordi che ci stavano dietro, ovvero il vero e proprio contratto con cui i governi italiani del dopoguerra avevano venduto le braccia di migliaia di operai – quasi tutti del sud – in cambio di quel carbone che doveva far ripartire le nostre industrie per la povertà italiana di materie prime.

Una "deportazione" vera e propria, che obbligava quelli che decidevano di partire per sfuggire alla miseria e alla disoccupazione a scendere nel sottosuolo per almeno 5 anni, pena la detenzione. L'accordo prevedeva l'invio di 2000 operai a settimana, cifra destinata ad aumentare perché dall'Italia arrivarono fin da subito anche le famiglie dei minatori, con mogli, figli, genitori. 

In cambio Bruxelles si impegnava a fornire al nostro Paese carbone a basso costo. 

Nelle città e nei paesi iniziarono a comparire i manifesti rosa di "reclutamento", che promettevano lavoro e salario, magnifiche sorti e progressive ricchezze in un'Italia disperatamente povera. 

Non erano richieste particolari attitudini, solo di avere meno di 35 anni ed essere in buona salute. Chi ha avuto modo di vedere di recente il bel film “Marina” (la celeberrima canzone degli anni ’60 fu composta dal figlio di un nostro minatore in Belgio) avrà notato le condizioni di vita di quegli emigranti e i loro alloggi: baracche di legno e lamiera in ex campi di prigionia. 

Erano quelle, almeno in una prima fase, le abitazioni dei minatori italiani, gli alloggi "convenienti" citati nel protocollo italo-belga. Le cantine trasformate in dormitori comuni con letti a castello, mentre le famiglie vivono nelle baracche. I bagni e le fontane per l'acqua erano esterni e in comune, in un paese dalle temperature non certo accoglienti. Già alla fine del 1948 nelle miniere belghe lavorano quasi 77mila italiani, ma l’emigrazione continuerà senza soste. . 

Alle 8.10 dell'8 agosto del 1956 scoppia un incendio a -975 metri nella miniera di carbone del Bois du Cazier, nel bacino carbonifero di Charleroi. In quel momento nelle viscere della terra lavorano 275 uomini. Di questi solo 13 riusciranno a salvarsi. La macchina dei soccorsi si muove in ritardo, e per due settimane si continua ad alimentare la speranza, fino a quando, il 23 agosto, vengono dichiarati "tutti morti". I processi-farsa che seguiranno assolveranno tutti i responsabili della miniera, priva di qualsivoglia sistema di sicurezza, parlando di “fatalità”. 

Fu Mirko Tremaglia – come ministro per gli italiani nel mondo – a proporre ed ottenere che l’8 agosto diventasse un giorno di ricordo nazionale dell’ l’emigrazione italiana, ma ora che non ci sono più nè il ministero e neppure un sottosegretario specifico per gli italiani all’estero di questi ricordi se ne perdono le tracce. 

Qualche ex minatore è ancora in vita come – è stato ricordato - Mario, a cui la miniera ha "regalato" la silicosi. Lui ed altri ex minatori italiani cercano di tener viva la memoria di una tragedia che molte giovani generazioni non conoscono neppure. Mario ha scritto al presidente Mattarella per avere una copia della medaglia che l'Italia diede a suo padre, anche lui minatore. Ma, dall'inverno scorso, non ha ancora ricevuto risposta. Come è stato scritto, quei minatori e le loro famiglie "sono rimasti orfani non solo dei padri, ma anche della patria".

ITALIA, di tutto un po'....



Per quasi tutta la stampa italiana DONALD TRUMP è un cretino. Come sempre avvenuto, quando arriva un candidato diverso dalla sinistra-radical-scic non si va a valutare seriamente come la pensi, ma lo si fa diventare un pagliaccio. La ricetta è semplice: si prende una frase, la si estrapola dal contesto, la si commenta in modo demagogico, la si fa diventare titolone e così lo si censura. DOnald Trump per chi non lo sapesse è un miliardario americano che ha fatto fortuna attraverso le costruzioni d'immobili, giornali e reti TV, esattamente come Berlusconi.

Un esempio? Se leggo “Trump: la Clinton ha fondato l’ISIS!” (titolo Corsera) è una idiozia, ma se lo ascolto e comprendo che ha detto “L’ex segretaria di stato Hillary Clinton con la sua politica di destabilizzazione americana in Medio Oriente ha portato alla nascita dell’ISIS” Trump ha perfettamente ragione. Purtroppo in Italia la politica estera è spot, sensazioni, superficialità e - nello specifico - è in atto una “santificazione” della Clinton considerando i sostenitori di Trump dei buzzurri cretini. 

Si aggregano al cicaleggio i cinquettii della Boldrini, della Mogherini, della Boschi tutte corse alla convention democratica (con i soldi dei contribuenti) a sbavare per un “selfie” insieme alla candidata.

Ricordo la stessa politica di demonizzazione verso il MSI-DN della mia gioventù o anche recentemente contro la Lega Nord (e oggi contro il M5S) , con tanti servizi TV dove i leghisti apparivano sempre come degli zoticoni con le corna di mucca in testa, ma raramente c’era spazio per capire od approfondire gli avvenimenti. I commenti alle elezioni americane sono sconcertanti davanti a due candidati entrambi discutibili, ma dove da una parte c’è per lo meno un forte senso di discontinuità, dall’altro una liturgica approvazione dello “status quo” e non mi pare che gli USA in questi anni abbiano fatto sfolgoranti progressi, soprattutto facendo pagare ad altri (come agli europei) le loro speculazioni finanziarie. Certo che se vince Trump per l’Europa sarà dura, ma per prima cosa credo si dovrebbe cercare di capirne meglio il fenomeno. 

Lo stesso vale per LA CRISI DELLE BANCHE dove leggendo dozzine di articoli sfugge un concetto: chi, come e perché ha permesso gli indebitamenti colossali di tanti creditori insolventi, quelli che – per esempio – hanno affossato Monte dei Paschi di Siena, banca “politica” (di sinistra) per eccellenza? 

Ho visto come sia stato sempre difficile ottenere correttamente crediti, finanziamenti, aiuti per le piccole imprese e SEMPRE - anche per poche migliaia di euro di crediti - servono firme, fidejussioni, avvalli ecc.

Ma come è mai possibile arrivare a sofferenze di MILIARDI DI EURO? Non ci sono direttori generali, consigli di amministrazione, responsabili dei fidi cui oggi andrebbe chiesto conto? Nessuno paga se non gli azionisti (quelli piccoli, gli altri sono stati prioritariamente sistemati) che in campo bancario hanno visto perdere anche il 99% del proprio investimento. Ma possibile che BANCA D’ITALIA e CONSOB non si sono accorte di niente anche negli ultimi anni? Ed è corretto che ora le banche dietro al FONDO ATLANTE posano acquisire banche per mezzo piatto di lenticchie? Questi sono misteri tutti italiani che NESSUNO sembra voler approfondire. 

Un ulteriore esempio di disinformazione è per la TURCHIA E LO PSEUDO GOLPE DI ERDOGAN dove ho letto ben poco fuori dal coro. Ma chi sono stati i golpisti, come hanno portato avanti questo maldestro tentativo di colpo di stato che è abortito in pochi minuti? Oppure – come temo – è stata una plateale “patacca” auto-organizzata o almeno ben a conoscenza di Erdogan che ne ha approfittato per far fuori ogni opposizione? Non si arrestano 2.350 giudici in poche ore senza avere dietro un piano preciso, così come poter impunemente epurare e imprigionare giornalisti, TV, partiti, professori, militari a decine di migliaia. 

Diciamoci la verità, ovvero che oggi la Turchia serve all’Europa e agli USA per molti “lavori sporchi”, ricatta l’UE per i profughi, ha in Europa milioni di suoi cittadini. Erdogan è furbo, tratta e commercia come tutti i turchi e ha scoperto un “cliente” europeo da tenere per le palle  Ecco dunque che in Europa spariscono i guaiti sui diritti umani, non si vedono più le immagini delle torture, non ci sono sanzioni, nessuna delegazione “va a vedere” sul serio cosa succeda nelle carceri turche. Poche le eccezioni, come quella coraggiosa di Lucia Goracci che ha intervistato Erdogan senza ipocrisie, anche se lui ha risposto ovviamente come voleva. 

Sul piano interno lo spettacolo più indecoroso: la “dispar condicio sul referendum” dove non c’è un minimo di equità nell’illustrare anche le ragioni del NO ed è un continuo inno al SI senza vero contradditorio o spazio per spiegare le critiche. Così il SI serve - dice la fatina Boschi - addirittura contro il terrorismo, per dar soldi ai poveri, per superare la crisi economica e via a spararle più grosse. 

Vale per le grandi testate ma soprattutto per la RAI TV, piegata come sempre sul leader a violare qualsiasi regola di “par condicio” con il maghetto di Firenze che appare ovunque con le sue cicalanti vestali. A seguire il documento di un gruppo di parlamentari del PD (che ovviamente adesso rischiano il posto) che coraggiosamente spiegano il loro NO e un articolo apparso sul Corriere della Sera del prof. Stefano Passigli che – sfuggito alla censura? – con molta pacatezza fa dei ragionamenti chiarissimi e che i fautori del SI dovrebbero forse mediare. 

Ma a fronte di queste indecenze l’unica cosa che conta è sempre la demagogia ed è di ieri la notizia del licenziamento in tronco del direttore di QS (quotidiano sportivo del gruppo Monti) perché in un articolo (tra l'altro in chiave di simpatia) erano state due giorni fa definite "cicciottelle" le tre atlete che hanno perso le possibili medaglie alle olimpiadi nel tiro con l'arco.

Ma vi sembra un termine così offensivo?! Ogni giorno la verità è mistificata, nascosta, ignorata su problemi ben più gravi e ben altri sarebbero da licenziare! Ma è quel “cicciottelle” a contare… Può funzionare un paese così intriso di ipocrisia? No, ma a furia di buonismi e di "political correct" viene francamente da vomitare e questa è la sublimazione delle imbecillità. 

NOI PARLAMENTARI PD PER IL NO AL REFERENDUM
I firmatari di questo documento sono parlamentari del PD che voteranno no al prossimo referendum costituzionale. Con la consapevolezza che la propria è posizione in dissenso da quella deliberata dal PD, ma nella convinzione che essa possa essere da noi assunta grazie al carattere liberale dello statuto del partito, il quale mette in conto che non si dia un vincolo disciplinare quando sono in gioco principi e impianto costituzionale. Una posizione, la nostra, che confidiamo possa essere doppiamente utile. Da un lato, contribuendo a centrare il confronto sul merito della riforma, anziché su pregiudiziali posizioni di schieramento, come un po' tutti, a cominciare dal PD, dichiarano di auspicare. Dall'altro, ritenendo che non siano pochi, tra elettori e militanti democratici, coloro che coltivano una opinione diversa da quella "ufficiale" del partito, pensiamo sia bene che essi abbiano voce. Circostanza che conferisce autorevolezza e forza al PD come grande partito pluralistico, inclusivo e appunto liberale. Sinteticamente, le motivazioni del nostro no sono le seguenti: 1) le priorità in agenda. È nostra convinzione che le riforme costituzionali, pur necessarie, non rappresentino la priorità in agenda. Di più: che da gran tempo è invalsa l'abitudine - una sorta di alibi per la classe politica - di imputare alla Costituzione la responsabilità di insufficienze che semmai vanno intestate alla politica e all'amministrazione; nonché di spostare tutta l'attenzione dall'esigenza di dare attuazione a principi e diritti scolpiti nella Carta alla ingegneria costituzionale in una sorta di frenesia riformatrice; 2) legittimazione o, meglio, autorevolezza di questo parlamento. Conosciamo la sentenza n. 1 del 2014 che autorizza l'operatività del parlamento ancorché eletto con il Porcellum dichiarato incostituzionale dalla Consulta. Ma una cosa è la sua operatività ordinaria, altra cosa è la riscrittura di ben 47 articoli della Costituzione, un ridisegno della sua seconda parte (per altro già rinnovata in taluni suoi articoli), per il quale si richiederebbero ben altra autorevolezza e forse un più esplicito mandato da parte degli elettori. Abbiamo la memoria corta: dopo l'esito delle elezioni politiche del 2013, dalle quali non è sortita una maggioranza, era opinione unanime che si dovesse dare vita a un governo istituzionale che portasse entro un anno a nuove elezioni, non a governi o a una legislatura costituenti; 3) metodo. È profilo cruciale. Le revisioni costituzionali sono materia parlamentare per eccellenza. Nel nostro caso, l'intero processo è stato ideato, gestito, votato dal governo, per altro facendo appello a motivazioni giuste ma francamente incongrue rispetto alla portata della riforma quali la riduzione dei costi. Un protagonismo esorbitante e improprio del governo, non privo di gravi conseguenze. Tra le quali quella di non giovare al fine di raccogliere una maggioranza larga, quale si conviene alla riscrittura della Legge fondamentale della Repubblica; quella inoltre di smentire il solenne impegno a non ripetere l'errore del passato di riforme varate da una stretta maggioranza di governo; quella infine di porre l'ennesimo, insidioso precedente foriero di altri futuri strappi da parte di maggioranze politiche contingenti, in un tempo che ci suggerisce di non escludere, per il futuro, governi dal segno illiberale. E ancora: quella di porre le premesse per un referendum costituzionale il cui oggetto slitta dal quesito di merito formale al quesito implicito sul sì o no al governo, dunque un plebiscito. Anche a motivo della non omogeneità dell'oggetto, come prescrive la giurisprudenza costituzionale e, prima ancora, l'art. 138 la cui "ratio" chiaramente sottintende revisioni mirate e puntuali;
4) il merito. In estrema sintesi, la nostra opinione è che la riforma non riesca a perseguire gli obiettivi dichiarati: di semplificazione e di conferimento di efficienza e di efficacia al sistema istituzionale. Più specificamente, essa disegna un bicameralismo confuso - va da sé che siamo favorevoli al superamento del bicameralismo paritario - nel quale il Senato, privo per altro di adeguata autorevolezza e rappresentatività, rischia semmai di costituire un ulteriore ostacolo al processo decisionale (davvero si pensa che il problema sia quello di fare più celermente nuove leggi, anziché quello di farne meno e di scriverle meglio?); un procedimento legislativo farraginoso e foriero di conflitti; un Senato la cui estrazione locale mal si concilia con le rilevanti competenze europee e internazionali affidategli; una esorbitante ricentralizzazione nel rapporto Stato-regioni che revoca il principio/valore delle autonomie ex art. 5 della Carta (paradossalmente ignorando l'esigenza di ripensare le regioni ad autonomia speciale); una complessiva alterazione degli equilibri, delle garanzie e dei bilanciamenti di cui si nutre il costituzionalismo tutto a vantaggio del governo, un vantaggio ulteriormente avvalorato dall'Italicum; il conferimento ai futuri consiglieri regionali e sindaci senatori dell'istituto dell'immunità sino a oggi riservato ai soli rappresentanti della nazione in senso proprio;
5) elettività dei senatori. Nell'ultimo e decisivo passaggio della riforma al Senato la questione più dibattuta fu quella della sua elettività, motivata in ragione delle competenze ad esso assegnate - dalle leggi di revisione costituzionale alla materia comunitaria sino alla ratifica dei trattati internazionali - che palesemente presuppongono senatori eletti direttamente dai cittadini in quanto fonte della sovranità nazionale. Ne è sortita una elaborata mediazione sul testo che di fatto rinvia la questione a una legge elettorale (del Senato) ordinaria di attuazione. Sul punto, vi fu l'intesa di fare precedere il referendum costituzionale da un impegnativo atto politico se non dalla messa a punto di una bozza di tale legge attuativa, della quale non si ha più notizia. Rilasciando così nell'incertezza la cruciale questione della elettività dei senatori;
6) infine una ragione politica, che riguarda il PD e, più complessivamente, l'evoluzione del sistema politico. Non è un mistero che, anche a motivo della impropria drammatizzazione politica della questione, si attende il referendum come uno spartiacque. Al punto che vi è chi rappresenta il fronte del sì come il laboratorio di uno schieramento o addirittura di un partito che muova dal PD, ma che vada oltre il PD. Una sorta di partito unico di governo, posizionato al centro, che si concepisce come alternativo alla destra e alla sinistra. Una prospettiva, per noi, tre volte sbagliata: perché snatura il confronto referendario; perché allontana il sistema politico dalla fisiologia di una competizione tra centrodestra, centrosinistra e 5 Stelle; perché altera il profilo costitutivo del PD quale partito di centrosinistra, ancorché non presuntuosamente autosufficiente, nel solco dell'Ulivo. Quel profilo e quell'assetto che, alle recenti amministrative, nel quadro di una bruciante sconfitta, ha consentito al PD di vincere la partita a Milano.
La nostra posizione per il no può riuscire utile sotto un altro, decisivo profilo. Quello delle gestione delle conseguenze a valle di una eventuale bocciatura della riforma. Il nostro è un no di merito alla riforma. La circostanza che anche elettori e militanti del PD possano avere contribuito al no non autorizzerebbe a stabilire un improprio automatismo: no alla riforma=crisi di governo. Qualcuno di sicuro lo sosterrà, anche perché, non certo noi, ma il premier, sbagliando, ha contribuito ad avvalorare tale tesi.

Un automatismo che noi contestiamo, con il nostro no, rigorosamente distinto dal no al
governo, che, lo ripetiamo, esula completamente dalle nostre intenzioni.

Paolo Corsini, Nerina Dirindin, Luigi Manconi, Claudio Micheloni, Massimo Mucchetti, Lucrezia Ricchiutti,
Walter Tocci, Luisa Bossa, Angelo Capodicasa, Franco Monaco


2016/07/16

I muri del commercio mondiale



La Brexit, l'ascesa di Trump, le tentazioni protezioniste di Hillary Clinton, l'arenarsi del TPP e del TTIP, i due grandi trattati commerciali promossi da Obama con i paesi del Pacifico e dell'Atlantico, lo svanire del WTO, il rifiuto europeo di concedere alla Cina lo status di economia di mercato che ne avrebbe agevolato le esportazioni. La lista dei campanelli d'allarme sulla salute della globalizzazione è lunga, ma decretarne il tramonto è prematuro. E' cambiata certamente la narrativa della globalizzazione. 

Da fenomeno che vede tutti vincitori - i capitalisti che hanno più occasioni di investire, i consumatori dei paesi ricchi che spendono meno per i loro consumi, i lavoratori dei paesi emergenti che vedono crescere i loro redditi - ad una situazione in cui i perdenti ci sono: le classi medie dei paesi ricchi che hanno visto frenare drammaticamente la crescita dei loro redditi reali. Ma i grandi motori dell'integrazione globale continuano a girare: dalla crescita esponenziale dei flussi di dati via Internet alle "catene di valore", cioè le produzioni integrate sparse su vari paesi che ormai occupano i tre quarti delle esportazioni mondiali.

O invece no? Quando Jeff Immelt, il boss di General Electric, una delle più grandi multinazionali mondiali suggerisce che la strada futura è la localizzazione delle produzioni sembra indicare che le grandi aziende hanno fiutato una svolta che alle grandi istituzioni economiche mondiali è sfuggita. In un saggio apparso su Voxeu, due studiosi, Simon Evenett e Johannes Fritz la sintetizzano così: il commercio mondiale non sta rallentando. Si è puramente e semplicemente fermato. E questa frenata coincide con una recrudescenza di misure protezionistiche.

Per il 2015, World Bank, FMI, WTO stimano tutti una crescita del commercio mondiale fra il 2,8 e il 3,1 per cento. Ma i dati (a consuntivo) dell'olandese World Trade Monitor indicano invece che non è aumentato affatto. Anzi, è un po' diminuito. Evenett e Fritz sostengono che il volume del commercio mondiale non si schioda dal livello raggiunto nel gennaio 2015, e questo vale per export, import, paesi avanzati e paesi emergenti. Un ristagno lungo 15 mesi - osservano - tranne che nelle vere e proprie recessioni non si era mai visto dai tempi della caduta del Muro di Berlino. Ma questo vale anche per il valore del commercio mondiale? 

In altre parole, non è che il crollo dei prezzi delle materie prime (petrolio in testa) e la contemporanea rivalutazione del dollaro (la valuta in cui vengono quotate) basta a spiegare la frenata complessiva del commercio? No, rispondono Evenett e Fritz. I prezzi delle materie prime, a fine 2015, erano in ripresa, quelli dei semilavorati sono caduti tutto l'anno. Per beni d'investimento e di consumo i prezzi sono scesi per la prima parte del 2015 e lì sono rimasti. Insomma, petrolio e dollaro sono solo un pezzo della spiegazione.

Qual è l'altro pezzo? Secondo lo studio, i prodotti che hanno subito la maggiore caduta sono quelli che si sono scontrati con crescenti barriere protezionistiche. Il censimento fatto da Evenett e Fritz dice che il numero delle misure protezioniste nel mondo è cresciuto del 50 per cento fra il 2014 e il 2015. Che per ogni liberalizzazione ci sono state tre nuove misure antistranieri e che il 2016 si presenta peggio del 2015. Colpa dei paesi piccoli e deboli? 

Niente affatto, oltre l'80 per cento delle iniziative protezionistiche del 2015 sono opera dei paesi del G20. Lo studio dice anche che la natura di queste iniziative sta cambiando. Prima erano soprattutto dazi, sussidi e finanziamenti alle aziende nazionali. Adesso, si diffonde la pratica di imporre agli investitori di rifornirsi sul mercato nazionale. "Buy local", insomma, come sembra aver capito Immelt. 

Per la Gran Bretagna, che si trova fuori dall'ombrello europeo, la Brexit non poteva arrivare nel momento peggiore. Ma si preparano tempi duri per tutti i grandi esportatori, come Germania e Italia.

globalizzazione, eurobarometro, commercio mondiale

Da un articolo pubblicato su Repubblica.it del 16/07/2016

2016/07/15

Come finirà con l'Islam?


Intervista a Giovanni Sartori, fiorentino, 91 anni (quasi 92), considerato fra i massimi esperti di scienza politica a livello internazionale, da anni è attento osservatore dei temi-chiave di oggi: immigrazione, Islam, Europa. Da Il Giornale, 15/7/2016.

Professore su queste parole si gioca il nostro futuro.

«Su queste parole si dicono molte sciocchezze».

Su queste parole, in Francia, intellettuali di sinistra ora cominciano a parlare come la destra. Dicono che il multiculturalismo è fallito, che i flussi migratori dai Paesi musulmani sono insostenibili, che l'Islam non può integrarsi con l'Europa democratica...

«Sono cose che dico da decenni».

Anche lei parla come la destra?

«Non mi importa nulla di destra e sinistra, a me importa il buonsenso. Io parlo per esperienza delle cose, perché studio questi argomenti da tanti anni, perché provo a capire i meccanismi politici, etici e economici che regolano i rapporti tra Islam e Europa, per proporre soluzioni al disastro in cui ci siamo cacciati».

Quale disastro?

«Illudersi che si possa integrare pacificamente un'ampia comunità musulmana, fedele a un monoteismo teocratico che non accetta di distinguere il potere politico da quello religioso, con la società occidentale democratica. Su questo equivoco si è scatenata la guerra in cui siamo».

Perché?

«Perché l'Islam che negli ultimi venti-trent'anni si è risvegliato in forma acuta - infiammato, pronto a farsi esplodere e assistito da nuove tecnologie sempre più pericolose - è un Islam incapace di evolversi. È un monoteismo teocratico fermo al nostro Medioevo. Ed è un Islam incompatibile con il monoteismo occidentale. Per molto tempo, dalla battaglia di Vienna in poi, queste due realtà si sono ignorate. Ora si scontrano di nuovo».

Perché non possono convivere?

«Perché le società libere, come l'Occidente, sono fondate sulla democrazia, cioè sulla sovranità popolare. L'Islam invece si fonda sulla sovranità di Allah. E se i musulmani pretendono di applicare tale principio nei Paesi occidentali il conflitto è inevitabile».

Sta dicendo che l'integrazione per l'islamico è impossibile?

«Sto dicendo che dal 630 d.C. in avanti la Storia non ricorda casi in cui l'integrazione di islamici all'interno di società non-islamiche sia riuscita.
Pensi all'India o all'Indonesia».

Quindi se nei loro Paesi i musulmani vivono sotto la sovranità di Allah va tutto bene, se invece...

«...se invece l'immigrato arriva da noi e continua ad accettare tale principio e a rifiutare i nostri valori etico-politici significa che non potrà mai integrarsi. Infatti in Inghilterra e Francia ci ritroviamo una terza generazione di giovani islamici più fanatici e incattiviti che mai».

Ma il multiculturalismo...

«Cos'è il multiculturalismo? Cosa significa? Il multiculturalismo non esiste. La sinistra che brandisce la parola multiculturalismo non sa cosa sia l'Islam, fa discorsi da ignoranti. Ci pensi. I cinesi continuano a essere cinesi anche dopo duemila anni, e convivono tranquillamente con le loro tradizioni e usanze nelle nostre città. Così gli ebrei. Ma i musulmani no. Nel privato possono e devono continuare a professare la propria religione, ma politicamente devono accettare la nostra regola della sovranità popolare, altrimenti devono andarsene».

Se la sente un benpensante di sinistra le dà dello xenofobo.

«La sinistra è vergognosa. Non ha il coraggio di affrontare il problema. Ha perso la sua ideologia e per fare la sua bella figura progressista si aggrappa alla causa deleteria delle porte aperte a tutti. La solidarietà va bene. Ma non basta».

Cosa serve?

«Regole. L'immigrazione verso l'Europa ha numeri insostenibili. Chi entra, chiunque sia, deve avere un visto, documenti regolari, un'identità certa. I clandestini, come persone che vivono in un Paese illegalmente, devono essere espulsi. E chi rimane non può avere diritto di voto, altrimenti i musulmani fondano un partito politico e con i loro tassi di natalità micidiali fra 30 anni hanno la maggioranza assoluta. E noi ci troviamo a vivere sotto la legge di Allah. Ho vissuto trent'anni negli Usa. Avevo tutti i diritti, non quello di voto. E stavo benissimo».

E gli sbarchi massicci di immigrati sulle nostre coste?

«Ogni emergenza ha diversi stadi di crisi. Ora siamo all'ultimo, lo stadio della guerra - noi siamo gli aggrediti, sia chiaro - e in guerra ci si difende con tutte le armi a disposizione, dai droni ai siluramenti».

Cosa sta dicendo?

«Sto dicendo che nello stadio di guerra non si rispettano le acque territoriali. Si mandano gli aerei verso le coste libiche e si affondano i barconi prima che partano. Ovviamente senza la gente sopra. È l'unico deterrente all'assalto all'Europa. Due-tre affondamenti e rinunceranno. Così se vogliono entrare in Europa saranno costretti a cercare altre vie ordinarie, più controllabili».

Se la sente uno di quegli intellettuali per i quali la colpa è sempre dell'Occidente...

«Intellettuali stupidi e autolesionisti. Lo so anch'io che l'Inquisizione è stata un orrore. Ma quella fase di fanatismo l'Occidente l'ha superata da secoli. L'Islam no. L'Islam non ha capacità di evoluzione. È, e sarà sempre, ciò che era dieci secoli fa. È un mondo immobile, che non è mai entrato nella società industriale. Neppure i Paesi più ricchi, come l'Arabia Saudita. Hanno il petrolio e tantissimi soldi, ma non fabbricano nulla, acquistano da fuori qualsiasi prodotto finito. Il simbolo della loro civiltà, infatti, non è l'industria, ma il mercato, il suq».

Si dice che il contatto tra civiltà diverse sia un arricchimento per entrambe.

«Se c'è rispetto reciproco e la volontà di convivere sì. Altrimenti non è un arricchimento, è una guerra. Guerra dove l'arma più potente è quella demografica, tutta a loro favore».

E l'Europa cosa fa?

«L'Europa non esiste. Non si è mai visto un edificio politico più stupido di questa Europa. È un mostro. Non è neppure in grado di fermare l'immigrazione di persone che lavorano al 10 per cento del costo della manodopera europea, devastando l'economia continentale. Non è questa la mia Europa».

Qual è la sua Europa?

«Un'Europa confederale, composta solo dai primi sei/sette stati membri, il cui presidente dev'essere anche capo della Banca europea così da avere sia il potere politico sia quello economico-finanziario, e una sola Suprema corte come negli Usa. L'Europa di Bruxelles con 28 Paesi e 28 lingue diverse è un'entità morta. Un'Europa che vuole estendersi fino all'Ucraina... Ridicolo. Non sa neanche difenderci dal fanatismo islamico».

Come finirà con l'Islam?

«Quando si arriva all'uomo-bomba, al martire per la fede che si fa esplodere in mezzo ai civili, significa che lo scontro è arrivato all'entità massima».