Sennò finiamo male… Altrimenti rischiamo di… Siamo sull’orlo del baratro… With all due respect, come si direbbe in un inglese politically correct, tutte chiacchiere di chi dovrebbe sapere che mentre il medico studia, il malato muore. La verità è che siamo già finiti male, che non c’è un “altrimenti”, e che nel baratro ci stiamo già, e da tempo. E quindi, o ci tiriamo fuori da soli, e subito, oppure ci tiriamo fuori da soli subito.
Cioè a dire, non ci sono alternative. Chiedere i soldi all’Unione europea, invocando una solidarietà che non esiste e che non ci può essere nei confronti di un Paese che ha il risparmio privato tra i più alti al mondo (è quasi il doppio del debito pubblico) è tempo perso; da questo punto di vista, purtroppo, non ha tutti i torti chi ci rinfaccia questa nostra caratteristica dicendoci prendete i soldi a casa vostra.
Ma c’è di più: chiedere i soldi in prestito, ammesso che ce li diano (e non ce li daranno) significa fare altri debiti. Niente di peggio per chi sta già messo molto male. Se poi li chiedi a chi sai che non te li dà, allora sei poco lungimirante, perdi tempo, e fai anche la figura del pezzente.
I temi sono tanti, vediamo di riassumerli in poche righe.
1) Liquidità subito
2) La Ue che non consente di crearla, perlomeno nell’immediato
3) L’accumulo di altri debiti su un debito stratosferico
4) Il sistema bancario italiano
Parto da quest’ultimo punto: se i soldi vengono dati alle banche, chi ne ha veramente bisogno li vedrà con il cannocchiale. Il perché lo sappiamo tutti ed è inutile dilungarsi su cose conosciute. Chiaro, quindi, che chiedersi queste cose non serve a nulla e che bisogna proporre invece di attendere. Cosa? Una patrimoniale o “reddimoniale”? Per carità di Dio, rischieremmo di far fallire le banche e le assicurazioni in cui sono investiti i risparmi dei giusti, e di incentivare il nero. Facciamo qualche considerazione semplice.
1) L’Italia ha avuto il suo boom economico negli anni ’50 e ’60 non per la (relativa) bravura di una miriade di governi che si sono avvicendati alla guida di questo Paese, ma prevalentemente grazie ai soldi che gli americani hanno investito in Italia.
2) Le multinazionali, che piaccia o no al più accanito comunista, hanno creato aziende e posti di lavoro.
3) L’Italia è il Paese geograficamente, e non solo, più importante del Mediterraneo.
4) L’Italia è parte (essenziale) della Nato.
5) Gli Stati Uniti sono la più grande democrazia occidentale, e hanno un senso del business senza pari. Mi verrebbe da dire che se proprio dovessimo avere un creditore, meglio loro che altri; e certamente, with all due respect, non la Cina o altri Paesi ex comunisti. Non perché non ci possano stare simpatici, senza offesa per Di Battista, ma semplicemente perché sarebbe la scelta meno attenta da parte di un Paese membro dell’Ue e parte della Nato.
E allora? Prima riflessione, scontata. I soldi li prendi da chi ce li ha e sai che te li può dare. Seconda. Se possibile, non li prendi a debito, ma con formule più intelligenti. Bene. Dove stanno i soldi? In Italia, a parte la solita Cassa Depositi e Prestiti, che non è un pozzo senza fondo, nei Fondi Pensione e negli istituzionali, cioè nelle Casse di Previdenza; e, in parte, nei fondi di private equity, molti dei quali stanno aspettando che il mercato crolli completamente per comprare a prezzi di realizzo. Negli ultimi anni in molti hanno parlato di investimenti da parte di questi enti nell’economia reale, soprattutto dei Fondi Pensione. Tanti convegni (io stesso ne ho organizzato più di uno), tante parole, e pochi risultati, perché la normativa è ancora troppo limitativa per consentire che i soldi dei lavoratori vadano ai lavoratori. In America, i soldi (quelli veri) stanno in quegli stessi enti e in realtà più o meno simili nella sostanza operativa. I grandi fondi di private equity sono americani, a parte quelli sovrani che sono una cosa diversa.
È per questo che mi permetto, con umiltà, ma senso pratico, di immaginare una soluzione. Immaginiamo di creare un veicolo ad hoc (in gergo SPV), nel quale i grandi investitori istituzionali americani e, sperabilmente, anche quegli italiani, mettano i soldi di cui abbiamo bisogno. Questo veicolo dovrebbe operare in proprio, e non attraverso le banche. Come? In due modi. Facendo “credito di filiera” e in parallelo sottoscrivendo “bonds di filiera”, o emessi dalle aziende che possono, a tassi agevolati e a scadenze temporali tipiche di un periodo drammatico come quello che stiamo vivendo. Con un’ulteriore caratteristica: i bonds dovrebbero essere convertibili, a un certo punto, in capitale di rischio. Cioè: mi indebito oggi, ma prima o poi quel debito lo porto a capitale, dando un pezzetto della mia azienda a un investitore istituzionale. Il principio è semplice: meglio avere un socio di minoranza che non interferisce nella gestione aziendale quotidiana, che un creditore che prima o poi mi chiede di rientrare.
Il credito di filiera. Altra storia, altrettanto semplice. Se ho una fattura da mettere all’incasso, devo aspettare 30, 60, 90, 120 giorni o forse Godot, che per dirla con Beckett non arriva mai. Non necessariamente perché il mio debitore è un cattivone, ma perché è più che probabile che non abbia i soldi per pagarmi. Se invece di aspettare Godot, mi faccio liquidare il credito a vista da un soggetto partecipato da investitori istituzionali, prendo danaro e lo metto in circolo. E oltre a incentivare chi lavora, perché se lavora fattura e se fattura viene pagato, faccio emergere anche il nero, che tanti criticano ma tanti continuano a fare. Troppo semplice? A parte l’ironia, dovrebbe funzionare.
Una facile domanda: perché un investitore o una moltitudine di investitori dovrebbero mettere i soldi in un veicolo del genere? Perché in cambio potrebbero emettere carta commerciale e venderla, facendola girare sul mercato. Come si fa con le cartolarizzazioni, salvo che in questo caso il sottostante non sarebbe “junk”, cioè robaccia come i crediti deteriorati, ma roba buona. Il punto è: chi può garantire gli investimenti nel veicolo di liquidità fatti dagli istituzionali? La risposta è, gli stessi soggetti italiani che oggi garantiscono quei finanziamenti che “dovrebbero” poi erogare le banche. E, se non è una bestemmia, ma in periodi di guerra ci sta tutto come concetto, magari anche in larga parte un terzo stato sovrano. Cioè, tra tutti, non la Ue, che stato non è; ma si potrebbe immaginare che siano proprio gli Stati Uniti. Meglio chiedere una garanzia, che i soldi direttamente. E meglio gli americani che altri. Non per uno, seppur sacrosanto, spirito occidentalistico, ma perché in passato i soldi in Italia ce li hanno messi loro, perché siamo parte dell’alleanza Nato e perché è più facile parlare inglese che decifrare un ideogramma o un carattere cirillico, in tutti i sensi e non solo in quello linguistico. Dicendo quindi alla Ue: grazie, mi sono organizzato diversamente. Con il rischio, per la Ue, che magari questo schema venga ripreso anche dalla Spagna o vivaddio dalla Francia, dando scacco matto in modo educato e tecnico a chi oggi ci tratta come pezzenti. Forse in futuro potrebbero anche darsi una regolata, preso atto di qualcosa che oggi né a Berlino né altrove nessuno si aspetta.
È chiaro che una soluzione di questo genere postula, anzi presuppone, un intervento legislativo ad hoc, e per certi aspetti dirompente, per far sì che le norme ne consentano l’adozione. È altrettanto vero, però, che in tempi di guerra (l’espressione non è mia ma fin troppo usata ed abusata dai politici in questi giorni) si fanno leggi speciali e si adattano le normative alle circostanze che la guerra comporta.
Un’ultima considerazione: il problema, e quindi il dramma, non lo vivremo a maggio o giugno, perché qualche soldo ci sarà ancora in giro, ma a ottobre e nei mesi successivi, perché la vera stagnazione si creerà allora, non essendo stati messi in circolo soldi nei mesi precedenti. A meno che non ci si muova subito. Il tema va approfondito, perché gli aspetti tecnici non sono pochi, ma a condizione che ci sia qualcuno che ascolti, invece di parlare.
Intervento dell’avvocato professor Alessandro Varrenti (fonte Atlanticoquotidiano.it)