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2020/05/09

La Cina si allontana



Dobbiamo affrontare seriamente il problema dei rapporti con la Cina sia per quanto riguarda gli aspetti commerciali e strategici sia per capire come sia nato ed evoluto il Coronavirus. Questo non solo per delineare le eventuali responsabilità cinesi, ma soprattutto per il nostro futuro visto che è l’ennesima epidemia che “parte” dalla Cina, segno evidente che qualcosa lì non funziona.

Non mi interessano le spy story ma i fatti, ed è per questo che la comunità internazionale dovrebbe avviare una indagine seria su cosa sia successo e sui protocolli esistenti per capire perché eventualmente non siano stati osservati.

Un’indagine che cominciano a chiedere con sempre più insistenza non solo gli USA ma anche India, Australia, Francia, Gran Bretagna, Giappone, Germania ma non l’Italia che – soprattutto da quando comanda il M5S – sembra nutrire un inspiegabile sudditanza psicologica nei confronti di Pechino.

Non si può andare avanti con il silenzio: com’è possibile che Wuhan abbia visto migliaia di morti e praticamente nessuno sia stato invece registrato nelle altre megalopoli cinesi, a cominciare dalla capitale? Il virus girava già dall'autunno come sembra e perchè comunque poi due mesi di silenzio, con settimane cruciali perse per allertare il mondo nel tentativo di minimizzare se non di nascondere tutto, addirittura arrestando i medici che denunciavano l’epidemia?

Se il 27 dicembre in Cina era già stato sequenziato il genoma del virus, perché Pechino ha allora fornito successivamente dati falsati e fuorvianti, perché è stato ignorato dall’OMS l’allarme ufficialmente lanciato da Taiwan già a dicembre?

La realtà è che nessuno sa cosa effettivamente sia successo in Cina, quanti siano stati veramente i morti e i contagiasti, la nostra TV mostra solo immagine “concesse”, la corrispondente Rai da Pechino, l’ineffabile Giovanna Botteri (quella tutta scarmigliata che sembra non si cambi mai il solito golfino nero da settimane)  sproloquia di tutto – comprese le polemiche con Trump - ma non può (o non vuole) girare nelle strade. E’ questa la nostra libertà di informazione o siamo succubi di quel che vuole "passi" Pechino?

Non credo all’ipotesi del virus “voluto” e non so se sia credibile la sua volontaria nascita in laboratorio, ma ho visto di persona le condizioni igieniche schifose nei mercati cinesi in una promiscuità agghiacciante e tollerata.

Che Pechino non voglia ispezioni e controlli non va bene, dovrebbe essere l’OMS a pretenderle con forza, ma qui salta fuori l’altro aspetto della medaglia ovvero l’infiltrazione pesante della Cina comunista in tutte le organizzazioni internazionali. L’Occidente scopre solo ora che da anni Pechino semina, sfrutta, convince, compra cariche e interi paesi approfittando della tacita distrazione mondiale.

Trump potrà esservi antipatico e sembrare a volte un fuori di testa, ma ha capito bene che il silenzio generale permette alla Cina di continuare ad espandersi senza regole e senza freni in tutti i campi – compreso lo sfruttamento ambientale, guarda caso così dimenticato dalle Greta di turno - e questo grazie al completo controllo interno e l' incredibile connubio tra comunismo, statalismo e sfrenato capitalismo da libero mercato.

Per esempio è assurdo che Taiwan resti fuori dall’OMS nonostante i suoi avanzati risultati medici e la sua importanza: Non solo gli USA ma ora anche Canada, Australia, Giappone e tanti altri stati (ovviamente non l’Italia) ne chiedono il ritorno (ne faceva parte fino al 2016), ma è Pechino che evidentemente comanda.

Anziché prendere in giro Trump chiediamoci perché gli USA abbiano taciuto per anni – per esempio durante le presidenze Obama - nei confronti della Cina e vedremo che, alla fine, il grande business economico e finanziario è accentrato in poche mani, con solide radici nei Democratici USA ovvero quelli che sono direttamente collegati ai grandi poteri finanziari che controllano il mondo, Soros e multinazionali  in testa.

Ma torniamo all’Italia: perché questo silenzio, perché quell’ ochetta di Di Maio non vuole capire la pericolosità del gioco? Comincio a pensare che sotto sotto ci siano interessi economici molto stretti tra Cina, Casaleggio, M5S che ci rendono sempre di più una colonia diplomatica cinese, una testa di ponte di Pechino in Europa e questo non va bene, non è logico, è davvero pericoloso.

Uscendo dalla superficialità il dibattito politico dovrebbe incentrarsi anche su questo aspetto strategico con atteggiamenti chiari e concordati.

Certo bisognerebbe però per lo meno capire i rischi queste politiche: Di Maio ne è in grado? Sintetizzava bene Marcello Veneziani nei giorni scorsi:

“Nella cupola mondiale che detiene il potere mediatico e tecno-finanziario, prevale una priorità: sollevare la Cina dalle sue colpe sul contagio e puntare sul crollo di Trump. È un messaggio continuo che si compiace di sottolineare le difficoltà degli USA e collegarle a ogni gaffe di Trump. In lui si avversa non solo l’egemonia americana quanto il modello populista-sovranista. Abbattendo lui, si pensa, si abbatte il sovranismo diffuso.

Ma oltre Trump le valutazioni poi si dividono: perché una parte vorrebbe restare ancorata al mondo liberal d’Occidente, agli USA politically correct, alla Obama, per capirci. Mentre un’altra parte confida nella Cina o perlomeno giudica utile che il potere globale della Cina bilanci quello statunitense e tenga sotto scacco quello di Putin. Da noi, il partito grillino coincide col partito cinese, da Di Maio a Di Battista, a Grillo; e una parte della sinistra lo segue, in odio a Trump, per amor di capitalismo di stato, ma anche perché filocinese dai tempi di Prodi, poi i gesti di Zingaretti & C, per aprire ai cinesi nonostante l’epidemia. Sullo sfondo risale la tentazione di un comunismo 2.0, un comunismo 5G, maocapitalista, tecnologicamente evoluto, dal controllo capillare e dal reddito universale di cittadinanza per i servi della gleba, anzi servi della global, intesa come globalizzazione. “Il modello italiano” sbandierato per affrontare il virus è in realtà il modello cinese gestito all’italiana.”


2020/05/06

Italia all'ultima spiaggia



Sennò finiamo male… Altrimenti rischiamo di… Siamo sull’orlo del baratro… With all due respect, come si direbbe in un inglese politically correct, tutte chiacchiere di chi dovrebbe sapere che mentre il medico studia, il malato muore. La verità è che siamo già finiti male, che non c’è un “altrimenti”, e che nel baratro ci stiamo già, e da tempo. E quindi, o ci tiriamo fuori da soli, e subito, oppure ci tiriamo fuori da soli subito. 

Cioè a dire, non ci sono alternative. Chiedere i soldi all’Unione europea, invocando una solidarietà che non esiste e che non ci può essere nei confronti di un Paese che ha il risparmio privato tra i più alti al mondo (è quasi il doppio del debito pubblico) è tempo perso; da questo punto di vista, purtroppo, non ha tutti i torti chi ci rinfaccia questa nostra caratteristica dicendoci prendete i soldi a casa vostra. 

Ma c’è di più: chiedere i soldi in prestito, ammesso che ce li diano (e non ce li daranno) significa fare altri debiti. Niente di peggio per chi sta già messo molto male. Se poi li chiedi a chi sai che non te li dà, allora sei poco lungimirante, perdi tempo, e fai anche la figura del pezzente.

I temi sono tanti, vediamo di riassumerli in poche righe.

1) Liquidità subito
2) La Ue che non consente di crearla, perlomeno nell’immediato
3) L’accumulo di altri debiti su un debito stratosferico
4) Il sistema bancario italiano

Parto da quest’ultimo punto: se i soldi vengono dati alle banche, chi ne ha veramente bisogno li vedrà con il cannocchiale. Il perché lo sappiamo tutti ed è inutile dilungarsi su cose conosciute. Chiaro, quindi, che chiedersi queste cose non serve a nulla e che bisogna proporre invece di attendere. Cosa? Una patrimoniale o “reddimoniale”? Per carità di Dio, rischieremmo di far fallire le banche e le assicurazioni in cui sono investiti i risparmi dei giusti, e di incentivare il nero. Facciamo qualche considerazione semplice.

1) L’Italia ha avuto il suo boom economico negli anni ’50 e ’60 non per la (relativa) bravura di una miriade di governi che si sono avvicendati alla guida di questo Paese, ma prevalentemente grazie ai soldi che gli americani hanno investito in Italia.
2) Le multinazionali, che piaccia o no al più accanito comunista, hanno creato aziende e posti di lavoro.
3) L’Italia è il Paese geograficamente, e non solo, più importante del Mediterraneo.
4) L’Italia è parte (essenziale) della Nato.
5) Gli Stati Uniti sono la più grande democrazia occidentale, e hanno un senso del business senza pari. Mi verrebbe da dire che se proprio dovessimo avere un creditore, meglio loro che altri; e certamente, with all due respect, non la Cina o altri Paesi ex comunisti. Non perché non ci possano stare simpatici, senza offesa per Di Battista, ma semplicemente perché sarebbe la scelta meno attenta da parte di un Paese membro dell’Ue e parte della Nato.

E allora? Prima riflessione, scontata. I soldi li prendi da chi ce li ha e sai che te li può dare. Seconda. Se possibile, non li prendi a debito, ma con formule più intelligenti. Bene. Dove stanno i soldi? In Italia, a parte la solita Cassa Depositi e Prestiti, che non è un pozzo senza fondo, nei Fondi Pensione e negli istituzionali, cioè nelle Casse di Previdenza; e, in parte, nei fondi di private equity, molti dei quali stanno aspettando che il mercato crolli completamente per comprare a prezzi di realizzo. Negli ultimi anni in molti hanno parlato di investimenti da parte di questi enti nell’economia reale, soprattutto dei Fondi Pensione. Tanti convegni (io stesso ne ho organizzato più di uno), tante parole, e pochi risultati, perché la normativa è ancora troppo limitativa per consentire che i soldi dei lavoratori vadano ai lavoratori. In America, i soldi (quelli veri) stanno in quegli stessi enti e in realtà più o meno simili nella sostanza operativa. I grandi fondi di private equity sono americani, a parte quelli sovrani che sono una cosa diversa.

È per questo che mi permetto, con umiltà, ma senso pratico, di immaginare una soluzione. Immaginiamo di creare un veicolo ad hoc (in gergo SPV), nel quale i grandi investitori istituzionali americani e, sperabilmente, anche quegli italiani, mettano i soldi di cui abbiamo bisogno. Questo veicolo dovrebbe operare in proprio, e non attraverso le banche. Come? In due modi. Facendo “credito di filiera” e in parallelo sottoscrivendo “bonds di filiera”, o emessi dalle aziende che possono, a tassi agevolati e a scadenze temporali tipiche di un periodo drammatico come quello che stiamo vivendo. Con un’ulteriore caratteristica: i bonds dovrebbero essere convertibili, a un certo punto, in capitale di rischio. Cioè: mi indebito oggi, ma prima o poi quel debito lo porto a capitale, dando un pezzetto della mia azienda a un investitore istituzionale. Il principio è semplice: meglio avere un socio di minoranza che non interferisce nella gestione aziendale quotidiana, che un creditore che prima o poi mi chiede di rientrare.

Il credito di filiera. Altra storia, altrettanto semplice. Se ho una fattura da mettere all’incasso, devo aspettare 30, 60, 90, 120 giorni o forse Godot, che per dirla con Beckett non arriva mai. Non necessariamente perché il mio debitore è un cattivone, ma perché è più che probabile che non abbia i soldi per pagarmi. Se invece di aspettare Godot, mi faccio liquidare il credito a vista da un soggetto partecipato da investitori istituzionali, prendo danaro e lo metto in circolo. E oltre a incentivare chi lavora, perché se lavora fattura e se fattura viene pagato, faccio emergere anche il nero, che tanti criticano ma tanti continuano a fare. Troppo semplice? A parte l’ironia, dovrebbe funzionare.

Una facile domanda: perché un investitore o una moltitudine di investitori dovrebbero mettere i soldi in un veicolo del genere? Perché in cambio potrebbero emettere carta commerciale e venderla, facendola girare sul mercato. Come si fa con le cartolarizzazioni, salvo che in questo caso il sottostante non sarebbe “junk”, cioè robaccia come i crediti deteriorati, ma roba buona. Il punto è: chi può garantire gli investimenti nel veicolo di liquidità fatti dagli istituzionali? La risposta è, gli stessi soggetti italiani che oggi garantiscono quei finanziamenti che “dovrebbero” poi erogare le banche. E, se non è una bestemmia, ma in periodi di guerra ci sta tutto come concetto, magari anche in larga parte un terzo stato sovrano. Cioè, tra tutti, non la Ue, che stato non è; ma si potrebbe immaginare che siano proprio gli Stati Uniti. Meglio chiedere una garanzia, che i soldi direttamente. E meglio gli americani che altri. Non per uno, seppur sacrosanto, spirito occidentalistico, ma perché in passato i soldi in Italia ce li hanno messi loro, perché siamo parte dell’alleanza Nato e perché è più facile parlare inglese che decifrare un ideogramma o un carattere cirillico, in tutti i sensi e non solo in quello linguistico. Dicendo quindi alla Ue: grazie, mi sono organizzato diversamente. Con il rischio, per la Ue, che magari questo schema venga ripreso anche dalla Spagna o vivaddio dalla Francia, dando scacco matto in modo educato e tecnico a chi oggi ci tratta come pezzenti. Forse in futuro potrebbero anche darsi una regolata, preso atto di qualcosa che oggi né a Berlino né altrove nessuno si aspetta. 

È chiaro che una soluzione di questo genere postula, anzi presuppone, un intervento legislativo ad hoc, e per certi aspetti dirompente, per far sì che le norme ne consentano l’adozione. È altrettanto vero, però, che in tempi di guerra (l’espressione non è mia ma fin troppo usata ed abusata dai politici in questi giorni) si fanno leggi speciali e si adattano le normative alle circostanze che la guerra comporta. 

Un’ultima considerazione: il problema, e quindi il dramma, non lo vivremo a maggio o giugno, perché qualche soldo ci sarà ancora in giro, ma a ottobre e nei mesi successivi, perché la vera stagnazione si creerà allora, non essendo stati messi in circolo soldi nei mesi precedenti. A meno che non ci si muova subito. Il tema va approfondito, perché gli aspetti tecnici non sono pochi, ma a condizione che ci sia qualcuno che ascolti, invece di parlare.

Intervento dell’avvocato professor Alessandro Varrenti (fonte Atlanticoquotidiano.it)

2020/04/30

Diteci la verità!



Sono sempre più deluso, preoccupato ed arrabbiato: le settimane passano tra un mare di chiacchiere e intanto l’Italia fallisce.  Conte parla a reti unificate senza dire praticamente nulla e “gli scienziati” - che non rischiano un’unghia del proprio reddito – giustificano il rinvio delle aperture, insensibili verso la realtà di un Paese dove la maggior parte delle persone non ha ancora capito verso quale disastro siamo diretti.

Soprattutto ci contano delle gran balle con numeri quotidiani ingestibili se non si fanno  tamponi e test statistici a tappeto. Intanto per esempio pochi sanno che – a fronte di 12.352 decessi a marzo per il coronavirus - l’anno scorso (fonte ISTAT) c’erano stati 15.189  morti in Italia per polmoniti (16.220 nel 2018) che quest’anno non ne risultano praticamente più: come si spiega?

Questo solo per dire che i numeri si girano come si vogliono, ma intanto un fatto inequivocabile e vero è che a 60 giorni dall’inizio della pandemia le aziende italiane dai 2 ai 499 dipendenti non hanno ancora visto un euro e per i finanziamenti fino a 25.000 euro risultano a ieri accettate (non liquidate!) 28.500 pratiche su centinaia di migliaia in giacenza.  

Avete notato il balletto sul MES durato settimane con  tutto che poi torna in silenzio dopo la affermata (da Conte) “impensabile grande vittoria in Europa”? Balle, il silenzio è per non far ricordare il voltafaccia 5Stelle agli elettori e salvare il governo, ma i soldi “veri” non ci sono, è tutta una manovra a debito e intanto il nostro debito pubblico sta in piedi perché solo la Banca Centrale Europea sta comprando (per fortuna) tonnellate di miliardi di titoli di stato italiani sperando nel MES, mentre la platea delle chiusure incombe.

Tranquilli, comunque, non arriverà la Troika alla greca ma solo “Una vigilanza rafforzata” da parte di Bruxelles: le parole sono tutto, non conta mai la sostanza.

Questo mi brucia: oltre al quotidiano bollettino sanitario delle ore 18 servirebbe un onesto “bollettino economico” di come si stia procedendo: dicano quanti finanziamenti siano liquidati al giorno, se non si vergognano…

Perché gli “scienziati” parlano, tanto loro non rischiano: “Se si aprisse subito potremmo arrivare a 151.000 ricoverati in terapia intensiva” ci dicono, ma non ci spiegano  perché proprio quel numero, ma se lo dice Conte lo riprendono i media e allora tutto diventa vero.

Intanto lo stesso Premier si precipita a Genova ad inaugurare “l’innalzamento dell’ultima campata del ponte” – ennesima passerella per un’opera pubblica che sulla pelle di 43 persone ha già goduto di una decina di festeggiamenti parziali - e intorno a lui si notava in TV una gran ressa di gente. Conte ha parlato (senza mascherina!) dei soliti futuri, immancabili destini.

Tutto in evidente spregio ai decreti ma Lui può, noi no: perfino le Messe ci sono vietate!

Atteggiamenti assurdi, così come nessuno sembra rendersi conto che sono stati superati tutti i limiti costituzionali, ma è “per l’emergenza” e allora va bene così. Sfugge il particolare  che nessuno ha eletto Conte, così come gli scienziati, i comitati, gli esperti che di fatto dirigono l'Italia. Se questo atteggiamento fosse stato tenuto da un governo di centro-destra sarebbero saliti ululati di lesa maestà costituzionale.

Ma intanto il parlamento è esautorato, la colpa è delle regioni e tanto il prode presidente Mattarella,  firma sempre tutto.

Restano però aperte tutte le domande drammatiche, vere, mai neppure sfiorate da mille (inutili) dibattiti. Per esempio chi controlla i conti della Protezione Civile o come si spendono milioni di euro “per l’emergenza”, oppure perché siamo così indietro con tamponi e controlli.

Insisto:  se in una qualsiasi attività si osservano le prescrizioni e le distanze perchè non si può e non si deve ricominciare a lavorare? Ditemi perché deve star chiuso chi vende mobili, oppure un orefice, un avvocato, una sarta, una pasticceria (però i dolci al supermercato e in panetteria puoi comprarli). I “Comitati tecnici” di Conte sono ben lontani dalla praticità dei problemi ed è ora che insorgano con più forza tutte le associazioni di categoria che purtroppo non vengono ascoltate.

E se tutti – ovviamente muniti di mascherine ed osservando le distanze – dal 4 maggio semplicemente ci ribellassimo alle imposizioni e cominciassimo a muoverci e a lavorare liberamente? Sarebbe davvero una criminale sfida allo Stato ? Direi semplicemente un rifiuto a quei suoi rappresentanti che a due mesi dall’inizio del caos dimostrano - e ogni giorno confermano - di non essere all’altezza della situazione.

2020/04/29

La stupidità uccide più del virus

La stupidità uccide più del virus. La nostra società è basata sulla vicinanza sociale.

Ho pubblicato gli sfoghi di due commercianti tra le migliaia di quelli che si trovano sul web perché si tocchi con mano come questo governo stia portando il paese al disastro.
Un governo di arroganti buffoni incompetenti che si ostina a non voler accettare la realtà. A non conoscere il funzionamento dell'economia del proprio paese.

Gli stipendi dei dipendenti di tutto il comparto pubblico sono pagati dalle tasse che sono a loro volta conseguenza dei ricavi fatti dal comparto privato.
Un comparto composto da attività professionali, industriali e commerciali, tutte tra loro interdipendenti.
Partendo dal settore commerciale, ci sono centinaia di migliaia di attività che si basano sulla vicinanza sociale, l'opposto della distanza.

Bar, ristoranti, parrucchieri, estetisti, palestre, alberghi, abbigliamento, mercatini,... sono centinaia di migliaia. Il distanziamento sociale mina alla radice la possibilità di sopravvivenza di queste attività. Perché, anche aprendo le attività, i ricavi crollano e non possono neanche lontanamente coprire i costi fissi, che sono i costi degli affitti, delle utenze, i costi amministrativi. In queste condizioni, dopo i debiti accumulati da due mesi di inattività, la maggior parte del settore non può sopravvivere ed è destinata al fallimento.

Il fallimento di un intero settore si propaga come uno tsunami su quello industriale, sulle attività professionali, sui servizi.

Quando tutta l'economia privata è in ginocchio, è la fine anche per quella pubblica.
Lo stato non ha un suo patrimonio, non crea posti di lavoro. TUTTI dipendono dall'economia privata. Anche le forze di polizia, che, quando diventano repressive, si accaniscono su chi paga loro lo stipendio.

Alla base della piramide, quindi, c'è la vicinanza sociale. È un fatto. È questa che permette al paese di sopravvivere. Questi assurdi discorsi di chi dice che dobbiamo cambiare i nostri stili di vita sono fatti da imbecilli che non sanno leggere la realtà delle cose.

Chi fa passare l'idea che un drastico distanziamento sociale sia inevitabile e durerà a lungo, è portatore di un'idea che ucciderà milioni di individui. Sta attivamente collaborando a compiere una strage. Non importa quante vite salverà dalla pandemia, ne ucciderà molte di più.

I media sono complici di una classe politica di stupidi vigliacchi inetti. Se realmente volessero salvare le persone dovrebbero fare l'opposto di quello che hanno fatto e stanno facendo, buttare acqua sul fuoco, rassicurare le persone. La malattia uccide, la stupidità uccide di più.

C'è la tendenza a credere che i mercati liberi e la cooperazione funzionino, tranne in situazioni difficili o "complesse" che richiedono l'intervento dello stato. Il grande Leonard Read (l'economista libertario che ha fondato la Foundation for Economic Education) vide il difetto in questo modo di pensare. Più complessa è l'economia, la società o la situazione, più dovremmo fare affidamento sui processi miracolosi e autoadattanti degli uomini che agiscono liberamente.

Quando poi lo stato è gestito da burocrati ottusi, la tragedia è inevitabile. Un governo che rifiuta la realtà deve essere spazzato via a qualunque costo.


Scritto da Aurelio Mustacciuoli su facebook.

Coronavirus, le prove (definitive?) contro la teoria del laboratorio



L'immagine mostra ambedue i presidenti di Stati Uniti e Cina. 
Perché ho inserito questa fotografia e non una del virus? 

Semplicemente le ragioni sono da ricercarsi nel continuo rimbalzo di responsabilità o colpe che i paesi rappresentati dai due presidenti si rinfacciano l'un l'altro. Con questa analisi basata su dati reali e verificati, certo non definitivi ma siamo molto vicini alla verità, si chiude il cerchio delle polemiche e viene fissata un'origine naturale e non elaborata in qualche laboratorio.
 
Ovviamente il virus si è formato in un ambiente favorevole come lo sono i mercati come li si trova in molti paesi asiatici. Ho visto personalmente mercati in Vietnam dove animali vivi in attesa di macellazione vengono sistemati in ambienti scarsamente igienici. La possibilità che si sviluppi una forma virologica in quelle condizioni è molto alta, questa volta è toccato alla Cina, la prossima chissà...

Coronavirus, le prove (definitive?) contro la teoria del laboratorio

Origine (non a Wuhan), tempi (ben prima di gennaio), genetica: le nuove acquisizioni scientifiche contro le teorie del complotto offrono l’occasione per riassumere quanto sappiamo su SARS-CoV-2
I tanti Napalm 51 dell’infosfera — i veri protagonisti dell’infodemia in corso — hanno in questa fase ottimi sostegni: l’Amministrazione di quella che resta, chissà per quanto, la superpotenza egemone (leggi le dichiarazioni del 15 aprile del Segretario di Stato Mike Pompeo, con tanto di indagine dell’intelligence annunciata); altri governi occidentali, anche se con posizioni più sfumate (Macron); un Nobel della Medicina (Luc Montagnier), il cui totale (e ormai pluridecennale) discredito presso la comunità scientifica può venire letto da alcuni — a rovescio — come una forma di eresia illuminata; un certo numero di «addetti ai lavori», ben compendiati in un’inchiesta di Jeanna Bryner per Live Science.

L’occasione mancata dei complottisti

La tesi di fondo è nota: l’agente patogeno SARS-CoV-2 (alla base della sindrome Covid-19) potrebbe essere «scappato al controllo» del «laboratorio» di Wuhan (in realtà il locale Istituto di Virologia). Nella versione hard, il virus sarebbe stato deliberatamente «manipolato ad hoc» prima di venir liberato come arma biologica; in quella soft, tutto si limiterebbe alla «fuga» (di quale «versione» del virus nessuno precisa) per un deficit tecnico-procedurale incompatibile col livello di «massima sicurezza» (BL4) in cui è inscritto l’Istituto. Varianti patafisiche di queste ore (vedi il Figaro): la condizione socioeconomica disperata di certi ricercatori dell’Istituto, che avrebbero venduto «cavie infettate» ai wet markets (i mercati di animali selvatici, già volàno di altri patogeni come la Sars) per integrare le loro magre retribuzioni. Risultato, come ricorda il biologo/immunologo Eric Muraille dell’Fnrs di Bruxelles in un intervento per Sud Ouest, il 23% degli americani e il 17% dei francesi crede ciecamente a quella tesi (ma sono percentuali in crescita).

Nell’intento — didatticamente e «politicamente» nobile — di contro-argomentare e smantellare quella tesi, Muraille sembra fornire paradossalmente carburante ai complottisti; di più, dar loro la possibilità di spingere l’acceleratore fino in fondo. Oltre ad argomenti tecnici specifici, di ordine virologico e genetico/genomico (su cui si tornerà più avanti), riconosce infatti — con la trasparenza insita nel metodo scientifico — l’effettiva fallibilità di Istituti e laboratori; quindi, alimenta la legittimità di diffidenze e sospetti, specie verso gli oltre 30 laboratori BL4 oggi sparsi per il mondo. In generale, Muraille ricorda da un lato come la Convenzione dell’aprile 1972 (che vieta messa a punto, fabbricazione e stoccaggio di armi-batteriologico-biologiche) sia stata oggetto di diverse violazioni, su tutte quella sovietica, con la continuazione di programmi di ricerca in tema (il famoso Biopreparat) anche a Convenzione firmata; dall’altro come gli «incidenti» si siano susseguiti lungo la Guerra Fredda e oltre. Vedi, tra gli altri, i due legati all’antrace: quello di Sverdlovsk del ’79 (66 morti per il carbonchio provocato dalla fuga della «spora»); e quello del settembre 2001, in un primo momento attribuito a Al Qaeda e invece opera del microbiologo Bruce Irvins del BL4 dell’Us Army (5 morti e 17 intossicati). In particolare, rievoca invece una sequenza misconosciuta o rimossa: l’unico precedente di «incidente» in tema di coronavirus, proprio in terra cinese, quando — alla fine della recidiva di Sars, il 22 aprile 2004 — due studenti dell’Istituto Nazionale di Virologia di Pechino (Nivl), originari dell’Anhui, contraggono la malattia, contagiando congiunti e colleghi (un’infermiera), per un totale di 9 casi (e un morto). Il 23 — come documenta il rapporto dettagliato del Cnc di Atlanta — l’Istituto viene chiuso e tutto rientra, poco prima dell’archiviazione cinese della Sars (18 maggio). Ma l’episodio — rafforzato dagli antefatti storici appena evocati — sembra tagliato su misura per fare da «precedente» dell’«incidente» di Wuhan. Strano non sia stato ancora utilizzato: forse altri elementi della trama si presentano più conturbanti e quindi più funzionali.

Batwoman

È tornata prepotentemente in primo piano, in questi giorni — col riaffiorare della teoria complottista — la figura di Shi Zhengli, la 55 enne virologa specializzata nello studio del genoma dei pipistrelli e, soprattutto, responsabile del Centro malattie infettive dello stesso Istituto di Wuhan. Come un Giano sottoposto a due visioni deformanti, Shi è idealizzata per un verso come una vittima inerte del Partito e della Dittatura: decifrato il genoma di SARS-CoV- 2 in tre giorni, avrebbe visto i suoi risultati occultati e le sarebbe stata «messa la museruola», fino a una specie di silenziamento punitivo. Per un altro — proprio in ottica complottista — è vista come l’artefice luciferina dell’«incidente», o almeno come la responsabile della «fuga» del patogeno e della sua penetrazione prima a Wuhan e poi nel mondo. Qualche tratto di verità — come vedremo — traspare forse dalla prima delle due visioni deformanti; ma per avere un’idea credibile della sua persona e della sua parabola (umana e scientifica) bisogna ricorrere a contributi come quello esemplare di Jane Qiu su Scientific American (Le Scienze di marzo), magari integrandolo con qualche altra fonte.

Come arriva, Shi, alla sera del 30 dicembre 2019? Alla sera, cioè, in cui viene raggiunta da una chiamata del suo «capo» (la direttrice generale Wang Yanyi) che le ordina di lasciare subito Shanghai — dove sta partecipando a una conferenza — e di precipitarsi a Wuhan per esaminare i primi campioni di malati di Covid-19? Tutto comincia proprio durante la recidiva di Sars, nella primavera del 2004, quando — nell’ottica di approfondire l’epidemia più o meno scampata e di prevenirne di successive — una Shi 40enne raggiunge coi colleghi Nanning, popolosa città del Guangxi, regione che insieme alla confinante Yunnan e al celeberrimo Guangdong (capitale Guangzhou-Canton), costituisce quell’ampia area della Cina del sud-est in cui si concentrano vaste popolazioni di pipistrelli portatori di coronavirus. Quella prima spedizione lungo grotte «profonde e strette, su terreni ripidi» (rivestite di «colonne di calcare e stalattiti bianco-latte», ma spesso «fetide» all’olfatto) non sarà trionfale: appena una dozzina di chirotteri catturati in 30 cavità, col metodo delle reti disposte agli imbocchi delle caverne per bloccare la loro uscita notturna. Né andranno meglio quelle successive, se dopo otto mesi Shi e i colleghi non hanno ancora riscontrato presenza di coronavirus nei chirotteri. Interverrà, per fortuna, la serendipity, il «volto buono» del caso: utilizzando sui pipistrelli dei kit diagnostici impiegati di solito per testare gli anticorpi prodotti da pazienti umani, il gruppo di ricerca ne trova tre (tra i mitici «ferro di cavallo») con anticorpi specifici per la SARS, deducendone come la «presenza effimera e stagionale» del virus si traducesse in una reazione immunitaria estesa «da qualche settimana a qualche anno».

Da quel momento, per Shi e la sua equipe sarà un accumularsi di successi e acquisizioni, il tutto operando specialmente nello Shitou, sito dello Yunnan (in cui le grotte sono nascoste tra ridenti villaggi collinari noti per le rose, le arance, le noci e il biancospino) selezionato dopo aver rastrellato decine di province cinesi. Giusto per fissare qualche tappa-chiave: nel 2012- indagando sul «profilo virale» di una miniera nella contea montuosa di Mojiang (sempre Yunnan) scoprono che 6 minatori colpiti da polmonite atipica (2 moriranno) l’hanno contratta toccando un fungo cresciuto sul guano dei chirotteri locali (modalità di contatto da aggiungersi come variabile a quella dei wet markets); l’anno dopo trovano una sequenza genomica coincidente al 97% tra pipistrelli e zibetti, togliendo ogni dubbio sul nesso tra ospiti «serbatoio» e «intermedi» nella SARS; a ottobre 2015 scovano tra gli abitanti di un villaggio 6 individui (su 200, cioè il 3%) dotati di anticorpi simili a quelli della SARS nei pipistrelli stessi (a riprova di possibili «convivenze» asintomatiche); a fine 2016 intuiscono la presenza di un nuovo morbo legato alla dissenteria acuta (SADS) che stermina 25.000 maiali della zona, evento particolarmente preoccupante perché l’università di Zhejiang (sud-est, sotto Shanghai) ne vede la trasmissibilità verso roditori, polli, primati e umani; e nel 2019 (con studi-break su Viruses e Nature Review Microbiology) pubblicano degli «avvertimenti» su possibili coronavirus pandemici.

Torniamo così alla sera del 30 dicembre, quando Shi rientra al laboratorio chiamata dal suo superiore. D’impatto, proprio alla luce della sua lunga esperienza, si chiede se l’autorità sanitaria municipale «si stia sbagliando». Conoscendo cioè come nessuno le regioni potenziali di un innesco zoonotico, è incredula e disorientata («Non avevo mai pensato che una cosa del genere potesse succedere a Wuhan, nella Cina centrale»), costringendosi alla domanda cruciale: «Se i colpevoli erano i coronavirus, potevano essere arrivati dal nostro laboratorio?».

Da vera scienziata, sa che è altamente improbabile, ma non impossibile: e si infila così nella «settimana peggiore» della sua vita. Sedici anni di conoscenze convergono nelle verifiche a tappeto, in quattro tappe: genomi dei pazienti sottoposti alla reazione a catena della polimerasi (che riesce a rilevare un virus amplificando il suo materiale genetico); sequenziamento completo del genoma stesso; test degli anticorpi nei campioni di sangue; test sulla capacità del virus di contagiare gli umani in una capsula di Petri. In attesa degli esiti (in lunghe notti «senza chiudere occhio»), Shi riesamina anche, febbrilmente, tutta la documentazione sulla gestione dei «materiali sperimentali» per individuare eventuali errori o imperizie, specie nella fase di smaltimento.

Il 7 gennaio 2020, la sentenza liberatoria: nessuna delle sequenze genomiche analizzate corrisponde a quelle campionate dal suo team. Eppure, da quel momento, i suoi rapporti con le istituzioni si opacizzano (eufemismo) e la sua immagine si demonizza. Il 14 manda una mail ai collaboratori in cui comunica di aver accertato la trasmissione umana del virus (ma lo stesso giorno l’Oms la nega); e il 3 febbraio pubblica su Nature uno studio (in parte anticipato da un «report» del 23 gennaio) in cui analizza il coronavirus di pipistrello ferro di cavallo (il già mitico RaTG13) coincidente al 96% con quello umano che diverrà SARS-CoV-2, ma — o forse proprio per questo — diventa la «madre del diavolo». A poco serviranno le sue reazioni, tra rabbia e incredulità: «Giuro sulla mia vita che il virus non ha nulla a che vedere col laboratorio». 

Anziché concentrarsi sulle omissioni e i ritardi del Governo (su tutti: la «bomba biologica» del Capodanno lunare di Wuhan), una parte dei media e dell’opinione pubblica interna e internazionale elegge Shi e il suo laboratorio a innesco occulto della pandemia. Ancora in questi giorni, c’è chi invoca una sua «confessione». Così come a poco serviranno, a scagionarla, l’enorme credito di cui gode, riassunto in testimonianze come quella di James Le Duc, Direttore del Galveston National Laboratory, centro di biocontenimento ad alta sicurezza in Texas («È una superba scienziata e una persona squisita») e soprattutto, la prova che ha fornito e sta fornendo in questa pandemia. La condanna per lei e il suo laboratorio sembra senza appello. A meno che…

Dal pipistrello al pangolino, e ritorno

Secondo uno degli adagi ricorrenti, le «prove della scienza» sulla (o meglio contro la) tesi-ipotesi del coinvolgimento del laboratorio di Wuhan, in versione hard o soft (arma biologica o semplice «fuga») sarebbero scorporabili da eventuali «prove dell’intelligence», come se queste ultime avessero la possibilità di bypassare o addirittura confutare evidenze genetico-genomiche ed epidemiologiche. È forse il caso, allora, di ripercorrerle, quelle «prove» — o meglio acquisizioni — scientifiche, in un riassunto cronologico-tematico.

Il break — dopo il contributo di Shi — è l’ormai celebre studio su Nature Medicine del 17 marzo (ne ha riferito prontamente e in modo esemplare su questo giornale Edoardo Boncinelli) in cui si identifica il pangolino come possibile ospite «intermedio» tra l’ospite serbatoio o reservoir (il pipistrello) e l’uomo, dove per pipistrello si intende il citato «ferro di cavallo» dello Yunnan. Il pangolino della Malesia (Paese nella cui lingua si esprime l’etimo del suo nome, «colui che si appallottola») è infatti non solo uno dei cardini della medicina popolare cinese (per via delle sue scaglie taumaturgiche), ma anche uno dei piatti prediletti nella cucina glamour del sud-est.

Starebbe quindi a SARS-CoV-2 come lo zibetto (o civetta delle palme) alla prima Sars: e questo nonostante il suo commercio sia ufficialmente (ma blandamente) vietato dal 2016. Con una differenza: il genoma dello zibetto corrisponde a quello umano (SARS-CoV) al 99,8%; mentre la corrispondenza tra il coronavirus «respiratorio» del pangolino e quello umano non è tout court al 99%, ma al 90,3%; il 99 riguarda una sezione, peraltro decisiva, quella del receptor-binding domain o Rbd (dominio di legame al recettore) cioè quella in cui le punte (o spyke) del virus agganciano la cellula umana (nel dettaglio, il recettore angiotestin converting enzyme o Ace2) per entrarvi e utilizzarla per riprodursi. È questo il passaggio-chiave. Secondo gli studiosi di Nature quell’«affinamento» specifico della configurazione molecolare del virus dipenderebbe da una pressione selettiva (nel senso di selezione naturale per mutazioni random) esercitata nell’ospite intermedio o direttamente nell’uomo, a spillover avvenuto (lo si capirà in seguito); ed escluderebbe in modo categorico («irrefutably») un intervento di manipolazione in laboratorio.

Lo stesso Muraille, del resto, nella sua requisitoria citata in apertura, riassume e chiosa bene il tutto. Ricorda brutalmente — quanto alla manipolazione — come il genoma di SARS-CoV-2 non contenga «sequenze residuali» relative ai «sistemi vettoriali» usati nella prassi per il trattamento dei virus; mentre insiste — quanto alla semplice «fuga» — sul fatto che la versione del virus «scappata al controllo» avrebbe dovuto essere adattata all’uomo secondo la configurazione appena descritta, resa cioè «compatibile» con l’assetto dei recettori della cellula umana.

Ma siamo solo all’inizio. Uno dei co-autori più autorevoli dello studio di Nature (e di interventi subito successivi su Cell e Lancet) è il virologo evoluzionista inglese Edward C. «Eddie» Holmes, vecchia conoscenza dei lettori di Spillover di Quammen (che lo intervista ai tempi della Pennsylvania University) e ora accasato a Sydney, Charles Perkins Centre. Pochi padroneggiano come lui la materia dei virus a Rna e in particolare dei coronavirus, tanto che il suo testo-principe (The Evolution and Emergence of RNA Viruses, Oxford, 2008) rimane una delle pietre angolari sul tema. In tre interventi severi e misurati sul sito accademico (27 marzo, 9 e 16 aprile), Holmes affronta molti aspetti della pandemia in corso, partendo dal rimpianto drammatico per le lezioni inascoltate al tempo della SARS, fattore decisivo nell’attuale «buco nell’acqua». Richiama, quindi, la necessità di provvedere adesso a quegli aspetti a cui si sarebbe dovuto provvedere allora: su tutto, le azioni tempestive e consistenti sui wet markets e la ricerca — in prospettiva di altri shock pandemici — non solo di un vaccino, ma anche di «un antivirale universale», che pure al momento sembrerebbe poco meno di un Graal. In più, prende posizione sulla questione della manipolazione-fuga dell’agente patogeno. Invitando a «mettere tranquillamente a dormire la teoria del complotto» (e riconducendone la «comprensibile» esplosione all’abnormità dell’evento, del suo carattere eccezionalmente inusuale), Holmes torna ai tratti biologico-evoluzionistici, focalizzando un punto-chiave: il virus del pipistrello scoperto da Shi Zhengli (RaTG13) e SARS-CoV-2 mostrano un livello di «divergenza genomica» consistente in una distanza temporale media di 50 anni — e un minimo di 20 — di cambiamento evolutivo (selettivo). Un «effetto» di ricombinazione molto difficile da ottenere in laboratorio. E aggiunge due elementi: il pangolino resta l’«ospite intermedio» più probabile, ma non sono esclusi, nello stesso ruolo, altri animali; e Wuhan è probabilmente solo un crocevia in un’emersione epidemica «molto più complessa». In effetti, su questo secondo punto stanno emergendo molte novità, riportandoci verso quel sud-est che è non solo l’habitat cinese dei pangolini, ma — come ormai tutti sanno — dei pipistrelli.

Wuhan o la penultima verità

Ha indotto giustamente meraviglia, a partire dal giorno della pubblicazione, il 7 aprile, uno studio pubblicato su PNAS (Proceeding of the National Academy of Sciences di Washington), in cui alcuni autorevoli scienziati — su tutti il genetista di Cambridge Peter Forster e l’eminente archeologo Colin Renfrew, col contributo decisivo dell’Istituto di Genetica Forense di Münster — provvedono a un’analisi comparata del complesso network filogenetico di SARS-CoV-2. In estrema sintesi: ricostruiscono, grazie a un algoritmo matematico, il percorso evoluzionistico del genoma «ancestrale» del virus nell’ospite umano, seguendone spostamenti e mutazioni, almeno nei suoi primi spostamenti. Il metodo è consolidato, in quanto già usato in 10.000 studi filogenetici: per esempio, nei primi anni ’90, il network filogenetico di cromosoma Y (presente solo nei maschi) e DNA mitocondriale (ereditato solo dalle femmine) è utile per risalire al movimento delle popolazioni preistoriche in varie zone del pianeta. Ma è la prima volta che viene usato in ambito virologico-epidemiologico: con l’effetto primario, oltretutto — come mostra una spettacolare traduzione infografica della «filodinamica» sulla prima pagina di Le Monde — di ricordarci la matrice «darwiniana» della pandemia, il suo somigliare a «un’invasione barbarica» di miliardi e miliardi di microorganismi (o meglio zombie molecolari) penetrati nelle nostre società più o meno ordinate per seminarvi il caos.

Non tutto, in questo «adattamento» virologico-epidemiologico del metodo, è a fuoco: come ricorda Forster, le mutazioni sono troppo rapide per non «ingarbugliare» l’albero: tant’è che lo studio — fondato su 160 genomi umani campionati tra il 24 dicembre e il 4 marzo — è appunto «un’istantanea» delle prime fasi epidemiche, «una supernova prima dell’esplosione». Gli esiti sono comunque carichi di implicazioni. Il gruppo di Forster ha trovato in sostanza tre varianti di SARS-CoV-2: una variante A (ancestrale, la più prossima al genoma del pipistrello) diffusa in Cina e in certe aree dell’America e dell’Australia; una derivata B, diffusa soprattutto in Asia orientale (compresa Wuhan); e una C, diffusa soprattutto in Europa ma anche in altre aree asiatiche.

Le indicazioni dei flussi sono risolutive su diversi aspetti: per esempio, nella risalita ai «pazienti zero» a livello nazionale (Italia, Messico, Brasile e così via); ma soprattutto — in coerenza con l’obiettivo primario della ricerca — gettano nuova luce sull’«innesco» epidemico, in particolare collegando la variante A a «quattro individui» del Guangdong (la regione di Guangzhou-Canton da cui è partita la prima SARS); dato tanto più interessante se accostato a quello di un uomo dell’Ontario che si ritrova contagiato il 27 gennaio dopo un viaggio in Cina, e le branche del cui genoma virale rispondono alla variante A di Foshan e Shenzhen (sempre nel Guangdong). Il «fantasma» allusivo di questi flussi viene esplicitato da Forster in un’intervista del 17 aprile a Stephen Chen del South China Morning Post, in cui lo studioso riassume la ricerca pubblicata su PNAS traendone, pur con tutte le cautele («Se fossi pressato a una risposta») due considerazioni-spartiacque: la retrodatazione dell’outbreak a un range cronologico esteso tra il 13 settembre e il 7 dicembre e la probabile collocazione dello stesso proprio nelle regioni della Cina meridionale, quelle per tanti anni perlustrate da Shi Zhengli, e da cui anche lei si aspettava (più che a Wuhan, semmai area di primo focolaio e di espansione) l’emersione di uno spillover.

Per confermare e affinare quest’ipotesi — aggiunge Forster — sarebbero necessari studi su altri genomi di pipistrelli o di possibili ospiti intermedi alternativi, oltre ai campioni di tessuti di pazienti affetti da Covid-19 tra settembre e dicembre, eventualmente conservati negli ospedali cinesi. Integrazione non trascurabile dello studio di PNAS è un contributo di questi giorni (ne riferisce sempre Chen sullo stesso giornale) del gruppo dell’epidemiologa Li Lanjuan dell’Università del Zhejiang, in cui l’analisi random dei ceppi virali di 11 pazienti di Hangzhou (capoluogo della regione) ha evidenziato una trentina di mutazioni.

Gli elementi interessanti sono due:

a) il notevole differenziale tra i ceppi a livello di carica virale (semplificando: di quantità di virus espressa) e quindi di citogenicità (capacità di danneggiamento cellulare), fino a 270 volte maggiore nei più aggressivi rispetto ai più deboli;

b) tornando alla filodinamica di PNAS, il fatto che una delle mutazioni alla base dei ceppi più aggressivi si ritrovi prima in molti Paesi europei e poi nell’area di New York (scenario confermato da uno studio indipendente) rispetto ai ceppi «medi» (meno letali) dello Stato di Washington e di altre aree americane.
Pur ricordando come tratti simili debbano poi interagire col quadro bio-immunologico e clinico del soggetto contagiato (così che ceppi deboli possono a volte risultare ugualmente letali), emergono discrimini finora impensati, da tenere presenti nel (ri)valutare la gestione politico-epidemiologica di tanti Paesi.

La teiera celeste

A conclusione di questo lungo percorso, dovrebbero essere chiare le ragioni che rendono «fantasiosa» (Holmes) l’ipotesi del virus da laboratorio (sia hard che soft): biologico-evoluzionistiche, genetico-genomiche, epidemiologiche. Se inoltre, nell’ottica introdotta nello studio di PNAS, Wuhan (e il suo mercato del pesce) risultassero il «penultimo» gradino nella risalita geo-cronologica al vero «outbreak» epidemico (pur restando il primo focolaio e la prima area di irradiazione), scemerebbero anche ragioni logiche e persino logistiche. Eppure, per un complottista doc (per un vero Napalm 51) tutto questo rischia di risultare insufficiente, se non irrilevante. Una letteratura sterminata — tra psicologia e psichiatria, specie in ottica evoluzionistica — ha ormai messo a fuoco ogni tratto delle «teorie cospirative», dal compiacimento soggettivo venato di irrisione sprezzante («io non ci casco») alla funzione aggregativo-identitaria (gruppi di eletti che irridono le «verità ufficiali» in una delle tante declinazioni del «noi contro di loro»). Alla base, il complottismo non è altro che la «degenerazione» di un impulso adattativo ancestrale: quello di scremare ordine dal caos, regolarità dall’irregolarità, senso dal nonsenso. Anche noi, come i nostri antenati del Neolitico, mescoliamo cioè effettive relazioni di causa-effetto nella lettura di fenomeni e processi con false correlazioni e ipotesi meta o patafisiche. 

Con una differenza non da poco: per i nostri antenati, il ricorso a quel mix era l’unico modo per vincere l’ansia e l’angoscia di un ambiente carico di incognite; per noi, diventa spesso il fondamento di un pregiudizio antiscientifico socialmente ed economicamente devastante, esteso dalle posizioni anti-ogm a quelle No vax. Posizioni, a proposito di No vax, cui è ormai associato anche Luc Montagnier, citato in apertura come alfiere del neo-complottismo su Wuhan (con una bizzarra teoria fanta-genomica che vedrebbe mescolate nell’RNA di SARS-CoV-2 sequenze di Dna di HIV); anche se — come dimostra Gilberto Corbellini nello spietato «necrologio in vita» che gli dedica sul Dubbio del 20 aprile — tutta la parabola dello scienziato francese è un equivoco mediatico, a cominciare da un Nobel abusivo che sarebbe dovuto andare solo alla co-vincitrice, la sua dotatissima allieva Francoise Barré-Sinoussi. Come unica (e molto parziale) attenuante per certi atteggiamenti complottisti, va ricordato l’impiego a volte «censorio» con cui gli anti-complottisti compulsivi (sì, c’è anche quella categoria) chiudono ogni discussione a proposito di fatti specifici o passaggi storici delicati (vedi Piazza Fontana o il delitto-Moro), trattando allo stesso modo la teoria cospirativa e l’esercizio critico. Ma sono sfumature fuori all’orizzonte cognitivo di un complottista doc.

Così come rischia di essere fuori dal suo orizzonte cognitivo la metafora provocatoria della «teiera celeste» di Bertrand Russell, evocata da Muraille. Secondo quella metafora, a un interlocutore che sostenesse l’esistenza di una teiera di porcellana orbitante intorno al Sole — tra la Terra e Marte — si dovrebbe rispondere che spetta a lui «l’onere della prova», non a chi dovrebbe smentirla; e questo dovrebbe valere per tutte le teorie «non falsificabili», cioè non scientifiche. Il punto è che tutti dovremmo concentrarci — vertici governativi in primis — sulle vere questioni inevase in Cina dai tempi della SARS, peraltro molto più difficili da affrontare dell’eventuale chiusura di un Istituto di virologia: la questione dei wet markets, quasi insormontabile sia per le resistenze antropologico-culturali che per l’incidenza che avrebbe la loro chiusura sull’economia cinese, con un danno tale (75 miliardi di dollari e 14 milioni di disoccupati) da spingere alla clandestinità; e quella della mancanza di trasparenza politico-mediatica sulle origini (luoghi, modi, tempi) e sulla gestione della pandemia, già evidente ai tempi della SARS e recidiva con COVID-19, strutturale in un Paese che si ostina a non comprendere le ricadute globali di eventi «locali». Sul secondo aspetto, le pressioni internazionali — a partire dagli Usa — cominciano a essere marcate. È in quella direzione che bisognerebbe insistere, anziché inseguire teorie della consistenza di teiere volanti.


STUDI E ARTICOLI

L’articolo-spartiacque di Shi Zhengli e colleghi sul virus del pipistrello associato a SARS-CoV-2 (RaTG13) è uscito su Nature il 3 febbraio 2020; quello sul pangolino come possibile «ospite intermedio» (di Kristian C. Andersen e colleghi) su Nature Medicine il 17 marzo (con un commento di Edoardo Boncinelli sul Corriere il 20 marzo).
Il ritratto di Shi Zhengli scritto da Jean Qiu è uscito su Scientific American l’11 marzo (la traduzione italiana di Lorenzo Lilli su Le Scienze il 16 marzo).
La ricerca di Peter Forster e colleghi sulla «dinamica filogenetica» di SARS-CoV-2 è stata pubblicata da PNAS (Proceeding of the National Academy of Sciences) il 7 aprile; l’intervista di Stephen Chen a Forster (South China Morning Post) il 17 aprile; l’articolo di Chen sulla ricerca dell’Università del Zhejiang (con intervista all’epidemiologa Li Lanjuan), il 20 aprile.
L’articolo di Eric Muraille, biologo-immunologo dell’FNRS di Bruxelles, è uscito su Sud Ouest il 17 aprile.