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2020/04/30

Diteci la verità!



Sono sempre più deluso, preoccupato ed arrabbiato: le settimane passano tra un mare di chiacchiere e intanto l’Italia fallisce.  Conte parla a reti unificate senza dire praticamente nulla e “gli scienziati” - che non rischiano un’unghia del proprio reddito – giustificano il rinvio delle aperture, insensibili verso la realtà di un Paese dove la maggior parte delle persone non ha ancora capito verso quale disastro siamo diretti.

Soprattutto ci contano delle gran balle con numeri quotidiani ingestibili se non si fanno  tamponi e test statistici a tappeto. Intanto per esempio pochi sanno che – a fronte di 12.352 decessi a marzo per il coronavirus - l’anno scorso (fonte ISTAT) c’erano stati 15.189  morti in Italia per polmoniti (16.220 nel 2018) che quest’anno non ne risultano praticamente più: come si spiega?

Questo solo per dire che i numeri si girano come si vogliono, ma intanto un fatto inequivocabile e vero è che a 60 giorni dall’inizio della pandemia le aziende italiane dai 2 ai 499 dipendenti non hanno ancora visto un euro e per i finanziamenti fino a 25.000 euro risultano a ieri accettate (non liquidate!) 28.500 pratiche su centinaia di migliaia in giacenza.  

Avete notato il balletto sul MES durato settimane con  tutto che poi torna in silenzio dopo la affermata (da Conte) “impensabile grande vittoria in Europa”? Balle, il silenzio è per non far ricordare il voltafaccia 5Stelle agli elettori e salvare il governo, ma i soldi “veri” non ci sono, è tutta una manovra a debito e intanto il nostro debito pubblico sta in piedi perché solo la Banca Centrale Europea sta comprando (per fortuna) tonnellate di miliardi di titoli di stato italiani sperando nel MES, mentre la platea delle chiusure incombe.

Tranquilli, comunque, non arriverà la Troika alla greca ma solo “Una vigilanza rafforzata” da parte di Bruxelles: le parole sono tutto, non conta mai la sostanza.

Questo mi brucia: oltre al quotidiano bollettino sanitario delle ore 18 servirebbe un onesto “bollettino economico” di come si stia procedendo: dicano quanti finanziamenti siano liquidati al giorno, se non si vergognano…

Perché gli “scienziati” parlano, tanto loro non rischiano: “Se si aprisse subito potremmo arrivare a 151.000 ricoverati in terapia intensiva” ci dicono, ma non ci spiegano  perché proprio quel numero, ma se lo dice Conte lo riprendono i media e allora tutto diventa vero.

Intanto lo stesso Premier si precipita a Genova ad inaugurare “l’innalzamento dell’ultima campata del ponte” – ennesima passerella per un’opera pubblica che sulla pelle di 43 persone ha già goduto di una decina di festeggiamenti parziali - e intorno a lui si notava in TV una gran ressa di gente. Conte ha parlato (senza mascherina!) dei soliti futuri, immancabili destini.

Tutto in evidente spregio ai decreti ma Lui può, noi no: perfino le Messe ci sono vietate!

Atteggiamenti assurdi, così come nessuno sembra rendersi conto che sono stati superati tutti i limiti costituzionali, ma è “per l’emergenza” e allora va bene così. Sfugge il particolare  che nessuno ha eletto Conte, così come gli scienziati, i comitati, gli esperti che di fatto dirigono l'Italia. Se questo atteggiamento fosse stato tenuto da un governo di centro-destra sarebbero saliti ululati di lesa maestà costituzionale.

Ma intanto il parlamento è esautorato, la colpa è delle regioni e tanto il prode presidente Mattarella,  firma sempre tutto.

Restano però aperte tutte le domande drammatiche, vere, mai neppure sfiorate da mille (inutili) dibattiti. Per esempio chi controlla i conti della Protezione Civile o come si spendono milioni di euro “per l’emergenza”, oppure perché siamo così indietro con tamponi e controlli.

Insisto:  se in una qualsiasi attività si osservano le prescrizioni e le distanze perchè non si può e non si deve ricominciare a lavorare? Ditemi perché deve star chiuso chi vende mobili, oppure un orefice, un avvocato, una sarta, una pasticceria (però i dolci al supermercato e in panetteria puoi comprarli). I “Comitati tecnici” di Conte sono ben lontani dalla praticità dei problemi ed è ora che insorgano con più forza tutte le associazioni di categoria che purtroppo non vengono ascoltate.

E se tutti – ovviamente muniti di mascherine ed osservando le distanze – dal 4 maggio semplicemente ci ribellassimo alle imposizioni e cominciassimo a muoverci e a lavorare liberamente? Sarebbe davvero una criminale sfida allo Stato ? Direi semplicemente un rifiuto a quei suoi rappresentanti che a due mesi dall’inizio del caos dimostrano - e ogni giorno confermano - di non essere all’altezza della situazione.

2020/04/29

La stupidità uccide più del virus

La stupidità uccide più del virus. La nostra società è basata sulla vicinanza sociale.

Ho pubblicato gli sfoghi di due commercianti tra le migliaia di quelli che si trovano sul web perché si tocchi con mano come questo governo stia portando il paese al disastro.
Un governo di arroganti buffoni incompetenti che si ostina a non voler accettare la realtà. A non conoscere il funzionamento dell'economia del proprio paese.

Gli stipendi dei dipendenti di tutto il comparto pubblico sono pagati dalle tasse che sono a loro volta conseguenza dei ricavi fatti dal comparto privato.
Un comparto composto da attività professionali, industriali e commerciali, tutte tra loro interdipendenti.
Partendo dal settore commerciale, ci sono centinaia di migliaia di attività che si basano sulla vicinanza sociale, l'opposto della distanza.

Bar, ristoranti, parrucchieri, estetisti, palestre, alberghi, abbigliamento, mercatini,... sono centinaia di migliaia. Il distanziamento sociale mina alla radice la possibilità di sopravvivenza di queste attività. Perché, anche aprendo le attività, i ricavi crollano e non possono neanche lontanamente coprire i costi fissi, che sono i costi degli affitti, delle utenze, i costi amministrativi. In queste condizioni, dopo i debiti accumulati da due mesi di inattività, la maggior parte del settore non può sopravvivere ed è destinata al fallimento.

Il fallimento di un intero settore si propaga come uno tsunami su quello industriale, sulle attività professionali, sui servizi.

Quando tutta l'economia privata è in ginocchio, è la fine anche per quella pubblica.
Lo stato non ha un suo patrimonio, non crea posti di lavoro. TUTTI dipendono dall'economia privata. Anche le forze di polizia, che, quando diventano repressive, si accaniscono su chi paga loro lo stipendio.

Alla base della piramide, quindi, c'è la vicinanza sociale. È un fatto. È questa che permette al paese di sopravvivere. Questi assurdi discorsi di chi dice che dobbiamo cambiare i nostri stili di vita sono fatti da imbecilli che non sanno leggere la realtà delle cose.

Chi fa passare l'idea che un drastico distanziamento sociale sia inevitabile e durerà a lungo, è portatore di un'idea che ucciderà milioni di individui. Sta attivamente collaborando a compiere una strage. Non importa quante vite salverà dalla pandemia, ne ucciderà molte di più.

I media sono complici di una classe politica di stupidi vigliacchi inetti. Se realmente volessero salvare le persone dovrebbero fare l'opposto di quello che hanno fatto e stanno facendo, buttare acqua sul fuoco, rassicurare le persone. La malattia uccide, la stupidità uccide di più.

C'è la tendenza a credere che i mercati liberi e la cooperazione funzionino, tranne in situazioni difficili o "complesse" che richiedono l'intervento dello stato. Il grande Leonard Read (l'economista libertario che ha fondato la Foundation for Economic Education) vide il difetto in questo modo di pensare. Più complessa è l'economia, la società o la situazione, più dovremmo fare affidamento sui processi miracolosi e autoadattanti degli uomini che agiscono liberamente.

Quando poi lo stato è gestito da burocrati ottusi, la tragedia è inevitabile. Un governo che rifiuta la realtà deve essere spazzato via a qualunque costo.


Scritto da Aurelio Mustacciuoli su facebook.

Coronavirus, le prove (definitive?) contro la teoria del laboratorio



L'immagine mostra ambedue i presidenti di Stati Uniti e Cina. 
Perché ho inserito questa fotografia e non una del virus? 

Semplicemente le ragioni sono da ricercarsi nel continuo rimbalzo di responsabilità o colpe che i paesi rappresentati dai due presidenti si rinfacciano l'un l'altro. Con questa analisi basata su dati reali e verificati, certo non definitivi ma siamo molto vicini alla verità, si chiude il cerchio delle polemiche e viene fissata un'origine naturale e non elaborata in qualche laboratorio.
 
Ovviamente il virus si è formato in un ambiente favorevole come lo sono i mercati come li si trova in molti paesi asiatici. Ho visto personalmente mercati in Vietnam dove animali vivi in attesa di macellazione vengono sistemati in ambienti scarsamente igienici. La possibilità che si sviluppi una forma virologica in quelle condizioni è molto alta, questa volta è toccato alla Cina, la prossima chissà...

Coronavirus, le prove (definitive?) contro la teoria del laboratorio

Origine (non a Wuhan), tempi (ben prima di gennaio), genetica: le nuove acquisizioni scientifiche contro le teorie del complotto offrono l’occasione per riassumere quanto sappiamo su SARS-CoV-2
I tanti Napalm 51 dell’infosfera — i veri protagonisti dell’infodemia in corso — hanno in questa fase ottimi sostegni: l’Amministrazione di quella che resta, chissà per quanto, la superpotenza egemone (leggi le dichiarazioni del 15 aprile del Segretario di Stato Mike Pompeo, con tanto di indagine dell’intelligence annunciata); altri governi occidentali, anche se con posizioni più sfumate (Macron); un Nobel della Medicina (Luc Montagnier), il cui totale (e ormai pluridecennale) discredito presso la comunità scientifica può venire letto da alcuni — a rovescio — come una forma di eresia illuminata; un certo numero di «addetti ai lavori», ben compendiati in un’inchiesta di Jeanna Bryner per Live Science.

L’occasione mancata dei complottisti

La tesi di fondo è nota: l’agente patogeno SARS-CoV-2 (alla base della sindrome Covid-19) potrebbe essere «scappato al controllo» del «laboratorio» di Wuhan (in realtà il locale Istituto di Virologia). Nella versione hard, il virus sarebbe stato deliberatamente «manipolato ad hoc» prima di venir liberato come arma biologica; in quella soft, tutto si limiterebbe alla «fuga» (di quale «versione» del virus nessuno precisa) per un deficit tecnico-procedurale incompatibile col livello di «massima sicurezza» (BL4) in cui è inscritto l’Istituto. Varianti patafisiche di queste ore (vedi il Figaro): la condizione socioeconomica disperata di certi ricercatori dell’Istituto, che avrebbero venduto «cavie infettate» ai wet markets (i mercati di animali selvatici, già volàno di altri patogeni come la Sars) per integrare le loro magre retribuzioni. Risultato, come ricorda il biologo/immunologo Eric Muraille dell’Fnrs di Bruxelles in un intervento per Sud Ouest, il 23% degli americani e il 17% dei francesi crede ciecamente a quella tesi (ma sono percentuali in crescita).

Nell’intento — didatticamente e «politicamente» nobile — di contro-argomentare e smantellare quella tesi, Muraille sembra fornire paradossalmente carburante ai complottisti; di più, dar loro la possibilità di spingere l’acceleratore fino in fondo. Oltre ad argomenti tecnici specifici, di ordine virologico e genetico/genomico (su cui si tornerà più avanti), riconosce infatti — con la trasparenza insita nel metodo scientifico — l’effettiva fallibilità di Istituti e laboratori; quindi, alimenta la legittimità di diffidenze e sospetti, specie verso gli oltre 30 laboratori BL4 oggi sparsi per il mondo. In generale, Muraille ricorda da un lato come la Convenzione dell’aprile 1972 (che vieta messa a punto, fabbricazione e stoccaggio di armi-batteriologico-biologiche) sia stata oggetto di diverse violazioni, su tutte quella sovietica, con la continuazione di programmi di ricerca in tema (il famoso Biopreparat) anche a Convenzione firmata; dall’altro come gli «incidenti» si siano susseguiti lungo la Guerra Fredda e oltre. Vedi, tra gli altri, i due legati all’antrace: quello di Sverdlovsk del ’79 (66 morti per il carbonchio provocato dalla fuga della «spora»); e quello del settembre 2001, in un primo momento attribuito a Al Qaeda e invece opera del microbiologo Bruce Irvins del BL4 dell’Us Army (5 morti e 17 intossicati). In particolare, rievoca invece una sequenza misconosciuta o rimossa: l’unico precedente di «incidente» in tema di coronavirus, proprio in terra cinese, quando — alla fine della recidiva di Sars, il 22 aprile 2004 — due studenti dell’Istituto Nazionale di Virologia di Pechino (Nivl), originari dell’Anhui, contraggono la malattia, contagiando congiunti e colleghi (un’infermiera), per un totale di 9 casi (e un morto). Il 23 — come documenta il rapporto dettagliato del Cnc di Atlanta — l’Istituto viene chiuso e tutto rientra, poco prima dell’archiviazione cinese della Sars (18 maggio). Ma l’episodio — rafforzato dagli antefatti storici appena evocati — sembra tagliato su misura per fare da «precedente» dell’«incidente» di Wuhan. Strano non sia stato ancora utilizzato: forse altri elementi della trama si presentano più conturbanti e quindi più funzionali.

Batwoman

È tornata prepotentemente in primo piano, in questi giorni — col riaffiorare della teoria complottista — la figura di Shi Zhengli, la 55 enne virologa specializzata nello studio del genoma dei pipistrelli e, soprattutto, responsabile del Centro malattie infettive dello stesso Istituto di Wuhan. Come un Giano sottoposto a due visioni deformanti, Shi è idealizzata per un verso come una vittima inerte del Partito e della Dittatura: decifrato il genoma di SARS-CoV- 2 in tre giorni, avrebbe visto i suoi risultati occultati e le sarebbe stata «messa la museruola», fino a una specie di silenziamento punitivo. Per un altro — proprio in ottica complottista — è vista come l’artefice luciferina dell’«incidente», o almeno come la responsabile della «fuga» del patogeno e della sua penetrazione prima a Wuhan e poi nel mondo. Qualche tratto di verità — come vedremo — traspare forse dalla prima delle due visioni deformanti; ma per avere un’idea credibile della sua persona e della sua parabola (umana e scientifica) bisogna ricorrere a contributi come quello esemplare di Jane Qiu su Scientific American (Le Scienze di marzo), magari integrandolo con qualche altra fonte.

Come arriva, Shi, alla sera del 30 dicembre 2019? Alla sera, cioè, in cui viene raggiunta da una chiamata del suo «capo» (la direttrice generale Wang Yanyi) che le ordina di lasciare subito Shanghai — dove sta partecipando a una conferenza — e di precipitarsi a Wuhan per esaminare i primi campioni di malati di Covid-19? Tutto comincia proprio durante la recidiva di Sars, nella primavera del 2004, quando — nell’ottica di approfondire l’epidemia più o meno scampata e di prevenirne di successive — una Shi 40enne raggiunge coi colleghi Nanning, popolosa città del Guangxi, regione che insieme alla confinante Yunnan e al celeberrimo Guangdong (capitale Guangzhou-Canton), costituisce quell’ampia area della Cina del sud-est in cui si concentrano vaste popolazioni di pipistrelli portatori di coronavirus. Quella prima spedizione lungo grotte «profonde e strette, su terreni ripidi» (rivestite di «colonne di calcare e stalattiti bianco-latte», ma spesso «fetide» all’olfatto) non sarà trionfale: appena una dozzina di chirotteri catturati in 30 cavità, col metodo delle reti disposte agli imbocchi delle caverne per bloccare la loro uscita notturna. Né andranno meglio quelle successive, se dopo otto mesi Shi e i colleghi non hanno ancora riscontrato presenza di coronavirus nei chirotteri. Interverrà, per fortuna, la serendipity, il «volto buono» del caso: utilizzando sui pipistrelli dei kit diagnostici impiegati di solito per testare gli anticorpi prodotti da pazienti umani, il gruppo di ricerca ne trova tre (tra i mitici «ferro di cavallo») con anticorpi specifici per la SARS, deducendone come la «presenza effimera e stagionale» del virus si traducesse in una reazione immunitaria estesa «da qualche settimana a qualche anno».

Da quel momento, per Shi e la sua equipe sarà un accumularsi di successi e acquisizioni, il tutto operando specialmente nello Shitou, sito dello Yunnan (in cui le grotte sono nascoste tra ridenti villaggi collinari noti per le rose, le arance, le noci e il biancospino) selezionato dopo aver rastrellato decine di province cinesi. Giusto per fissare qualche tappa-chiave: nel 2012- indagando sul «profilo virale» di una miniera nella contea montuosa di Mojiang (sempre Yunnan) scoprono che 6 minatori colpiti da polmonite atipica (2 moriranno) l’hanno contratta toccando un fungo cresciuto sul guano dei chirotteri locali (modalità di contatto da aggiungersi come variabile a quella dei wet markets); l’anno dopo trovano una sequenza genomica coincidente al 97% tra pipistrelli e zibetti, togliendo ogni dubbio sul nesso tra ospiti «serbatoio» e «intermedi» nella SARS; a ottobre 2015 scovano tra gli abitanti di un villaggio 6 individui (su 200, cioè il 3%) dotati di anticorpi simili a quelli della SARS nei pipistrelli stessi (a riprova di possibili «convivenze» asintomatiche); a fine 2016 intuiscono la presenza di un nuovo morbo legato alla dissenteria acuta (SADS) che stermina 25.000 maiali della zona, evento particolarmente preoccupante perché l’università di Zhejiang (sud-est, sotto Shanghai) ne vede la trasmissibilità verso roditori, polli, primati e umani; e nel 2019 (con studi-break su Viruses e Nature Review Microbiology) pubblicano degli «avvertimenti» su possibili coronavirus pandemici.

Torniamo così alla sera del 30 dicembre, quando Shi rientra al laboratorio chiamata dal suo superiore. D’impatto, proprio alla luce della sua lunga esperienza, si chiede se l’autorità sanitaria municipale «si stia sbagliando». Conoscendo cioè come nessuno le regioni potenziali di un innesco zoonotico, è incredula e disorientata («Non avevo mai pensato che una cosa del genere potesse succedere a Wuhan, nella Cina centrale»), costringendosi alla domanda cruciale: «Se i colpevoli erano i coronavirus, potevano essere arrivati dal nostro laboratorio?».

Da vera scienziata, sa che è altamente improbabile, ma non impossibile: e si infila così nella «settimana peggiore» della sua vita. Sedici anni di conoscenze convergono nelle verifiche a tappeto, in quattro tappe: genomi dei pazienti sottoposti alla reazione a catena della polimerasi (che riesce a rilevare un virus amplificando il suo materiale genetico); sequenziamento completo del genoma stesso; test degli anticorpi nei campioni di sangue; test sulla capacità del virus di contagiare gli umani in una capsula di Petri. In attesa degli esiti (in lunghe notti «senza chiudere occhio»), Shi riesamina anche, febbrilmente, tutta la documentazione sulla gestione dei «materiali sperimentali» per individuare eventuali errori o imperizie, specie nella fase di smaltimento.

Il 7 gennaio 2020, la sentenza liberatoria: nessuna delle sequenze genomiche analizzate corrisponde a quelle campionate dal suo team. Eppure, da quel momento, i suoi rapporti con le istituzioni si opacizzano (eufemismo) e la sua immagine si demonizza. Il 14 manda una mail ai collaboratori in cui comunica di aver accertato la trasmissione umana del virus (ma lo stesso giorno l’Oms la nega); e il 3 febbraio pubblica su Nature uno studio (in parte anticipato da un «report» del 23 gennaio) in cui analizza il coronavirus di pipistrello ferro di cavallo (il già mitico RaTG13) coincidente al 96% con quello umano che diverrà SARS-CoV-2, ma — o forse proprio per questo — diventa la «madre del diavolo». A poco serviranno le sue reazioni, tra rabbia e incredulità: «Giuro sulla mia vita che il virus non ha nulla a che vedere col laboratorio». 

Anziché concentrarsi sulle omissioni e i ritardi del Governo (su tutti: la «bomba biologica» del Capodanno lunare di Wuhan), una parte dei media e dell’opinione pubblica interna e internazionale elegge Shi e il suo laboratorio a innesco occulto della pandemia. Ancora in questi giorni, c’è chi invoca una sua «confessione». Così come a poco serviranno, a scagionarla, l’enorme credito di cui gode, riassunto in testimonianze come quella di James Le Duc, Direttore del Galveston National Laboratory, centro di biocontenimento ad alta sicurezza in Texas («È una superba scienziata e una persona squisita») e soprattutto, la prova che ha fornito e sta fornendo in questa pandemia. La condanna per lei e il suo laboratorio sembra senza appello. A meno che…

Dal pipistrello al pangolino, e ritorno

Secondo uno degli adagi ricorrenti, le «prove della scienza» sulla (o meglio contro la) tesi-ipotesi del coinvolgimento del laboratorio di Wuhan, in versione hard o soft (arma biologica o semplice «fuga») sarebbero scorporabili da eventuali «prove dell’intelligence», come se queste ultime avessero la possibilità di bypassare o addirittura confutare evidenze genetico-genomiche ed epidemiologiche. È forse il caso, allora, di ripercorrerle, quelle «prove» — o meglio acquisizioni — scientifiche, in un riassunto cronologico-tematico.

Il break — dopo il contributo di Shi — è l’ormai celebre studio su Nature Medicine del 17 marzo (ne ha riferito prontamente e in modo esemplare su questo giornale Edoardo Boncinelli) in cui si identifica il pangolino come possibile ospite «intermedio» tra l’ospite serbatoio o reservoir (il pipistrello) e l’uomo, dove per pipistrello si intende il citato «ferro di cavallo» dello Yunnan. Il pangolino della Malesia (Paese nella cui lingua si esprime l’etimo del suo nome, «colui che si appallottola») è infatti non solo uno dei cardini della medicina popolare cinese (per via delle sue scaglie taumaturgiche), ma anche uno dei piatti prediletti nella cucina glamour del sud-est.

Starebbe quindi a SARS-CoV-2 come lo zibetto (o civetta delle palme) alla prima Sars: e questo nonostante il suo commercio sia ufficialmente (ma blandamente) vietato dal 2016. Con una differenza: il genoma dello zibetto corrisponde a quello umano (SARS-CoV) al 99,8%; mentre la corrispondenza tra il coronavirus «respiratorio» del pangolino e quello umano non è tout court al 99%, ma al 90,3%; il 99 riguarda una sezione, peraltro decisiva, quella del receptor-binding domain o Rbd (dominio di legame al recettore) cioè quella in cui le punte (o spyke) del virus agganciano la cellula umana (nel dettaglio, il recettore angiotestin converting enzyme o Ace2) per entrarvi e utilizzarla per riprodursi. È questo il passaggio-chiave. Secondo gli studiosi di Nature quell’«affinamento» specifico della configurazione molecolare del virus dipenderebbe da una pressione selettiva (nel senso di selezione naturale per mutazioni random) esercitata nell’ospite intermedio o direttamente nell’uomo, a spillover avvenuto (lo si capirà in seguito); ed escluderebbe in modo categorico («irrefutably») un intervento di manipolazione in laboratorio.

Lo stesso Muraille, del resto, nella sua requisitoria citata in apertura, riassume e chiosa bene il tutto. Ricorda brutalmente — quanto alla manipolazione — come il genoma di SARS-CoV-2 non contenga «sequenze residuali» relative ai «sistemi vettoriali» usati nella prassi per il trattamento dei virus; mentre insiste — quanto alla semplice «fuga» — sul fatto che la versione del virus «scappata al controllo» avrebbe dovuto essere adattata all’uomo secondo la configurazione appena descritta, resa cioè «compatibile» con l’assetto dei recettori della cellula umana.

Ma siamo solo all’inizio. Uno dei co-autori più autorevoli dello studio di Nature (e di interventi subito successivi su Cell e Lancet) è il virologo evoluzionista inglese Edward C. «Eddie» Holmes, vecchia conoscenza dei lettori di Spillover di Quammen (che lo intervista ai tempi della Pennsylvania University) e ora accasato a Sydney, Charles Perkins Centre. Pochi padroneggiano come lui la materia dei virus a Rna e in particolare dei coronavirus, tanto che il suo testo-principe (The Evolution and Emergence of RNA Viruses, Oxford, 2008) rimane una delle pietre angolari sul tema. In tre interventi severi e misurati sul sito accademico (27 marzo, 9 e 16 aprile), Holmes affronta molti aspetti della pandemia in corso, partendo dal rimpianto drammatico per le lezioni inascoltate al tempo della SARS, fattore decisivo nell’attuale «buco nell’acqua». Richiama, quindi, la necessità di provvedere adesso a quegli aspetti a cui si sarebbe dovuto provvedere allora: su tutto, le azioni tempestive e consistenti sui wet markets e la ricerca — in prospettiva di altri shock pandemici — non solo di un vaccino, ma anche di «un antivirale universale», che pure al momento sembrerebbe poco meno di un Graal. In più, prende posizione sulla questione della manipolazione-fuga dell’agente patogeno. Invitando a «mettere tranquillamente a dormire la teoria del complotto» (e riconducendone la «comprensibile» esplosione all’abnormità dell’evento, del suo carattere eccezionalmente inusuale), Holmes torna ai tratti biologico-evoluzionistici, focalizzando un punto-chiave: il virus del pipistrello scoperto da Shi Zhengli (RaTG13) e SARS-CoV-2 mostrano un livello di «divergenza genomica» consistente in una distanza temporale media di 50 anni — e un minimo di 20 — di cambiamento evolutivo (selettivo). Un «effetto» di ricombinazione molto difficile da ottenere in laboratorio. E aggiunge due elementi: il pangolino resta l’«ospite intermedio» più probabile, ma non sono esclusi, nello stesso ruolo, altri animali; e Wuhan è probabilmente solo un crocevia in un’emersione epidemica «molto più complessa». In effetti, su questo secondo punto stanno emergendo molte novità, riportandoci verso quel sud-est che è non solo l’habitat cinese dei pangolini, ma — come ormai tutti sanno — dei pipistrelli.

Wuhan o la penultima verità

Ha indotto giustamente meraviglia, a partire dal giorno della pubblicazione, il 7 aprile, uno studio pubblicato su PNAS (Proceeding of the National Academy of Sciences di Washington), in cui alcuni autorevoli scienziati — su tutti il genetista di Cambridge Peter Forster e l’eminente archeologo Colin Renfrew, col contributo decisivo dell’Istituto di Genetica Forense di Münster — provvedono a un’analisi comparata del complesso network filogenetico di SARS-CoV-2. In estrema sintesi: ricostruiscono, grazie a un algoritmo matematico, il percorso evoluzionistico del genoma «ancestrale» del virus nell’ospite umano, seguendone spostamenti e mutazioni, almeno nei suoi primi spostamenti. Il metodo è consolidato, in quanto già usato in 10.000 studi filogenetici: per esempio, nei primi anni ’90, il network filogenetico di cromosoma Y (presente solo nei maschi) e DNA mitocondriale (ereditato solo dalle femmine) è utile per risalire al movimento delle popolazioni preistoriche in varie zone del pianeta. Ma è la prima volta che viene usato in ambito virologico-epidemiologico: con l’effetto primario, oltretutto — come mostra una spettacolare traduzione infografica della «filodinamica» sulla prima pagina di Le Monde — di ricordarci la matrice «darwiniana» della pandemia, il suo somigliare a «un’invasione barbarica» di miliardi e miliardi di microorganismi (o meglio zombie molecolari) penetrati nelle nostre società più o meno ordinate per seminarvi il caos.

Non tutto, in questo «adattamento» virologico-epidemiologico del metodo, è a fuoco: come ricorda Forster, le mutazioni sono troppo rapide per non «ingarbugliare» l’albero: tant’è che lo studio — fondato su 160 genomi umani campionati tra il 24 dicembre e il 4 marzo — è appunto «un’istantanea» delle prime fasi epidemiche, «una supernova prima dell’esplosione». Gli esiti sono comunque carichi di implicazioni. Il gruppo di Forster ha trovato in sostanza tre varianti di SARS-CoV-2: una variante A (ancestrale, la più prossima al genoma del pipistrello) diffusa in Cina e in certe aree dell’America e dell’Australia; una derivata B, diffusa soprattutto in Asia orientale (compresa Wuhan); e una C, diffusa soprattutto in Europa ma anche in altre aree asiatiche.

Le indicazioni dei flussi sono risolutive su diversi aspetti: per esempio, nella risalita ai «pazienti zero» a livello nazionale (Italia, Messico, Brasile e così via); ma soprattutto — in coerenza con l’obiettivo primario della ricerca — gettano nuova luce sull’«innesco» epidemico, in particolare collegando la variante A a «quattro individui» del Guangdong (la regione di Guangzhou-Canton da cui è partita la prima SARS); dato tanto più interessante se accostato a quello di un uomo dell’Ontario che si ritrova contagiato il 27 gennaio dopo un viaggio in Cina, e le branche del cui genoma virale rispondono alla variante A di Foshan e Shenzhen (sempre nel Guangdong). Il «fantasma» allusivo di questi flussi viene esplicitato da Forster in un’intervista del 17 aprile a Stephen Chen del South China Morning Post, in cui lo studioso riassume la ricerca pubblicata su PNAS traendone, pur con tutte le cautele («Se fossi pressato a una risposta») due considerazioni-spartiacque: la retrodatazione dell’outbreak a un range cronologico esteso tra il 13 settembre e il 7 dicembre e la probabile collocazione dello stesso proprio nelle regioni della Cina meridionale, quelle per tanti anni perlustrate da Shi Zhengli, e da cui anche lei si aspettava (più che a Wuhan, semmai area di primo focolaio e di espansione) l’emersione di uno spillover.

Per confermare e affinare quest’ipotesi — aggiunge Forster — sarebbero necessari studi su altri genomi di pipistrelli o di possibili ospiti intermedi alternativi, oltre ai campioni di tessuti di pazienti affetti da Covid-19 tra settembre e dicembre, eventualmente conservati negli ospedali cinesi. Integrazione non trascurabile dello studio di PNAS è un contributo di questi giorni (ne riferisce sempre Chen sullo stesso giornale) del gruppo dell’epidemiologa Li Lanjuan dell’Università del Zhejiang, in cui l’analisi random dei ceppi virali di 11 pazienti di Hangzhou (capoluogo della regione) ha evidenziato una trentina di mutazioni.

Gli elementi interessanti sono due:

a) il notevole differenziale tra i ceppi a livello di carica virale (semplificando: di quantità di virus espressa) e quindi di citogenicità (capacità di danneggiamento cellulare), fino a 270 volte maggiore nei più aggressivi rispetto ai più deboli;

b) tornando alla filodinamica di PNAS, il fatto che una delle mutazioni alla base dei ceppi più aggressivi si ritrovi prima in molti Paesi europei e poi nell’area di New York (scenario confermato da uno studio indipendente) rispetto ai ceppi «medi» (meno letali) dello Stato di Washington e di altre aree americane.
Pur ricordando come tratti simili debbano poi interagire col quadro bio-immunologico e clinico del soggetto contagiato (così che ceppi deboli possono a volte risultare ugualmente letali), emergono discrimini finora impensati, da tenere presenti nel (ri)valutare la gestione politico-epidemiologica di tanti Paesi.

La teiera celeste

A conclusione di questo lungo percorso, dovrebbero essere chiare le ragioni che rendono «fantasiosa» (Holmes) l’ipotesi del virus da laboratorio (sia hard che soft): biologico-evoluzionistiche, genetico-genomiche, epidemiologiche. Se inoltre, nell’ottica introdotta nello studio di PNAS, Wuhan (e il suo mercato del pesce) risultassero il «penultimo» gradino nella risalita geo-cronologica al vero «outbreak» epidemico (pur restando il primo focolaio e la prima area di irradiazione), scemerebbero anche ragioni logiche e persino logistiche. Eppure, per un complottista doc (per un vero Napalm 51) tutto questo rischia di risultare insufficiente, se non irrilevante. Una letteratura sterminata — tra psicologia e psichiatria, specie in ottica evoluzionistica — ha ormai messo a fuoco ogni tratto delle «teorie cospirative», dal compiacimento soggettivo venato di irrisione sprezzante («io non ci casco») alla funzione aggregativo-identitaria (gruppi di eletti che irridono le «verità ufficiali» in una delle tante declinazioni del «noi contro di loro»). Alla base, il complottismo non è altro che la «degenerazione» di un impulso adattativo ancestrale: quello di scremare ordine dal caos, regolarità dall’irregolarità, senso dal nonsenso. Anche noi, come i nostri antenati del Neolitico, mescoliamo cioè effettive relazioni di causa-effetto nella lettura di fenomeni e processi con false correlazioni e ipotesi meta o patafisiche. 

Con una differenza non da poco: per i nostri antenati, il ricorso a quel mix era l’unico modo per vincere l’ansia e l’angoscia di un ambiente carico di incognite; per noi, diventa spesso il fondamento di un pregiudizio antiscientifico socialmente ed economicamente devastante, esteso dalle posizioni anti-ogm a quelle No vax. Posizioni, a proposito di No vax, cui è ormai associato anche Luc Montagnier, citato in apertura come alfiere del neo-complottismo su Wuhan (con una bizzarra teoria fanta-genomica che vedrebbe mescolate nell’RNA di SARS-CoV-2 sequenze di Dna di HIV); anche se — come dimostra Gilberto Corbellini nello spietato «necrologio in vita» che gli dedica sul Dubbio del 20 aprile — tutta la parabola dello scienziato francese è un equivoco mediatico, a cominciare da un Nobel abusivo che sarebbe dovuto andare solo alla co-vincitrice, la sua dotatissima allieva Francoise Barré-Sinoussi. Come unica (e molto parziale) attenuante per certi atteggiamenti complottisti, va ricordato l’impiego a volte «censorio» con cui gli anti-complottisti compulsivi (sì, c’è anche quella categoria) chiudono ogni discussione a proposito di fatti specifici o passaggi storici delicati (vedi Piazza Fontana o il delitto-Moro), trattando allo stesso modo la teoria cospirativa e l’esercizio critico. Ma sono sfumature fuori all’orizzonte cognitivo di un complottista doc.

Così come rischia di essere fuori dal suo orizzonte cognitivo la metafora provocatoria della «teiera celeste» di Bertrand Russell, evocata da Muraille. Secondo quella metafora, a un interlocutore che sostenesse l’esistenza di una teiera di porcellana orbitante intorno al Sole — tra la Terra e Marte — si dovrebbe rispondere che spetta a lui «l’onere della prova», non a chi dovrebbe smentirla; e questo dovrebbe valere per tutte le teorie «non falsificabili», cioè non scientifiche. Il punto è che tutti dovremmo concentrarci — vertici governativi in primis — sulle vere questioni inevase in Cina dai tempi della SARS, peraltro molto più difficili da affrontare dell’eventuale chiusura di un Istituto di virologia: la questione dei wet markets, quasi insormontabile sia per le resistenze antropologico-culturali che per l’incidenza che avrebbe la loro chiusura sull’economia cinese, con un danno tale (75 miliardi di dollari e 14 milioni di disoccupati) da spingere alla clandestinità; e quella della mancanza di trasparenza politico-mediatica sulle origini (luoghi, modi, tempi) e sulla gestione della pandemia, già evidente ai tempi della SARS e recidiva con COVID-19, strutturale in un Paese che si ostina a non comprendere le ricadute globali di eventi «locali». Sul secondo aspetto, le pressioni internazionali — a partire dagli Usa — cominciano a essere marcate. È in quella direzione che bisognerebbe insistere, anziché inseguire teorie della consistenza di teiere volanti.


STUDI E ARTICOLI

L’articolo-spartiacque di Shi Zhengli e colleghi sul virus del pipistrello associato a SARS-CoV-2 (RaTG13) è uscito su Nature il 3 febbraio 2020; quello sul pangolino come possibile «ospite intermedio» (di Kristian C. Andersen e colleghi) su Nature Medicine il 17 marzo (con un commento di Edoardo Boncinelli sul Corriere il 20 marzo).
Il ritratto di Shi Zhengli scritto da Jean Qiu è uscito su Scientific American l’11 marzo (la traduzione italiana di Lorenzo Lilli su Le Scienze il 16 marzo).
La ricerca di Peter Forster e colleghi sulla «dinamica filogenetica» di SARS-CoV-2 è stata pubblicata da PNAS (Proceeding of the National Academy of Sciences) il 7 aprile; l’intervista di Stephen Chen a Forster (South China Morning Post) il 17 aprile; l’articolo di Chen sulla ricerca dell’Università del Zhejiang (con intervista all’epidemiologa Li Lanjuan), il 20 aprile.
L’articolo di Eric Muraille, biologo-immunologo dell’FNRS di Bruxelles, è uscito su Sud Ouest il 17 aprile.

Tutti a digiuno


Il digiuno può essere intrapreso per via di diversi fattori che non ci soffermeremo ad elencare, in ogni caso, in mancanza di cibo, i livelli plasmatici di glucosio, degli amminoacidi e dei triacilgliceroli tendono a diminuire; contemporaneamente la secrezione dell’insulina decresce mentre aumenta la liberazione del glucagone.

La diminuzione del rapporto tra il livello dell’insulina e il livello del glucagone e la ridotta disponibilità di substrati circolanti rendono il periodo di privazioni di nutrienti un periodo catabolico, caratterizzato dalla degradazione di triacilgliceroli, glicogeno e proteine.

Ciò mette in moto uno scambio di substrati tra il fegato, il tessuto adiposo, il tessuto muscolare e l’encefalo, sotto la spinta di due priorità: 1- l’esigenza di mantenere un livello plasmatico del glucosio tale da sostenere il metabolismo energetico dell’encefalo e di altri tessuti che utilizzano questo zucchero; 2- la necessità di mobilizzare acidi grassi dal tessuto adiposo e di attivare la sintesi e la liberazione dei corpi chetonici da parte del fegato, per rifornire di energia gli altri tessuti.

Il ruolo primario del fegato nel metabolismo energetico durante il digiuno è la sintesi e la distribuzione di molecole di combustibile ad altri organi si parla quindi di “metabolismo epatico” e di “metabolismo extraepatico o periferico”.

Una sintesi significativa di corpi chetonici ha inizio durante i primi giorni di digiuno. Contrariamente agli acidi grassi, i corpi chetonici sono idrosolubili e compaiono nel sangue e nell’urina a partire dal secondo giorno di digiuno.

Nel digiuno la disponibilità di corpi chetonici in circolo è importante, perché la maggioranza dei tessuti può utilizzarli come combustibile, compreso l’encefalo, una volta che il loro livello ematico abbia raggiunto un valore sufficientemente elevato. Ciò riduce il bisogno di sintetizzare glucosio attraverso la gluconeogenesi a partire dagli scheletri carboniosi di amminoacidi, rallentando quindi la perdita di proteine essenziali.

Il tessuto muscolare durante il digiuno
Il muscolo a riposo utilizza gli acidi grassi come fonte principale di energia. Al contrario il muscolo in esercizio inizialmente utilizza come fonte di combustibile le proprie scorte di glicogeno, quando queste si esauriscono, gli acidi grassi liberi derivanti dalla mobilizzazione dei triacilgliceroli del tessuto adiposo diventano la fonte dominante di energia.

Durante le prime due settimane di digiuno, il muscolo utilizza come combustibili gli acidi grassi derivanti dal tessuto adiposo e i corpi chetonici prodotti dal fegato. Dopo circa tre settimane di digiuno, l’utilizzo dei corpi chetonici diminuisce e il muscolo usa quasi esclusivamente gli acidi grassi, con ulteriore aumento dei corpi chetonici in circolo e loro maggior utilizzo da parte dell’encefalo.

Parallelamente, durante i primi giorni di digiuno si verifica una rapida demolizione delle proteine muscolari che forniscono al fegato amminoacidi (principalmente alanina e glutammina) per la gluconeogenesi (ciclo di cori). Dopo varie settimane di digiuno la proteolisi muscolare diminuisce perché l’encefalo ha un minore bisogno di glucosio perché utilizza, come fonte di energia, i corpi chetonici. L’encefalo durante il digiuno: durante i primi giorni di digiuno, l’encefalo continua ad utilizzare come fonte di energia esclusivamente il glucosio. La gluconeogenesi epatica riesce a mantenere il livello ematico del glucosio utilizzando precursori glucogenici quali gli amminoacidi forniti dalla rapida demolizione delle proteine muscolari.

Nel digiuno protratto (2-3 settimane) i corpi chetonici raggiungono livelli significativamente elevati e l’encefalo li utilizza come combustibili in aggiunta al glucosio. Ciò riduce la richiesta del catabolismo proteico per alimentare la gluconeogenesi. I cambiamenti metabolici che si verificano durante il digiuno garantiscono a tutti i tessuti un apporto adeguato di molecole combustibili.

Riferimenti
1) Atkins Nutritionals, Inc. Lipolysis and Ketosis;
2) Breath acetone is a reliable indicator of ketosis in adults consuming ketogenic meals, American Journal of Clinical Nutrition.;
3) BioCarta Pathways Formation of Ketone Bodies;
4) G. F. Cahill Jr. Starvation in man. Clin. Endocrinol. Metab. 1976 Jul, 5(2), 397-415;
5) R.D. Chatham, "Fasting" (1987);
6) Henry R. Y., Clinical Chemistry; Principles and Technics, 1966. Hoeber Harper New York;
7) Nosadini et al. Ketone body metabolism: a physiological and clinical overview. Diabetes Metab Rev. 1989 May;5(3):299-319;
8) Anssi H Manninen. Metabolic Effects of the Very-Low-Carbohydrate Diets: Misunderstood "Villains" of Human Metabolism. J Int Soc Sports Nutr. 2004; 1(2): 7–11.

2020/04/24

Banana Republic


In Italia ormai da quasi due mesi si deve stare in casa salvo che si debba uscire e la mascherina è sempre da usare, poi no, poi si, poi forse. D’altronde i negozi sono chiusi tranne quelli aperti, il virus non colpisce i bambini e i giovani salvo quelli che se lo prendono. Infatti se hai molti sintomi sei malato, però puoi anche ammalarti senza sintomi oppure puoi avere i sintomi ma senza star male, ma essere anche contagioso pur non avendo i sintomi e se chiedi di farti il tampone per verificare se sei contagioso non puoi farlo perché non hai i sintomi.

Curati: per non ammalarti devi fare esercizio fisico, però non dovresti uscire e non puoi correre, perché sei corri allora è attività sportiva e non si può fare. Comunque tirati su e se vuoi la pizza te la portano a casa, ma chissà se chi l’ha preparata era contagioso? Poveretto il pizzaiolo: poteva essere senza sintomi, ma se era asintomatico eppure malato e ti infetta? Chissà…Anche perché il virus sulle superfici vive pochi minuti, al massimo due ore, no quattro… o forse sono sei, oppure fino a 2 giorni, ma comunque tranquillo perché in media i sintomi escono in 4 giorni, o forse fino a 11, ma magari anche molti di più…

In un paese con gli scienziati che ogni sera si contraddicono così, chiedi chi siano gli scienziati e gli esperti e scopri che sono ormai decine le commissioni, i comitati, i referenti, le cabine di regia, i tavoli tecnici, le task force (perchè scriverlo in inglese fa tanto più figo).

Tutti commissioni e tavoli ripetuti e replicati a livello centrale, regionale, provinciale e locale, così come negli assessorati e nei ministeri e dove alla fine nessuno decide perché lo deve fare sempre qualcun altro che però di solito la pensa diversamente da te.

Succede sempre così, quotidianamente, tanto dalle commissioni non si dimette mai nessuno, poi arriva (ma dopo, a posteriori) puntualmente un Magistrato che giustamente accusa, ma non era certo in prima linea a decidere quando c’era bisogno di farlo e quindi molti procedono nell’ottica che se non si decide niente almeno non si rischia, come puntualmente troppo spesso è avvenuto.

Alla fine abbiamo comunque tutti ragione, ma intanto finalmente si apre, no non si apre. Allora si apre in parte, divisi per regioni e/o ci si muoverà in date diverse, orari diversi, ma solo nell’ambito della propria regione. Nessuno pensa a chi (come me) vive su un confine regionale e quindi mi servirebbe poco poter andare a 250 km. di distanza se poi il lavoro sarebbe a cinque chilometri da casa ma – ahimé – in un’altra regione.

Alla fine restano poche certezze, per esempio quella di poter andare a fare la spesa ma - chissà perchè - non si può andare a Messa, neppure tenendo le distanze.
Messe vietate già da quella domenica 8 marzo ormai lontana, con le chiese già chiuse ma contemporaneamente i bar pieni di gente per l' ora dell’aperitivo.

Che il cibo del corpo valga più di quello dell'anima è una opinione del governo, che ha vietato perfino la benedizione delle salme in chiesa (pur se deserta o semi-deserta), chiese che non si possono legalmente aggiungere se non "nelle immediate vicinanze" delle abitazioni. .

Mi si permetta allora almeno ricordare oltre a medici, infermieri e farmacisti (ma anche a tanti volontari morti per aver trasportato i malati) una categoria di cui non ha parlato quasi nessuno: i sacerdoti.
Oltre 100 sacerdoti in Italia sono morti in queste settimane perché sono stati vicino a malati che spesso morivano da soli. 

Anche loro sono degli eroi silenziosi di questa epidemia.

2020/04/17

Un grande e brutto pasticcio all'italiana



Ci stiamo avvitando in caduta libera, ma rispetto a quando mi lanciavo da giovane col paracadute stavolta non c’è neppure quello di emergenza. Serve programmare ed attuare subito – con le dovute cautele e verifiche – una immediata ripartenza produttiva.

Troppi annunci del Premier si trasformano in delusioni e gente non all’altezza sta portando l’ Italia a un doppio disastro, sia interno che nei riguardi degli altri paesi europei dove la ripresa è già cominciata.  

Polemico? Davvero non vorrei, ma ditemi voi come si può scrivere un decreto dove, per indicare il tasso cui fare riferimento per un finanziamento alle piccolissime imprese, anziché chiaramente dire 1% (oppure 1,5% o 2%) si debba testualmente scrivere: (art.13) “Il soggetto richiedente (la banca) deve applicare al finanziamento garantito (all’azienda) un tasso di interesse… che tenga conto della copertura dei soli costi di istruttoria e di gestione dell’operazione finanziaria non superiore al tasso di Rendistato con durata residua da 4 anni e 7 mesi a 6 anni e 6 mesi, maggiorato della differenza tra il CDS banche a 5 anni e il CDS ITA a 5 anni così come definiti dall’ accordo-quadro per l’anticipo finanziario  a garanzia pensionistica di cui all’art.1, commi da 166 a 178 della legge 11 dicembre 2016 n. 232, maggiorato dello 0.20% … ecc.”

Il CDS sta per Credit Default Swap che cambia ogni mese (come il CDS ITA) e per calcolarlo si fa riferimento alla piattaforma (privata) Markit. Il punto è che neppure su questa piattaforma c’è un indicatore medio, perché l’interesse applicabile va poi calcolato per il rating e l’operatività di ogni singola banca.

I fondi disponibili, tra l’altro, coprono le necessità di una minima parte dei presunti richiedenti l’aiuto. 

Ma i ministri che approvano un decreto come questo, capiscono cosa ci sta scritto? E se non lo capiscono (come credo, visto che non lo comprendono neppure i tecnici finanziari) perché allora lo approvano, e cosa ci stanno a fare? 

Fin qui per le piccolissime imprese, ma tutte le aziende con giro d’affari oltre i 100,000 euro e fino a 499 dipendenti (il grosso della produzione, insomma) non avranno condizioni preferenziali  perché i tassi sui finanziamenti richiesti, secondo il decreto, andranno poi discussi in “trattativa di libero mercato” tra banca e azienda con affidamenti, tempi, interessi, saldo delle garanzie, procedure, modulistica da definire volta per volta. Quindi non è vero che i soldi saranno concessi a tasso vicino allo zero ma a molto, molto di più (“di libero mercato”, appunto) e in una trattativa tra banca e un'azienda che magari ha già l’acqua alla gola, secondo voi chi vince?

Eppure le banche si possono finanziare a tasso sotto lo zero con la BCE.

Quindi – in definitiva – il decreto di Conte favorisce le banche, non le imprese!

In quanti l’hanno capito dentro e fuori il governo e quanti cittadini lo possono capire, se c’è una continua informazione raffazzonata, supina e tendenziosa? 

Ma come si può pretendere che con queste pantomine l’Italia possa mai uscire dalla crisi più devastante di sempre? Ma perché - anziché chilometriche comparsate di Conte e dei suoi “tecnici” in TV (ormai un esercito tra esperti, commissioni, comitati, istituti superiori, tavoli, tavoli tecnici e task force) - non si chiariscono piuttosto queste cose e soprattutto non si scrivono norme chiare, semplici, veloci, inequivocabili?  

Eppure le norme dell’Agenzia delle Entrate per chiarire il differimento dei termini  fiscali occupano 44 pagine e ben 150 pagine la prima bozza ministeriale per “la semplificazione (!) e l’accelerazione degli investimenti in materia di opere pubbliche”.

 I numeri sottolineano bene la drammatica realtà e la spasmodica necessità di non affogare: in pochi giorni ben 105,727 imprese hanno chiesto ai prefetti di “aprire in deroga”. Di queste - a ieri - 2,296 domande erano state respinte, ma le altre lavorano (o cercano di lavorare) in regime di “silenzio-assenso”: quante siano poi effettivamente quelle in regola o meno, nessuno lo sa.  

2020/04/14

LOTTERY WINNERS: 19 THINGS TO DO WHEN YOU WON THE JACKPOT!


Maybe you?

Our whole life is a lottery, nothing is already written and entrusted to the book of your life, every small step forward is a carefully thought out choice by everyone. But also no, it could also be a choice to live the day.
Whether it is the case that decides for us, or luck, everything must be properly weighted to get the maximum possible.

If you are one of the lucky ones who have recently enjoyed a brazen and blind luck, here is a list of what you will need to do to conserve the capital over time and not lose it too soon. If instead you have not won but hope that sooner or later it will happen to you, read this article, it will help you not lose everything too quickly. Enjoy the reading.

STEP 1: Sign your lottery ticket

If your win is in the form of a ticket, the first step you need to take from the start is to sign the winning ticket. Indeed, a lottery ticket is a bearer title, which means that whoever signs the ticket and presents an ID card or passport can claim his winnings. This practice is not very well known and yet if you have not signed the ticket and lose it, you will have no way of recovering your due.

STEP 2: Stay anonymous

Stay anonymous if circumstances allow. Once the people around you know that you are suddenly wealthy, you will be harassed by requests for association, friends you haven't seen for a long time, car and boat sellers, not to mention all of them. saying "financial experts" who will come to you to "sell" their "products" without putting in place any real coherent investment strategy. You can therefore dodge all these problems by remaining anonymous.

STEP 3: It is urgent to wait before the big expenses

Avoid sudden changes in your lifestyle. During the first six months, do nothing definitive, like quitting your job, buying a big car, moving to a big house, even if the temptation is strong. Schedule major purchases for later.

STEP 4: Pay off all your non-performing debts

Pay all your non-performing debts, there is no better investment! Whether it is your car, consumption, work or principal residence loans, your net rate of return is equal to the interest rate on your financing. With increasingly low financial returns today on conventional investment products (bank investments etc...), paying off your debts is a great idea.

On the other hand, if you have productive credits, for example for real estate investments, be careful not to repay too quickly, because the loan interest is deductible and with a marginal tax bracket rising sharply, you risk giving back to the tax more than 50% of your income. To be studied on a case-by-case basis.

STEP 5: Build a team of Independent Consultants

In such situations, it is very difficult to know who is trying to scam you and who is trying to seriously help you build a stable and efficient wealth in terms of income. Rather than signing your eyes closed with a single financial advisor who risks selling you only "products" and not investments, I recommend that you choose the best lawyers, accountants, wealth management advisers and notaries for them. force to work together. Before describing your financial situation, be certain of everyone's references and do not hesitate to contact some of their customers to verify.
Indeed, the team that you put together around the table will function like the board of directors of a large group. Nothing prevents you from setting up an investment plan with a good advisor and then asking your advisor team for validation. I have been offering this type of operation for several years to my important clients, because in addition to avoiding abuse, this operation makes it possible to use the skills of each of the professionals in an optimal manner, which is never too much especially for technical arrangements (SCI, Holding, etc.)

STEP 6: Train yourself in wealth management

One of the best ways to avoid mistakes and find the best opportunities is to train yourself in wealth management. This area includes financial investments, real estate, financial management, taxation, wealth creation and transmission and other exciting areas. By following a suitable training, which can sometimes take 2 to 3 years, you make sure you make the right choices. Today, we must be aware that with a heritage of only 1 million euros, some manage to generate revenues of 7 to 8,000 euros per month without touching the capital, while others can squander this amount. in less than 2 years… for a low or zero result in the end. Imagine what you can do with several million euros. For this, investing 7 to 10,000 euros in training is often an excellent investment.

STEP 7: Invest prudently

It is important to put your earnings in a safe place in the short term and then ask your team of advisers to put in place a well-balanced heritage. An investment portfolio cannot be improvised, avoid overly speculative investments (stocks) or debts (bonds, funds in euros), unless you have a clearly defined investment strategy, a money management system (preservation of capital) and a crash strategy. Don't fall for investments that you don't understand or that seem too good to be true.

STEP 8: Avoid all risk-free finance

I can already hear you say: "I put it all in the bank, in guaranteed euro funds, and I only live on interest"!
Great idea on paper, but bad idea in fact!
Let me explain. To believe what the banker tells you is to believe a carpet merchant on the quality of the carpet! This is a bit excessive, but in fact the first thing to consider when receiving a large sum is what is called "money management", it is about managing and preserving your capital.
By investing in funds in euros, you invest in bonds, that is to say debts of over-indebted countries like France, Italy, Spain, etc. The risk of loss is not zero, France has already gone bankrupt 8 times in its history. A debt may be blocked at first, then canceled a few years later as was the case with Russian loans.
Financial savings are not an investment
On the other hand, financial savings are a placement, not an investment. Rather than go on any investment, it is better to choose "investments", real and tangible assets that generate cash flow and therefore regular income.

STEP 9: Don't put all your eggs in one basket

You know this rule on diversification of course. But be careful, sometimes, we believe that there are 3 or 4 different baskets and it is actually the same. For example, you diversify between Europe stocks, US stocks, emerging stocks, bonds, euros funds and other FCP; in the event of a crash, all your values ​​will go in the same direction, the financial markets are correlated with each other, so watch out for false diversification!

STEP 10: Avoid intensive diversification

It is important not to invest the whole in the same place, as we have just seen, but be careful not to fall into the opposite excess. If you spread yourself apart, management risks becoming very complex and above all ineffective. Choose tangible real assets (real estate, forest, shops, gold, etc.) rather than dispersing your assets on investment “products” that will not protect you in the event of a banking crisis, stock market crisis or systemic crisis (monetary system and financial). Intensive diversification therefore remains to be avoided.

STEP 11: Live with a budget set in advance

Especially if you are not used to having a lot of money, it is important to maintain a certain budgetary discipline to preserve your earnings and avoid the buying spree. One way to hold back is to live only on the income generated by your investments. Today, you will need a lot of capital to generate net income and if you start by attacking your capital, the great story may turn sour. Learn how to manage your starting capital, this is called Money Management. Also favor the cash flow to the consumption of your capital.

STEP 12: For your cash savings, choose at least 3 or 4 banks

Note that cash savings stored in a bank are debts, not assets. Saving is not an investment in general, keep only what is necessary for current operation (purchase of car, household appliances, etc.)
Open several bank accounts so as not to be dependent on a particular bank, and do not hesitate to use certain alternative payment sites for your internet purchases; thanks to online payment, some sites offer services comparable to banks.

STEP 13: buy no products or debts, only assets

A "product" (banking product) is a packaged investment, decorated with a lot of marketing, which always seems a good idea on paper, but it is often difficult to determine the real risks of this type of investment. Please note, some "products" such as guaranteed euro funds are actually debts!
Debt is not the best investment!
So know how to differentiate a debt from an asset. Funds in euros, money market funds, bonds, bond funds are made up of 100% debt.
A bank account is also a debt!
When you deposit your assets in the bank, the bank gives you a claim in the form of a piece of paper. The money is gone, but the bank admits you owe a certain amount. This is what happened in Cyprus. If you have large amounts, do not leave them in the bank, it is the bank's debt to you, and the debts are often made to not be reimbursed, even if this has not happened in France since loan of a century.

STEP 14: prioritize investments that generate cash flow

A share, unless it generates a large dividend, does not generate cash flow. You only win by making a capital gain. In real estate, you buy an asset (a building) that will change in value (gain or loss on resale), but the enrichment is mainly thanks to the cash flow (rents). So, even if you sell a building at half its value after 20 years, with a good return, you will still gain.

STEP 15: Choose investments, not positioning

A positioning is a store of value (bank, debt, etc.) that loses value with inflation while an investment generates regular income that follows inflation.

STEP 16: Establish a multi-year plan

It is important, in any property decision, to avoid investing everything in 6 months. I remind you that if investing is something new for you, an idea that may have seemed good at the start can turn out to be a real disaster a few years later! You will learn on the job and the experience will come as you go. You will make mistakes for sure, so don't be like some top athletes who have invested everything in one place in one place without following the advice in this article.

STEP 17: Set up an estate plan

In your team, you will need a top notary, experienced people, but not too close to retirement, because these notaries are often exceeded by new standards and practices. If you suddenly become wealthy, now may be the time to plan your estate tax. If you want to share some of your earnings or income with family and friends, this is the perfect time. Your notary (with the approval of your team) will be able to pass on heritage to those you love by limiting taxation and protecting you from the risks of dependence. The idea here is to keep control of your wealth and anticipate when you will no longer be able to make management decisions.

STEP 18: Understand and avoid the "house money" effect

We pay less attention to the money earned from games or inherited than the money earned from our work. In reality, we treat money earned quickly in a more casual and less reasoned way than money obtained by our work. The house money comes from the expression of economist Richard Thaler: "House money effect". We are more willing to take risks with gains made by gambling or speculating, hence the popular expression:
Quickly earned money will be quickly gone!
This is why the lottery winners are often poorer after several years than before having pocketed significant winnings.

STEP 19: make your dreams come true ... without necessarily focusing on spending!

Is it possible to have fun today without thinking of "Expenses"? Of course, yes!
With an almost unlimited purchasing power, the temptation is strong to “have fun” as we say, but I can assure you that spending will not increase your pleasure, on the contrary, it will increase certain frustrations that you didn't have before: some sort of wealthy issues. Wealth brings you an important element: the freedom not to go to work and therefore time to realize your dreams, take advantage of it!

CONCLUSION:

With your fortune, you have time, independence, financial means to realize yourself. Avoid focusing on spending and start by learning in all the areas that make you vibrate, money is never a life goal, but only a way to achieve it. This gain, whether by chance or by hard work, must be invested effectively so that it can permanently protect you. Take the time to make your decisions, and if you apply these 19 steps, it's a safe bet that your children and grandchildren will also be able to take advantage of this great opportunity…

Do the right thing and good luck!.


Solo per sete...


Anche prima che le borracce cominciassero ad andare di moda per ragioni ambientaliste, c’erano alcuni ambiti in cui erano usatissime: tra questi il mondo del ciclismo, dove senza l’acqua contenuta nelle borracce si va poco lontano. Come succede per tutti gli oggetti usati nelle competizioni sportive, le borracce usate dai corridori sono studiatissime e le aziende che le producono cercano di migliorarle di anno in anno. Eppure paradossalmente hanno una vita molto breve: non appena i ciclisti hanno finito di bere l’acqua che contengono, le gettano via, per alleggerirsi. Allora però possono essere raccolte dai tifosi collezionisti, ed entrare in una specie di seconda vita, esposte su uno scaffale.

Perché possa esistere il ciclismo ci sono cose la cui presenza è imprescindibile. Se quel ciclismo è su strada, ed è contemporaneo, servono, per cominciare: un po’ di asfalto, delle fibre di carbonio, due ruote di gomma vulcanizzata, dei freni, un manubrio, una catena e due pedali che permettano, completandosi a vicenda e con un paio di ruote dentate, di sfruttare un movimento centrale per convertire un moto rotatorio in spostamento in avanti. Trattandosi, poi, di un mezzo a propulsione umana, la bicicletta ha bisogno di un essere umano che ci pedali sopra. Quell’essere umano, chiunque sia, è per gran parte fatto d’acqua. Pedalando, esso consuma un po’ di quell’acqua, avvertendo quindi l’esigenza di introdurne periodicamente di nuova nel suo organismo. Può trovarla nei bar o alle fontanelle. Ma è molto più comodo portarsene appresso una scorta, specie se quell’umano che sta facendo ciclismo ha fretta di raggiungere la meta.

Una certa fretta nel raggiungere una certa meta, oggi, ce l’hanno in tanti, non solo quando vanno in bicicletta. Quelli per cui la fretta è oggettivamente motivata sono i ciclisti e le cicliste professionisti, i componenti delle uniche categorie alle quali è concesso, talvolta persino implorato, di liberarsi delle borracce appena usate. Sono una cosa strana le borracce nel ciclismo: fondamentali per qualche minuto, o qualche chilometro; poi improvvisamente superflue. Prima dell’uso sono protette, dopo diventano un peso da sacrificare alla rigorosissima causa del rapporto peso/potenza. Nel ciclismo – soprattutto in quello professionistico – la borraccia è un prodotto in cui il destinatario finale spesso non è né l’acquirente né il consumatore più importante. Il destinatario finale è un altro: chi l’ha trovata, raccolta o richiesta, magari senza pensare a tutta la strada che ha fatto quella borraccia per arrivare allo scaffale su cui adesso fa da cimelio.

Per fare una borraccia, così come per fare un mucchio di altre cose, si parte dai polimeri sintetici. In genere derivano dal petrolio – ma stiamo lavorando affinché arrivino anche da altre e migliori fonti, che non hanno bisogno di miliardi di anni per rinnovarsi – e ai nostri occhi si presentano sotto forma di piccole palline: dure, compatte, inodori e, a guardarle, per nulla attraenti. Si può sapere a grandi linee come sono ottenute quelle palline di “borracce in potenza”, ma molte aziende usano formule che preferiscono tenere per sé. In ogni caso, basta che una su cento di queste palline sia di un certo colore per avere borracce di quel colore.

Con anticipate scuse per il freddo al cuore che proverà ogni ingegnere leggendo le prossime righe, nelle fabbriche di borracce le palline vengono scaldate fino a fondersi tra loro per formare un unico fluido, che viene plasmato dalla gravità in una forma oblunga. A guardarlo bene, già si può intuire che quel pezzo potrebbe diventare una borraccia, ma è ancora presto per prenderlo in mano o versarci dentro dell’acqua: ha una temperatura di oltre 150 gradi centigradi. Quella temperatura serve a far sì che uno stampo e un forte getto d’aria permettano di allungare il pezzo, di perfezionarne la forma e di definirne i lineamenti.

Seguono una serie di procedimenti, quasi tutti svolti da una macchina, che hanno lo scopo di verificare che tutte le borracce siano uguali e allo stesso modo lisce e prive di imperfezioni. Tra questi procedimenti ce n’è uno che consiste in una veloce spazzolatura e un altro che, di nuovo e per poco, riscalda la parete esterna della borraccia, per permettere alla stampa di essere precisa e indelebile. La superficie della plastica delle borracce viene poi trattata per modificare la sua tensione superficiale. Buffo, a proposito, che questo fenomeno si chiami “bagnabilità”.

In un’altra linea di produzione – che può trovarsi a pochi metri di distanza e sotto lo stesso tetto, ma volendo anche a centinaia di chilometri – si creano tappi e valvole erogatrici, le altre due parti necessarie per trasformare il grezzo contenitore di cui sopra in un pratico aggeggio per trasportare e all’occorrenza bere liquidi senza rovesciarli. In molti casi, sia tappo sia valvola sono ricoperti da un materiale gommoso, più piacevole al contatto con le labbra e meno scivoloso.

Così come accade per spazzolini, rasoi, preservativi, smartphone, automobili e razzi spaziali, anche con le borracce si cerca sempre di fare qualcosa che sia ogni volta innovativo e migliore. Le qualità che si cerca di perfezionare sono la leggerezza, la morbidezza, l’assenza di odore e la velocità di erogazione del liquido. Qualche grammo in meno, qualche millilitro al secondo in più, e la piacevole certezza che l’acqua all’interno sappia di… acqua.

Chi di lavoro produce borracce per ciclisti passa una ragguardevole parte del proprio tempo ad ascoltare le variegate esperienze d’uso di massaggiatori, meccanici e soprattutto ciclisti. Serve a capire quali criticità trasformare in novità attraverso formule chimiche, composti e processi di produzione, il tutto senza tralasciare l’aspetto economico – si parla comunque di un contenitore d’acqua, non di un lander lunare.

Dopo essere state pensate, progettate, perfezionate, prodotte e testate, le borracce sono pronte per essere spedite. Nel caso di borracce per il ciclismo professionistico su strada, ogni squadra sa già da quale azienda prenderà le sue borracce per la stagione successiva, e quante ne ordinerà. Ancor prima che inizino i ritiri invernali, le prime borracce lasciano gli stabilimenti dirette ai magazzini delle squadre. Si possono dunque immaginare due borracce, nate dallo stesso sacchetto di palline di polimeri, estruse dalla stessa vite, cresciute nello stesso stampo, che lasciano la fabbrica lo stesso giorno: una per diventare la borraccia bianca di una squadra degli Emirati, l’altra per diventare la borraccia nera di una forte squadra britannica. Un po’ prima di Natale, entrambe viaggeranno su ruota – di camion – fino ai magazzini delle due squadre. Per poi ritrovarsi, un paio di mesi più tardi, nei portaborracce di due biciclette avversarie, magari da qualche parte sulle strade tra Milano e Sanremo.

Le borracce, comunque, raramente stanno sole. Dopo averle ordinate dalle aziende – tra le più importanti ci sono l’italiana Elite e l’olandese Tacx – le squadre le ricevono in grandi scatoloni, ognuno dei quali ne contiene circa 200. Prima di ogni corsa, e ancora prima di ogni corsa a tappe, le squadre fanno un calcolo che prende in considerazione fattori come la temperatura prevista, l’umidità, la lunghezza e la possibile difficoltà della corsa. Si parte dal presupposto che per ogni ciclista, per ogni giorno di corsa, servano almeno quattro borracce. Ma l’esperienza suggerisce che in questo calcolo è sempre meglio abbondare, quindi per la maggior parte delle corse ogni squadra prepara tra le sette e le dieci borracce per ciclista. In genere le si prepara la sera prima, così da trovarle pronte al mattino. La maggior parte delle borracce, nel ciclismo moderno, sono piene d’acqua. Ma ci sono anche quelle in cui all’acqua vengono aggiunti sali minerali o maltodestrine, talvolta in dosi e percentuali diverse da un atleta all’altro, per questione di gusti, eventuali problemi di salute e disagi alimentari, o perché così ha detto di fare l’allenatore oppure il nutrizionista. Ogni ammiraglia ha almeno un frigorifero al suo interno, che a sua volta contiene diverse decine di borracce. Almeno cinquanta sono d’acqua e almeno altre trenta di acqua e sali o acqua e maltodestrine. Nelle corse più importanti le ammiraglie sono due, ognuna con un frigorifero al suo interno. Ci sono poi le borracce che, dentro un’altra macchina, si portano avanti rispetto ai corridori, per aspettarli nella zona di rifornimento.

Qualche anno fa, qualcuno provò a usare borracce da 300 millilitri, ma non funzionò: oggi la gran parte delle borracce è da 550 millilitri. Per distinguerne il contenuto e riconoscere a chi sono destinate, ci si fanno sopra dei segni con un pennarello. Un bravo meccanico deve saper riempire il frigorifero nel modo opportuno incastrando più borracce possibile, ma deve anche mettere le borracce speciali – riempite per un determinato corridore – dove potrà trovarle facilmente. Un bravo gregario deve capire quando è il momento di andare a prenderle e portarne quante più riesce, ma deve anche ricordarsi dove sono posizionate le borracce, e quali, così da poterle prontamente servire al compagno che ne ha bisogno.

Quel che succede dopo che una borraccia arriva a chi la deve usare è lapalissiano. Il gregario porta la borraccia, chi la riceve beve un po’ – non troppo tutto insieme perché, come diceva la nonna e come dice Davide Cassani nei video su YouTube, «poi fa male» – e infine, se va bene, la ripone ancora mezza piena nel portaborraccia. Se va male, cioè se fa molto caldo o il momento è in qualche modo topico, il liquido finisce subito, e la borraccia viene buttata via. In ogni caso, appena vuota viene gettata; spesso anche prima di esserlo.

Se un buon numero di fortunate borracce vive i concitati momenti in cui assurge alla sua funzione originale, altre se ne stanno bel belle al fresco in frigorifero dalla partenza all’arrivo. Una volta arrivate, sempre che non vengano regalate a quel bambino con gli occhi grandi e supplicanti, le borracce superstiti tornano al pullman o all’albergo, insieme ai ciclisti che per quel giorno non le hanno usate. In genere, a queste borracce viene data una seconda possibilità, specialmente se il giorno dopo c’è la nuova frazione di una corsa a tappe.

Ci sono poche, pochissime borracce fortunatissime, quelle che vengono fotografate e celebrate per il modo in cui vengono afferrate, passate, svuotate o buttate. Ce ne sono altre, quasi tutte, funzionali a momenti non particolarmente rilevanti, e quindi anonime. Ce ne sono alcune che la gara non la vedono nemmeno, perché diventano borracce da allenamento. E ce ne sono altre ancora che magari neppure escono dallo scatolone in cui erano state infilate molti mesi prima.

Ogni anno, ciascuna squadra ordina molte più borracce di quelle che usa. Succede sempre, perché un ciclista senz’acqua è un problema ben più grande di un magazzino con qualche scatolone in più. Succede ancora di più quando, a maggio, una squadra cambia sponsor e tutto ciò su cui c’è scritto «Sky» deve, da un giorno all’altro, aver scritto «Ineos». E anche se non cambia lo sponsor principale, da una stagione all’altra magari cambia uno degli sponsor, o una combinazione di colori, o il pantone di un colore, o una scritta, e quindi via con altre migliaia di borracce. Le borracce inutilizzate durante l’anno passato e inutilizzabili per quello venturo vengono in genere regalate, magari a una squadra giovanile che sta nei paraggi del magazzino.

Complessivamente, una squadra professionistica maschile ordina, per ogni sua stagione, tra le ventimila e le quarantamila borracce. Solo per un giro di tre settimane ne servono più o meno tremila. Non vuol dire che in ogni tappa vengano effettivamente usate centocinquanta borracce, cioè quasi venti borracce per ognuno degli otto ciclisti in gara. Se ne portano tremila perché non si può mai sapere, e perché oltre a essere contenitori per liquidi ed eventuali pezzi da collezione, le borracce sono anche ottimi mezzi pubblicitari.

Il 6 luglio 2019 nei dintorni di Bruxelles, sede di partenza dell’ultimo Tour de France, c’erano 22 squadre, ed è lecito pensare che sparse tra biciclette, frigoriferi, bagagliai, scatoloni e gavoni ci fossero in tutto più di sessantamila borracce, più di quindici al giorno per ognuno dei centosettantasei corridori al via. Non tutti sono arrivati fino a Parigi, e nessuno ne ha certamente usate quante previsto; ma c’erano. Solo considerando le squadre maschili con licenza World Tour, si può dire che ogni stagione ciclistica comporti l’ordine di circa cinquecentomila borracce. Vuol dire, a riempirle tutte, 275mila litri d’acqua, oppure 100 chilometri di altezza se le si mette una sopra all’altra, o quasi tremila metri quadrati se le si mette una accanto all’altra.

Sembra tanto. Anzi: è tanto. Ma basta un po’ di prospettiva perché diventi poco: nel tempo che ci vuole per arrivare alla fine del presente paragrafo, che questo apparentemente non necessario inciso sta allungando giusto quanto serve, nel mondo è stato venduto, a grandi linee, un numero di bottiglie di plastica più o meno pari alle borracce prodotte per un’intera stagione per tutte le squadre maschili del World Tour. Se doveste avere dei dubbi sulla vostra velocità di lettura, è stato calcolato che in un minuto si venda nel mondo circa un milione di bottiglie di plastica.

Allargando ancora di più la prospettiva, si stima che in un anno vengano prodotte circa 350 milioni di tonnellate di plastica. Tutte le 500mila borracce da ciclismo di cui stiamo parlando pesano invece – da vuote – qualcosa di vicino alle 25 tonnellate: uno zero virgola, seguito da un po’ di altri zeri, del totale. Si può dire, quindi, che nel grande schema delle cose le borracce possono non essere considerate un grande problema ambientale, per uno sport che, tra l’altro, si basa su mezzi che vanno a muscoli e non a motore.

A prescindere dal destino a cui andranno incontro durante l’anno le borracce già prodotte, è comunque certo che ogni anno se ne produrranno di nuove, quasi sempre usando plastica vergine. Ogni borraccia, se gettata e abbandonata sul ciglio di qualche strada, in un prato o in un campo, ci mette tantissimo tempo a diventare qualcosa di diverso da una borraccia; troppo tempo per potersene fregare. Ma è vero che anche tra i professionisti – gli unici ad avere un valido motivo per buttar via una borraccia – c’è sempre più attenzione alla questione. Molte borracce, quindi, finiscono nelle “zone verdi”, le aree appositamente pensate per far sì che i ciclisti in gara si liberino di borracce, pacchetti, sacchetti, carte e cartacce. Molte altre sui cigli delle strade, nei prati o nei campi ci restano giusto qualche secondo, al massimo minuto, perché per fortuna c’è chi le raccoglie, un fenomeno che forse ha a che fare più con la passione che con l’ecologia; ma all’ambiente va comunque bene così.

Non c’è proprio modo di dire quante borracce vengano buttate ogni anno ai bordi delle strade dai ciclisti, nemmeno con un discreto margine di errore. Dipende da troppe variabili. Nel 2018, nel suo ultimo Tour de France, la Sky pensò, a complemento dell’operazione «Sky Ocean Rescue», di mettere dei codici sulle sue borracce, così che chi le trovasse potesse farlo sapere con l’incentivo di poterci vincere qualcosa. Poi la Sky cambiò sponsor e di quel progetto non si è più saputo niente. Peccato, perché nel suo piccolo avrebbe potuto dare una mano a raccontare qualche altra bella storia.

A proposito, nel mio piccolo di borracce ne ho raccolte anch’io (anche se quella che uso è un’altra: quasi tutta nera, con sopra una frase e un segno che citano i Joy Division). Quelle che raccolgo, chiedo o trovo, però, le conservo. L’ultima, per ora, è del 12 ottobre 2019. Il giorno prima si correva il Giro di Lombardia, e questa borraccia l’ha lanciata qualcuno della Bardiani-csf. Magari il promettente Luca Covili, che arrivò sul traguardo di Como 20 minuti e 100 posizioni dopo il vincitore Bauke Mollema. O magari uno tra Lorenzo Rota e Giovanni Carboni, quel giorno i migliori piazzati della squadra, giunti rispettivamente sessantatreesimo e sessantaquattresimo. Io l’ho raccolta a poco più di cento chilometri dall’arrivo, alla rotonda che sta all’incrocio tra la strada provinciale 51, che sale da Civate, e la strada provinciale 60, che scende da Galbiate, mentre passava il gruppo a caccia dei fuggitivi di giornata, sotto al cartello pubblicitario di un’azienda specializzata «nella vendita, installazione e manutenzione di stufe e caminetti».

È una borraccia bianca, con tappo nero e valvola rossa. Sopra ci sono i nomi e i loghi di: Bardiani valvole («Che trovano la loro applicazione negli impianti dell’industria lattiero-casearia, dell’industria di processo alimentare e bevande, dell’industria farmaceutica e cosmetica»), csf Inox («Pompe centrifughe e pompe volumetriche industriali»), Guerciotti («Azienda storica del ciclismo e leader nello sviluppo e nella produzione di biciclette da corsa»), LifeCode («Integratori sportivi per raggiungere obbiettivi») ed Elite («Specializzata nella ricerca e produzione di rulli di allenamento, borracce e portaborracce per ciclismo»). C’è anche l’hashtag #greenteam, che non è uno sponsor né una dichiarazione di ecologismo, ma ha a che fare con la storia della «formazione ciclistica più longeva del ciclismo mondiale».

Insomma, non una gran storia quella della mia ultima borraccia. E nemmeno una gran borraccia, a guardarla bene, ma è comunque una in più per lo scaffale delle borracce e una in meno rimasta dove non dovrebbe stare. A guardarla, o a guardare le altre arrivate prima di lei, fa strano pensare di averci dedicato tutte queste elucubrazioni. A chi mi conosce e apprende che l’ho fatto per davvero, può fare addirittura ridere. Comprensibilmente.

Le borracce, a ben vedere, non sono strettamente indispensabili al ciclismo e chissà che fra dieci, venti o trent’anni non ci si inventi qualcosa di nuovo e diverso per far arrivare acqua e energie a chi sta pedalando. Intanto però ci sono, stanno lì da più di un secolo e vanno benissimo così. Non sono imprescindibili perché possa esistere il ciclismo: per quello basta qualcuno che pedali e qualcuno che gli dica «Dai! Dai!» a bordo strada. Se quel qualcuno si trova vicino una borraccia da raccogliere, però, è più contento.

Racconta la storia delle borracce uno dei capitoli di Acqua passata da cui questo articolo è tratto, il sesto libro scritto dalla redazione di Bidon, una rivista online dedicata al ciclismo il cui nome significa appunto “borraccia”, in francese, in molte altre lingue e in generale nella comunità internazionale del ciclismo. Acqua passata racconta un po’ tutto quello che ci si potrebbe chiedere sulle borracce nel ciclismo e racconta molte storie di borracce famose che i corridori si sono passati. Il capitolo su come vengono prodotte le borracce si intitola “Ci vuole una borraccia” e l’ha scritto Gabriele Gargantini, redattore del Post. Il libro intero si può acquistare, nella versione cartacea, dal sito di People, la casa editrice che lo ha pubblicato, oppure in versione ebook anche su Amazon o IBS.