Il primo colpo storico contro l’Italia
lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica,
incalzato dall’allora ministro Beniamino Andreatta, maestro di Enrico Letta e
“nonno” della Grande Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale
italiana, temutissima da Germania e Francia, come conferma anche la
testimonianza resa dal prof. Alain Parguez, altro importante protagonista degli
eventi di quegli anni. E’ il 1981:
Andreatta propone di sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, e Ciampi esegue.
Obiettivo: impedire alla banca centrale di continuare a finanziare lo Stato,
come fanno le altre banche centrali sovrane del mondo, a cominciare da quella
inglese.
Il secondo colpo, quello del ko,
arriva otto anni dopo, quando crolla il Muro di Berlino. La Germania si gioca
la riunificazione, a spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza
industriale: ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi
accettano di rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo assetto
europeo elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: l’Italia. A
Roma non mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani della
“casta” corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a sacrificare
l’Italia all’Europa “tedesca”, naturalmente all’insaputa degli italiani.
E’ questa la drammatica testimonianza
di Nino Galloni, già docente universitario, manager pubblico e alto dirigente
di Stato, resa sia in occasione del primo meeting MMT di Rimini (24-26 febbraio
2012) sia, in seguito, a Claudio Messora per il blog “Byoblu”.
Leggiamo come ascoltare dalla sua voce cosa accadde
in quegli anni di cui egli fu co-protagonista.
All’epoca, nel fatidico 1989, Galloni
era consulente del governo su invito dell’eterno Giulio Andreotti, il primo
statista europeo che ebbe la prontezza di affermare di temere la riunificazione
tedesca. Non era “provincialismo storico”: Andreotti era al corrente del piano
contro l’Italia e tentò di opporvisi, fin che potè. Poi a Roma arrivò una
telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col ministro Guido
Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco.
Galloni si era appena scontrato con
Mario Monti alla Bocconi e il suo gruppo aveva ricevuto pressioni da
Bankitalia, dalla Fondazione Agnelli e da Confindustria. La telefonata di Kohl
fu decisiva per indurre il governo a metterlo fuori gioco. «Ottenni dal
ministro la verità», racconta l’ex super-consulente, ridottosi a comunicare con
l’aiuto di pezzi di carta perché il ministro «temeva ci fossero dei microfoni».
Sul “pizzino”, scrisse la domanda decisiva: “Ci sono state pressioni anche
dalla Germania sul ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo
facendo?”. Eccome: «Lui mi fece di sì con la testa».
Questa, riassume Galloni, è l’origine
della “inspiegabile” tragedia nazionale nella quale stiamo sprofondando. I super-poteri egemonici, prima
atlantici e poi europei, hanno sempre temuto l’Italia. Lo dimostrano due
episodi chiave:
l’omicidio di Enrico Mattei, stratega
del boom industriale italiano grazie alla leva energetica propiziata dalla sua
politica filo-araba, in competizione con le “Sette Sorelle”;
l’eliminazione di Aldo Moro, l’uomo
del compromesso storico col Pci di
Berlinguer assassinato dalle “seconde Br”: non più l’organizzazione eversiva fondata da Renato Curcio, ma le
Br di Mario Moretti, «fortemente
collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi
americani e israeliani». Il leader
della Dc era nel mirino di killer molto più
potenti dei neo-brigatisti: «Kissinger gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo
prima».
Tragico preambolo, la strana uccisione
di Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo “Petrolio” aveva denunciato i mandanti
dell’omicidio Mattei, a lungo presentato come incidente aereo.
Recenti inchieste collegano alla morte
del fondatore dell’Eni quella del giornalista siciliano Mauro De Mauro.
Probabilmente, De Mauro aveva scoperto una pista “francese”: agenti dell’ex Oas
inquadrati dalla Cia nell’organizzazione terroristica “Stay Behind” (in Italia,
“Gladio”) avrebbero sabotato l’aereo di Mattei con l’aiuto di manovalanza
mafiosa.
A congelare la democrazia italiana
avrebbe poi provveduto la strategia della tensione, quella delle stragi nelle
piazze. Alla fine degli anni ‘80, la vera
partita dietro le quinte è la liquidazione definitiva dell’Italia come
competitor strategico: Ciampi, Andreatta e De Mita, secondo Galloni, lavorano
per cedere la sovranità nazionale.
Col divorzio tra Bankitalia e Tesoro,
per la prima volta il Paese è in crisi finanziaria: prima, infatti, era la
Banca d’Italia a fare da “prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di
Stato e, di fatto, emettendo moneta destinata all’investimento pubblico. Chiuso
il rubinetto della lira, la situazione precipita: con l’impennarsi degli
interessi (da pagare a quel punto ai nuovi “investitori” privati) il debito
pubblico esploderà fino a superare il Pil. Non è un “problema”, ma esattamente
l’obiettivo voluto: mettere in crisi lo Stato, disabilitando la sua funzione
strategica di spesa pubblica a costo zero per i cittadini, a favore
dell’industria e dell’occupazione. Degli investimenti pubblici da colpire, «la
componente più importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni
statali, l’energia e i trasporti, dove l’Italia stava primeggiando a livello
mondiale».
Al piano anti-italiano partecipa anche
la grande industria privata, a partire dalla Fiat, che di colpo smette di
investire nella produzione e preferisce comprare titoli di Stato: da quando la
Banca d’Italia non li acquista più, i tassi sono saliti e la finanza pubblica
si trasforma in un ghiottissimo business privato.
L’industria passa in secondo piano e –
da lì in poi – dovrà costare il meno possibile. «In quegli anni la
Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di
flessibilizzazione sempre più forti, che poi avrebbero prodotto la
precarizzazione». Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di quello
che è lo sviluppo industriale». Risultato: «Perdita di valore delle imprese,
perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive di profitto». Dati che
parlano da soli. E spiegano tutto: «Negli anni ’80 – racconta Galloni – feci
una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50
gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la
metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di
Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano
tantissimo e quindi si guadagnava di più facendo investimenti finanziari invece
che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra
deindustrializzazione».
Alla caduta del Muro di Berlino, il
potenziale italiano è già duramente compromesso dal sabotaggio della finanza
pubblica, ma non tutto è perduto: il nostro paese, “promosso” nel club del G7,
era ancora in una posizione di dominio nel panorama manifatturiero
internazionale. Eravamo ancora «qualcosa di grosso dal punto di vista
industriale e manifatturiero», ricorda Galloni: «Bastavano alcuni interventi,
bisognava riprendere degli investimenti pubblici». E invece, si corre nella
direzione opposta: con le grandi privatizzazioni strategiche, negli anni ’90
«quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale», il “motore” di
sviluppo tanto temuto da tedeschi e francesi. Deindustrializzazione: «Significa
che non si fanno più politiche industriali». Galloni cita Pierluigi Bersani:
quando era ministro dell’industria «teorizzò che le strategie industriali non
servivano». Si avvicinava la fine dell’Iri, gestita da Prodi in collaborazione
col solito Andreatta e Giuliano Amato. Si giunge così allo smembramento di un
colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e
Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme (alimentare), nonché la Banca Commerciale
Italiana, il Banco di Roma, il Credito Italiano.
Le banche sono un altro passaggio
decisivo: con la fine del “Glass-Steagall Act” nasce la “banca universale”,
cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del credito all’economia
reale e le si autorizza a concentrarsi sulle attività finanziarie speculative.
Denaro ricavato da denaro, con scommesse a rischio sulla perdita. E’ il
preludio al disastro planetario di oggi. In confronto, dice Galloni, i debiti
pubblici sono bruscolini: nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando
di tre-quattrocento trilioni. Un trilione sono mille miliardi: «Grandezze
stratosferiche», pari a 6 volte il Pil mondiale. «Sono cose spaventose».
La frana è cominciata nel 2001, con il
crollo della new-economy digitale e la fuga della finanza che l’aveva
sostenuta, puntando sul boom dell’e-commerce. Per sostenere gli investitori, le
banche allora si tuffano nel mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per
garantire i rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della
“catena di Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia”
nell’imminente “ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da «centri
studi, economisti, osservatori, studiosi e ricercatori, tutti sui loro libri
paga».
Quindi, aggiunge Galloni, siamo andati
avanti per anni con queste operazioni di derivazione e con l’emissione di altri
titoli tossici. Finché nel 2007 si è scoperto che il sistema bancario era
saltato: nessuna banca prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva
le stesse cose, cioè speculazioni in perdita. Per la prima volta, spiega
Galloni, la massa dei valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava
la somma che l’economia reale – famiglie e imprese, più la stessa mafia –
riusciva a immettere nel sistema bancario. «Di qui la crisi di liquidità, che
deriva da questo: le perdite superavano i depositi e i conti correnti». Come
sappiamo, la falla è stata provvisoriamente tamponata dalla Fed, che dal 2008
al 2011 ha trasferito nelle banche – americane ed europee – qualcosa come
17.000 miliardi di dollari, cioè «più del Pil americano e più di tutto il
debito pubblico americano».
Va nella stessa direzione – liquidità
per le sole banche, non per gli Stati – il “quantitative easing” della Bce di
Draghi, che ovviamente non risolve la crisi economica perché «chi è ai vertici
delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle
perdite».
Il profitto non deriva dalle
performance economiche, come sarebbe logico, ma dal numero delle operazioni
finanziarie speculative: «Questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di
dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare
a ramengo». Non falliscono solo perché poi le banche centrali, controllate
dalle stesse banche-canaglia, le riforniscono di nuova liquidità. A soffrire è
l’intero sistema-Italia, fin da quando – nel lontano 1981 – la finanza pubblica
è stata “disabilitata” col divorzio tra Tesoro e Bankitalia. Un percorso
suicida, completato in modo disastroso dalla tragedia finale dell’ingresso
nell’Eurozona, che toglie allo Stato non solo la moneta, ma anche il potere
sovrano della spesa pubblica, attraverso dispositivi come il Fiscal Compact e
il pareggio di bilancio.
Per l’Europa “lacrime e sangue”, il
risanamento dei conti pubblici viene prima dello sviluppo. «Questa strada si sa
che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire
obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa». E in piena recessione,
ridurre la spesa pubblica significa solo arrivare alla depressione
irreversibile.
Esistono, secondo Galloni, vie
d’uscita? E se sì, quali?
Anzitutto bisogna archiviare subito
gli specialisti del disastro – da Angela Merkel a Mario Monti – ribaltando la
politica europea: bisogna tornare alla sovranità monetaria, dice Galloni, e
cancellare il concetto del debito pubblico come problema. Basta puntare sulla
ricchezza nazionale, che vale 10 volte il Pil. Non è vero che non riusciremmo a
ripagarlo, il debito. Il problema è che il debito, semplicemente, non va
ripagato: «L’importante è ridurre i tassi di interesse», che devono essere «più
bassi dei tassi di crescita». A quel punto, il debito non è più un problema:
«Questo è il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico».
L’alternativa è procedere come in
Grecia, dove «per 300 miseri miliardi di euro» se ne sono persi 3.000 nelle
Borse europee, gettando sul lastrico il popolo greco.
La domanda è: «Questa gente si rende
conto che agisce non solo contro la Grecia, ma anche contro gli altri popoli e
Paesi europei? Chi comanda effettivamente in questa Europa se ne rende conto?».
O forse, conclude Galloni, vogliono
davvero «raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore
di sovranità degli Stati» per obiettivi inconfessabili, come avvenuto in
Italia: privatizzazioni a prezzi stracciati, depredazione del patrimonio
nazionale, conquista di guadagni senza lavoro.
Un piano criminale: il grande
complotto dell’élite mondiale: «Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei
10, gli “Illuminati di Baviera”: sono tutte cose vere», ammette l’ex consulente
di Andreotti. «Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decide delle
cose». Ma il problema vero è che «non trovano resistenza da parte degli Stati».
L’obiettivo è sempre lo stesso: «Togliere di mezzo gli Stati nazionali allo
scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è sovranazionale,
multinazionale e internazionale». Gli Stati sono stati indeboliti e poi
addirittura infiltrati, con la penetrazione nei governi da parte dei
super-lobbysti, dal Bilderberg agli “Illuminati”.
Purtroppo non abbiamo amici. L’America
avrebbe inutilmente cercato nell’Italia una sponda forte dopo la caduta del
Muro, prima di dare via libera (con Clinton) allo strapotere di Wall Street.
Dall’omicidio di Kennedy in poi, secondo Galloni, gli Usa «sono sempre più
risultati preda dei britannici», che hanno interesse «a aumentare i conflitti,
il disordine», mentre la componente “ambientalista”, più vicina alla Corona,
punta «a una riduzione drastica della popolazione del pianeta» e quindi
ostacola lo sviluppo, di cui l’Italia è stata una straordinaria protagonista.
E l’odiata Germania? Non diventerà mai
leader, afferma Galloni, se non accetterà di importare più di quanto esporta.
Unico futuro possibile: la Cina, ora
che Pechino ha ribaltato il suo orizzonte, preferendo il mercato interno a
quello dell’export. L’Italia potrebbe cedere ai cinesi interi settori della
propria manifattura, puntando a affermare il made in Italy d’eccellenza in quel
mercato, 60 volte più grande. Armi strategiche potenziali: il settore della
green economy e quello della trasformazione dei rifiuti, grazie a brevetti di
peso mondiale come quelli detenuti da Ansaldo e Italgas.
Prima, però, bisogna mandare casa i
sicari dell’Italia e rivoluzionare l’Europa, tornando alla necessaria sovranità
monetaria. Senza dimenticare che le controriforme suicide di stampo neoliberista
che hanno azzoppato il Paese sono state subite in silenzio anche dalle
organizzazioni sindacali. Lo scopo di avere meno moneta circolante e salari più
bassi è forse quello di contenere l’inflazione? Falso: gli USA hanno appena
creato trilioni di dollari dal nulla, senza generare spinte inflattive. Eppure,
anche i sindacati sono stati attratti «in un’area di consenso per quelle
riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981».
Il passo fondamentale, da attuare
subito, è una riforma della finanza, pubblica e privata, che torni a sostenere
l’economia. Stop al dominio antidemocratico di Bruxelles, funzionale solo alle
multinazionali globalizzate.
La scelta della Cina di puntare sul
mercato interno può essere l’inizio della fine della globalizzazione, che è «il
sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro,
quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente né la
salute».
Naturalmente, prima di tutto serve il
ritorno in campo, immediato, della vittima numero uno: lo Stato democratico
sovrano. Imperativo categorico: sovranità finanziaria per sostenere la spesa
pubblica, senza la quale il paese muore. «A me interessa che ci siano spese in
disavanzo – insiste Galloni – perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione,
puntare al pareggio di bilancio è un crimine». (fonte)
Il terzo colpo, la fine. Nel libro
Morire di austerità, Lorenzo Bini Smaghi, l’ex board della Bce che oggi
presiede la Snam Rete Gas, ha scritto che nel 2011 Silvio Berlusconi aveva
“ventilato in colloqui privati con i governi di altri Paesi dell’Eurozona
l’ipotesi di una uscita dall’euro”.
Per questo, sarebbe poi stato
costretto a dimettersi da Palazzo Chigi.
In realtà, il Cavaliere non si sarebbe
solo limitato a “ventilare” questa ipotesi, ma aveva addirittura già avviato le
trattative in sede europea per uscire dalla moneta unica. A rivelarlo è
Hans-Werner Sinn, presidente dell’istituto di ricerca congiunturale tedesco,
Ifo-Institut, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013
organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung.
Tocchi l’Europa e muori. Più si
mettono insieme i pezzi del puzzle, più sembra chiaro che quello che
inizialmente sembrava un vero e proprio attacco speculativo ai danni dei nostri
titoli di Stato per far cadere il governo Berlusconi, adesso assume i toni di
una resa dei conti ai danni del Cavaliere.
L’allora presidente del Consiglio
sarebbe stato fatto fuori perché, per non voleva far morire il Paese
dell’austerità imposta dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, aveva deciso di
tirar fuori l’Italia e gli italiani dal giro della moneta unica. Quella moneta
unica, l’euro, che un altro ex presidente del Consiglio, Romano Prodi, aveva
super valutato gettando l’economia del Belpaese nella recessione.
Come riporta anche l’Huffington Post,
Sinn ammette che, nell’autunno del 2011, Berlusconi aveva “avviato trattative
per far uscire l’Italia dall’euro”. Intervenendo in un dibattito sulla crisi
economica e sugli effetti disastrosi che stava avendo sui paesi meridionali
dell’Eurozona, il presidente dell’Ifo-Institut ha ammesso di “non sapere per
quanto ancora l’Italia ce la farà a restare nell’Unione Europea: l’industria
nel nord del paese sta morendo, i fallimenti delle imprese sono ormai alle stelle
e la produzione industriale è in continuo calo”.
Fonte