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2012/12/02

Il frustrato e la frustrata, una bella coppia!

La frustrazione è la mancata gratificazione di un desiderio, oppure l'impedimento alla soddisfazione di un bisogno. È uno stato psicologico che si verifica quando un ostacolo blocca il conseguimento di un fine da parte di un organismo che sia motivato a conseguire quel fine.

Questa la definizione, chiara, semplice e lineare. Perchè e come si arriva a definire un individuo un frustrato, nel mio caso potrebbe essere identificato come una rappresentante dell’altro sesso, voglio generalizzare anche perchè intitolare l’articolo “la frustrata” potrebbe dare un diverso significato al mio scritto. Innanzitutto vediamo perchè si verifica: leggo su internet che può verificarsi solo per un organismo che tende a guidare il proprio comportamento dirigendolo verso un fine che nel momento considerato sembra poco chiaro, incomprensibile. 


L'inguaribile frustrazione nell'essere patetica!
Approfondisco e scopro che il comportamento deve essere attivato da una motivazione più o meno specifica; e già qui ha una propria valenza, vedo una luce, occorre che ci sia un oggetto (incentivo) corrispondente al bisogno-desiderio-attesa, in grado di gratificarli, gratificare i frustrati suppongo e scopro che non c'è frustrazione senza l'interferenza di un ostacolo che interviene tra la motivazione e l'incentivo, impedendone l'acquisizione. Interessante, quindi le cause della frustrazione sono molteplici, non solo ed esclusivamente la consapevolezza di non poter usufruire di un supposto privilegio ma anche una forma mens di bisogno inatteso non esaudibile. 

Una spiegazione potrebbe essere che l’individuo frustrato uscendo dal grembo materno è costantemente impegnato ad affrontare un ambiente fisico che ha leggi proprie, non sempre corrispondenti ad una immediata soddisfazione delle esigenze dell'organismo (ad es. fame, sete, riparo, protezione, freddo, caldo, umidità...), il non avere accesso a queste elementari esigenze potrebbe spingere mentalmente l’individuo verso una primaria forma di frustrazione, si spiega ma non giustifica, resta da capire perchè. I fattori sociali vanno considerati, perchè è vero che l'uomo vive in un ambiente fisico "umanizzato", cioè sociale, costruito per adeguarsi alle esigenze dell'uomo. Ma le norme sociali che reggono questo ambiente non sempre favoriscono l'esistenza: molte norme scritte (e non scritte) vincolano l'azione, al punto che impediscono la soddisfazione dei desideri (ad es. un matrimonio misto, la vincita di un concorso...) e qui intervengono i fattori personali propri dell’individuo preso in esame, la casistica li suddivide in biologici, psicologici e sociali. 

Quelli biologici poi riguardano l'organismo (fonte di frustrazione è una particolare condizione fisica: piccolo di statura, capelli rossi, miopia...). Ovviamente la situazione fisica in sé non è causa di un disadattamento, ma lo diventa se viene vissuta così o se viene proposta al soggetto in modo frustrante (chissà se comprende anche l’essere stronza?), i fattori psicologici riguardano la personalità (ad es. vivere in un ambiente centrato sull'efficienza operativa può essere frustrante per chi possiede una personalità desiderosa di coinvolgimento emotivo, contatto umano e comprensione). Infine i fattori sociali riguardano la società (ad es. l'appartenenza a un certo contesto o classe sociale può determinare frustrazione). 

Da notare però che una stessa esperienza di mancata gratificazione può essere percepita da una persona come sgradevole o umiliante, mentre per un'altra può essere stimolante. Spesso l'impossibilità di soddisfare immediatamente un desiderio è utile stimolo di ricerca di nuove soluzioni.

Ci si accorge dell’esistenza di un frustrato nel momento che esso manifesta il proprio status, fino a quel momento la patologia non è riconoscibile, non ce ne rendiamo conto. Purtoppo i danni potrebbero essere anche importanti, danni personali intendo, danni psicologici causati dal subire l’attacco a volte continuato del frustrato che impedisce di avere una visione chiara della situazione e attuare le migliori difese che, ribadisco il concetto, non sono sempre violente, potrebbero anche esserlo in casi limite, in genere la nostra reazione deve spingere il frustrato a riconsiderare il proprio status mentale e accettare la propria situazione anche se portati a desiderare altre e diverse situazioni e non sempre migliori di come il frustrato è indotto a pensare. 

I meccanismi di difesa poi: ansia, angoscia e apatia sono reazione più o meno consapevoli del soggetto. Ma esistono anche dei meccanismi di difesa inconsci ed estremi, appartenenti a qualunque individuo, che sono praticamente espressione della necessità di mascherare o fingere una condizione di vita migliore di quanto non sia in realtà. Naturalmente se la persona si rapporta alla realtà solo ricorrendo a questi meccanismi, allora essi vanno considerati come sintomi di una nevrosi. Che meccanismi sono maggiormente evidenti nel frustrato? Sicuramente la regressione: quando in caso di malattia ricompaiono atteggiamenti infantili oppure la fissazione che porta il frustrato a ripetere un comportamento anche al mutare delle circostanze. 

Quella contro i frustrati è una mia guerra personale. Dovrei dire le frustrate. Donne che amano nascondersi dietro l’immagine apparente di donna=forte mentre invece non sono, donne irrealizzate i cui sogni sono stati erosi dal tempo e dalla realtà, categorie alle quali, ahimé, appartiene il 98% della popolazione mondiale (a essere ottimisti), parlo anche, e soprattutto di quelle che non ci stanno, che non si adattano, che sfogano il loro livore contro tutta l’umanità: quelle sono le frustrate che non sopporto. Che poi magari in questi tempi di crisi finanziaria mondiale sono costrette a lavori umili, magari con due lauree nel cassetto a ammuffire, non era importante la laurea, poco male se non c’è, potrebbero essere benissimo persone dotate di un’intelligenza e un talento prodigiosi ma che sono, purtroppo per loro, nati nella famiglia sbagliata. Io parlo di quelli e quelle che, senza titolo alcuno e con scarsissima dose di buon senso, pretendono che il mondo si inginocchi, che obbedisca loro docilmente, pena “dispetti” e “punizioni” degni di un bambino viziato al primo anno di asilo, che poi nemmeno è vero questa, mio figlio al primo anno d’asilo non si atteggia, non usa l’arma del dispetto ne tantomeno quella della punizione, a lui piace sentirsi gratificato e si comporta sempre di conseguenza. 

Insomma, oggi ce l’ho con una stronza che frequenta un forum dove mi esibisco spesso in quelle che io definisco “storie di vita” vale a dire una guida per viver meglio nel proprio ambiente o in quello che si elegge a proprio anche se non lo è. Si, si, lo sappiamo, la situazione in Italia è sempre la stessa, la gente è insofferente, non si riesce a trovar lavoro, non si riesce a ottenere il minimo fisiologico dei servizi, non si riesce a vedere la fine dopo tutti i disagi ma credetemi non si tratta solo di quello, anche se abbiamo una casta politica intrigante e menefreghista che fa desiderare i tempi quando c’era Lui, lui chi? Lui, lui... Almeno tutti guardavano a valori unici mentre ora pensano solo a riempirsi la borsa, anzi la valigia, di danaro furbescamente sottratto agli italiani fessi e che nessuno mai restituirà nemmeno nel momento in cui finalmente il popolo italiano alzerà ‘sto cazzo di testa mandandoli via tutti. 

Non non pensavo a questo nel definire il frustrato, anzi la frustrata. 
Quando il frustrato entra nella nostra vita e che danni può o potrebbe arrecarci?
Difficile da quantificare, la famosa frase ‘uno, nessuno o centomila’ potrebbe essere tranquillamente applicata senza che si trovi una reale cura o un metodo di guarigione efficace. Diventa a questo punto complicato se non impossibile trovare la guarigione nel frustrato che col tempo rappresenta una minaccia consistente se rapportata a un singolo individuo. Nella nostra vita di esseri umani, molto spesso ciò che fa emergere un conflitto non sono due oggetti o due situazioni, quanto le richieste inconciliabili che provengono dai diversi modelli valoriali e di comportamento che presuppongono i vari ruoli che ricopriamo nella nostra vita. Fra i conflitti di ruolo, si tendono a distinguere i conflitti intra-ruolo (quando le attese da parte di diversi attori sociali nei confronti dello stesso ruolo sono parecchio discordanti) e conflitti inter-ruoli (quando uno stesso individuo ricopre più ruoli che prescrivono attese e comportamenti fra loro discordanti e inconciliabili).

Alcuni dei conflitti di ruolo più tipici della nostra società sono ad esempio quello in cui si trova l’adolescente, diviso fra le esigenze di autonomia che gli richiede il suo ruolo di individuo adulto e quelle di protezione e dipendenza che gli richiede il suo ruolo di figlio, oppure quello delle donne,spesso divise fra il ruolo domestico e quello e quello professionale. Molto spesso questi conflitti, che come abbiamo detto possono riferirsi a sfere particolari della vita di un individuo, possono generare un tale calo dell’autostima e della fiducia in se stessi da allargarsi ad altre sfere, fino a colpire addirittura l’intera persona, in un fenomeno noto come “ego-diffusion”.

La situazione di marginalità, ossia la situazione in cui si trova un individuo che si trovi a far parte contemporaneamente a due o più gruppi differenti, con richieste incompatibili può essere risolto attuando varie strategie:
1) Separazione: consiste nel tentativo di scindere in vari modi (nel tempo e nello spazio) i due ruoli contrastanti. La separazione può agire anche a livello profondo, attraverso un meccanismo che porta a distaccarsi interiormente da uno o più dei ruoli in conflitto (in genere quelli sentiti come colpevoli). Spesso i ruoli scartati possono essere proiettati su di un Io ausiliario. Questo tipo di separazione non viene attuata attraverso una negazione in toto dell’azione, ma solo attraverso una negazione della propria responsabilità. Nei casi più gravi, invece, uno dei due ruoli può essere completamente rimosso, con grandi conseguenze per l’equilibrio psichico dell’individuo.

Ma perché gli esseri umani non riescono a tollerare che due sistemi di valori e di aspettative convivano? Secondo alcuni ciò è riconducibile ad una motivazione sociale, oppure a una motivazione cognitiva, mentre secondo altri si basa sulla teoria della dissonanza cognitiva, la spinta ad essere coerenti nella vita conoscitiva può essere paragonata alla spinta omeostatico nella vita biologica. Infatti la presenza di una dissonanza cognitiva spinge automaticamente l’individuo a tentare di eliminare tale dissonanza. Sono state raccolte diverse prove a sostegno di tale teoria in particolare in occasione di un esperimento durante il quale vennero studiati le reazioni di un gruppo di persone appartenente ad una setta che credeva nell’imminente fine del mondo.

La verità come al solito è sempre la stessa: evitiamo per quanto possibile di essere causa di frustrazioni in altri individui, quando questo non è possibile o fattibile meglio ignorare completamente il frustrato, alla fine si stancherà di voi. La cura che lui o lei deve affrontare non dipende da voi, lasciate che siano altri a affrontare al questione liberandovene definitivamente. 

(Corollario: Perché Frustrato e perché Frustrata? 
Il frustrato é sicuramente colui che in questa storia non partecipa le idee altrui e altrimenti cerca di rendere difficile la vita alla propria vittima designata, la frustrata altro non é che l'estensione della frustrazione del frustrato. Doppiamente frustrato perché tenta di nascondersi nelle sembianze altrui per far credere di, mentre invece l'unico credo che pervade é quello di un  poveruomo. Si riguardi, lo dico seriamente, la vita é breve, magari in un altro racconto gli consiglierò di bersi un Cynar!)


Quanto è vicina la Cina?


Quanto spaventa il mercato globale il Dragone Cinese?
Quanto è vicina la Cina? Sul finire di dicembre dello scorso anno, la nota agenzia di rating Fitch ha dichiarato che la connessione economica Africa-Cina è divenuta un importante fattore nella storia di crescita dell’Africa sub-sahariana.
Negli ultimi quindici anni la penetrazione della Cina nel continente ha in effetti assunto dimensioni stupefacenti. L’Africa, che oggi più che mai rappresenta uno scenario sensibile nel gioco di ridefinizione delle simmetrie globali di potere, ha assistito all’affermazione della solida posizione della Cina nel campo commerciale e degli investimenti. Tanto da diventare un attore in grado di controbilanciare gli interessi geostrategici ed economici dei tradizionali partner occidentali sul continente. 

Tra gli elementi che influenzano la politica africana cinese, ve ne sono alcuni di ordine strategico ed economico ed altri di ordine politico e diplomatico. La strategia che ha guidato l’avvicinamento cinese al continente africano combina oggi elementi di un nostalgico idealismo con stralci di pragmatismo, nel tentativo di bilanciare i crescenti interessi di Pechino con la più tradizionale politica di valorizzazione del legame storico-politico tra le due parti.

Dopo il fallimento del Washington consesus, la gran parte delle economie africane ha guardato alla Cina. Tanto che oggi si parla piuttosto di Pechino consensus, con riferimento all’atteggiamento promosso dalla Cina di valorizzazione del multilateralismo, del consenso e della coesistenza pacifica.

Oggi la Cina è la seconda fonte più significativa di importazioni per l’Africa (dopo l’Europa), e il suo terzo mercato per le esportazioni (di seguito, ancora ad Europa e Stati Uniti). Anche se nel corso del 2011 il volume degli scambi con l’Impero di Mezzo ha risentito della crisi finanziaria internazionale, è dal 2009 che la Cina è divenuta per la prima volta il partner commerciale di punta dell’Africa, riuscendo a scalzare gli Stati Uniti. Con la graduale ripresa di respiro dell’economia globale, poi, anche il commercio internazionale tra Cina ed Africa riacquisira un ritmo sostenuto. Nel 2010 gli scambi hanno raggiunto quota 115 miliardi di dollari e nel 2011, pur scontando la crisi hanno superato 162 miliardi di dollari. Un trend destinato a non arrestarsi, visto che Pechino ha favorito la conclusione di accordi di libero scambio con 45 Paesi africani.

Nel complesso, nel corso degli ultimi dieci anni le esportazioni africane verso la Cina – in larga parte petrolio e materie minerarie – sono aumentate di tre volte, raggiungendo i 430 miliardi di dollari alla fine del 2011. In modo particolare, le esportazioni angolane verso l’Impero di Mezzo hanno rappresentato il 31,3% della quota di PIL di Luanda.

Al momento la bilancia commerciale pende a favore dei Paesi africani, anche se esistono significative eccezioni. Su tutte la Nigeria, il Kenya e il Cameroun. Un dato che riconferma il peso della Cina come gigante del settore manifatturiero. Nel corso del 2011, il 60% dei prodotti tessili importati sul continente è giunto proprio dal colosso asiatico.

Oltre il dato commerciale, è la crescente penetrazione finanziaria della Cina in Africa a suscitare interesse. Gli investimenti cinesi all’estero hanno assunto nel loro complesso dimensioni significative (circa 7 miliardi di dollari nel 2005), come risultato del lancio della strategia di “going out” presentata dall’establishment cinese nel 2001. Le quote più significative si dirigono ancora verso Hong Kong, Stati Uniti ed Europa. Ma di recente gli investimenti cinesi hanno guardato anche all’America Latina e all’Africa. Un riorientamento che dice molto delle necessità strategiche di Pechino: approvvigionamento energetico e individuazione di nuovi sbocchi commerciali.

Tuttavia gli investimenti diretti esteri della Cina in Africa rappresentano ancora una quota molto bassa – solo il 3% del totale – spalmata su pochi Paesi: Sudafrica, Angola, Nigeria e Repubblica Democratica del Congo. Il dato significativo è in effetti rappresentato dal crescente peso delle grandi banche cinesi. I numeri parlano di quote di prestito di gran lunga superiori ai livelli di investimento diretto.

Attraverso la diversificazione degli strumenti e delle fonti, la finanza cinese sta impostando il ritmo del coinvolgimento della Cina nel continente. Al tradizionale meccanismo “oil for infrastructure” negoziato “in segreto” tra Pechino ed il governo destinatario dei fondi, si sono aggiunte nuove forme di intervento e nuovi attori. Un processo che si sta sviluppando di pari passo con l’evoluzione istituzionale del settore finanziario cinese.
Con la riforma del sistema finanziario cinese a partire dalla metà degli anni ’90, si è provveduto alla separazione della gestione della politica monetaria da quella del credito. La principale innovazione ha visto la distinzione tra banche commerciali e banche di interesse nazionale (policy banks) e il progressivo aumento delle possibilità di coinvolgimento all’estero.

Oggi lo spettro delle istituzioni finanziarie cinesi che operano in Africa comprende istituzioni legate direttamente alle direzioni governative e una crescente presenza di banche private. Gli istituti che presentano i legami più stretti con Pechino, come la China Development Bank e la Export-Import Bank of China (Chexim), sono coinvolti in progetti convenzionali di finanziamento e operano secondo i parametri governativi. Si pensi al China Africa Development Fund. Le banche commerciali e altri istituti finanziari privati, invece, operano sotto licenze statali, ma non rispondono formalmente alle direttive di Pechino.

La China Exim Bank, tradizionalmente la banca più coinvolta in Africa, è una delle tre banche di interesse nazionale istituite nel 1995, responsabile della promozione delle politiche industriali di Stato (in particolare progetti infrastrutturali), del commercio internazionale e della diplomazia economica. Si consideri che Fitch ha stimato che tra il 2001 ed il 2011 i prestiti della Exim Bank in Africa hanno raggiunto i 98,2 miliardi di dollari, superando le cifre stanziate dalla Banca Mondiale nell’arco dello stesso periodo di tempo.

Ma è dall’ottobre del 2007, quando il mondo degli investimenti ha visto l’acquisizione di una quota del 20% della South Africàs Standard Bank da parte della Industrial and Commercial Bank of China (ICBC) – istituto statale di credito commerciale – che si sono poste le basi per una nuova fase di coinvolgimento della Cina.
Una scelta indubbiamente strategica quella del colosso cinese. La Standard Bank è un partner attraente per la ICBC, perchè opera in 18 Paesi africani. Del resto, anche per la Standard Bank, la ICBC rappresenta un ancoraggio interessante.

L’alleanza con la ICBC, la principale state owned enterprise cinese, consentirà alla banca sudafricana di accrescere la propria posizione sul territorio africano e di acquisire una fetta di business significativa. Sul fronte bancario cinese, si può dire di aver assistito ai primi approcci verso una strategia in fase di consolidamento per i mercati emergenti: quella dell’individuazione e del collegamento alla banca più grande e sofisticata con ramificazioni oltre confine. L’ancoraggio a mercati poco affidabili e conosciuti è assicurato.

Un’altra importante evoluzione è arrivata dal forum sulla cooperazione afro-cinese tenutosi in Egitto nel 2009. La Cina ha annunciato di voler offrire sostegno alle istituzioni finanziarie cinesi attraverso l’erogazione di un prestito speciale di 1 miliardo di dollari destinato al finanziamento del business africano di piccola e media dimensione. Un momento significativo nella politica di Pechino, che adesso incoraggia il passaggio dall’interlocutore Stato al sostegno diretto alla piccola e media impresa radicata sul territorio. Le implicazioni dell’esperienza del Paese asiatico nel settore finanziario africano sono numerose. L’ingresso della finanza cinese sull’onda della crisi finanziaria globale può essere pensato nel contesto di una più spiccata accelerata verso l’internazionalizzazione del settore bancario cinese.

La Cina ha dimostrato di voler giocare un ruolo decisivo nella finanza internazionale, proponendo alternative al dollaro nelle transazioni internazionali. In Africa, dove si inizia a guardare ad est, ma dove il commercio è ancora dominato dal dollaro US (ad eccezione dell’Africa francofona), il possibile passaggio allo yuan potrebbe affermarsi come evoluzione naturale se i trend negli scambi rimangono attestati su questi livelli. 

Forse la Cina conta sui nuovi mercati emergenti per cambiare le regole del gioco della finanza globale?


2012/12/01

Cosa cambia per la Palestina oggi?



Ha vinto la Palestina, era ora. Pensate che il voto del Palazzo di Vetro abbia un valore solo simbolico, o potrebbe avere anche effetti concreti? Il punto di vista di Israele e indubbiamente la prossima e immediata reazione potrebbero condizionare i prossimi scenari in una guerra solo di nervi fra due entità con differente peso in una regione geografica abituata a clima caldo tutto l’anno e non soltanto per motivi geografici? 

Il riconoscimento ha diverse implicazioni pratiche che metteno in imbarazzo Israele e disturberanno il funzionamento delle diverse agenzie delle Nazioni Unite. Nonostante le premesse, le promesse e le paure e nemmeno a sorpresa Netanyahu non l’ha presa bene. Il primo ministro israeliano, oltre a ringraziare i paesi che si sono espressi contro appoggiando Israele in una guerra di nervi più che di armi ha annunciato la costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania. 

E ti pareva. Niente di nuovo all’orizzonte, lo scenario nella regione non cambia affatto e ne cambierà in un prossimo futuro perchè in effetti la Palestina non viene ammesso al club riservato dei Paesi membri ma solo come osservatore dell’ONU, guardare non parlare e probabilmente nuppure toccare la realtà anche se qualche volta riguarderà decisioni prese contro il proprio Paese. In concreto per la Palestina cambia veramente poco. 

L’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, Ron Prosor aggiunge come corollario alle rimostranze Israeliane che “Abbas preferisce i simboli alla realtà. Preferisce volare a New York invece di venire a Gerusalemme per negoziare“ mentre Limes spiega perché l’ammissione all’ONU è una vittoria simbolica, ma non rappresenta una soluzione, la Palestina, non ha amici all’ONU, infatti se escludiamo la Bulgaria non può contare su Stati amici come Israele, non altrettanto importanti, ricordiamoci che  la gran parte del mondo arabo usa la questione palestinese come diversivo per distrarre la popolazione dai problemi di legittimità interni o per acquisire popolarità a buon mercato. 

E sempre la Palestina non è in grado di minacciare militarmente l’esistenza di Israele; sarebbe sufficiente andarsi a contare le vittime palestinesi in tutti i conflitti ufficiali e ufficiosi fra le due compagini per comprendere come la forza militare di Israele, vicino forse scomodo per il piccolo neonato Paese nello scacchiere mediorientale è costantemente superiore a quella palestinese, in grado di colpire obiettivi e mietere un numero di vite maggiore di quello delle vittime israeliane. 

Semmai la spaccatura tra le due maggiori fazioni del movimento palestinese, Fatah e Hamas, si è indubbiamente amplificata negli anni, giungendo dal 2006 ad assumere anche geograficamente il carattere di una spartizione, una Fatah “governa” a Ramallah, dove risiede il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) Abu Mazen, e in tutta la Cisgiordania mentre Hamas ha il predominio sulla Striscia di Gaza. Piccole e insignificanti soddisfazioni per un Paese che invece dovrebbe cercare di unire le forze per avere maggiori possibilità di far valere la propria voce in un ambito dove gli appoggi sono in prevalenza americani nei confronti dell’unico Stato non islamico.

Con questo punto di vista e le suddette circostanze viene difficile pensare che il riconoscimento dell’Onu possa avere qualche effetto sulla soluzione della questione palestinese. Costruisce certamente un precedente, porterà a un isolamento di Israele nel breve periodo, probabilmente anche sotto il profilo diplomatico ma se questo porterà l’ANP a perdere i soldi delle tasse raccolti da Israele e probabilmente anche quegli aiuti occidentali che hanno permesso a Fatah di arricchirsi e istituzionalizzarsi al potere bisogna considerare che la Palestina dovrà inventarsi un nuovo sistema per finanziare la politica e il funzionamento dello Stato partendo da nuovi sistemi e azioni senza per questo disturbare più di tanto lo scomodo vicino. 

Perchè ora come ora la Palestina ha un minimo di riconoscimento in sede ONU e non può più permettersi di condurre campagne infinite di terrorismo senza la certezza di farla franca ancora una volta. Ora che esiste è obbligata a rispettare le stesse regole che Israele rispetta in seno alla stessa organizzazione mondiale di cui entrambe con diversi titoli fa nno parte. La Palestina potrebbe sfruttare il suo nuovo status per denunciare Israele al Tribunale penale internazionale o alla Corte internazionale di giustizia, il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite è vero ma da adesso in poi anche Israele potrà fare altrettanto e la Palestina dovrà subirne le conseguenze e prendersi la propria fetta di responsabilità.

Sappiamo bene che gli argomenti di diritto internazionale non hanno particolare influenza sulle decisioni dello Stato ebraico. L’eventuale sospensione degli aiuti occidentali potrebbe avere effetti indesiderati per gli Usa e l’Europa, dovendo affrontare in casa propria il peso delle lobbies ebraiche che detengono il potere e la ricchezza di entrambe le regioni goepolitiche, inoltre si assisterebbe all’aumento della popolarità di Hamas, con maggiori ingerenze da parte di finanziatori con abiti differenti tendenti al bianco e religione non apprezzata in quell’ambito, non sicuramente dopo i fatti dell’11/9 ne in quelli recenti finanziari con recrudescenza dell’instabilità, aumento dell’indebitamento finanziario e esposizione nei confronti delle nuove potenza arabe importanti, Qatar in primis seguito a ruota da Abu Dhabi. 

Il riconoscimento ottenuto all’Onu rappresenta l;eredità di Abu Mazen al popolo palestinese ma non scuote le fondamenta della questione israelo-palestinese. 
La soluzione di questa passa per Washington e per le maggiori capitali mediorientali, non per il Palazzo di Vetro di New York. L’Europa infine non ha perso l’occasione di dimostrare la mancanza di una politica estera unitaria, la dimostrazione di una totale mancanza di coesione l’abbiamo sperimentata con nessun accordo preliminare, con posizioni contrarie della Germania e l’astensione di Londra, l’approvazione della Francia scontato e quello dell’Italia a sorpresa, l’Italia che ospita sul proprio territorio la maggiore comunità ebraica d’Europa. 

A qualcuno verrà sicuramente a memoria che ben tremila delegati affollano il parlamento di Bruxelles, a nessuno è venuto in mente che questo atteggiamento non piace ai cittadini che essi rappresentano che a tutti chiedono coesione e sicurezza, sicurezza messa in pericolo non già da un voto che forse aveva anche ragione di esistere, intendo con un risultato potivo per la Palestina, ma dalla partecipazione in ordine sparso delle delegazioni e l’espressione del voto ancora più inaspettato e inconcepibile. Evidente che l’Unione Europea non possiede quell’unità e quella volontà politica necessarie alla proiezione di una identità e di una personalità sulla scena mondiale. Il tempo in cui i Paesi europei avevano una visione comune sembra ormai lontanissimo.

E l’America? Dopo la vittoria di Obama e del pericolo immediato per tutta l’economia mondiale che essa rappresenta, dobbiamo evidentemente assistere a dei successi che non intaccano minimamente la granitica consapevolezza del gigante americano, sappiamo benissimo che per gli americani gli israeliani sono abitanti di un Paese lontano, loro sono semmai presi dalle vicende interne. E poco importa se al momento non hanno pensato al futuro dei loro figli, un futuro per altro richiamato proprio da Obama nel suo discorso di re-insediamento. 

Potrebbe essere un errore di campo fatale perché non c’è futuro per un mondo insicuro come quello disegnato da Obama in questi ultimi quattro anni questione araba compresa. Gli arabi, anzi il mondo islamico rappresenta la spina nel fianco di qualsiasi amministrazione americana degli ultimi 40 anni di storia, ricordiamoci di Monaco 1972. La vittoria di Obama rappresenta un pericolo per il mondo civile, e la decisione sulla Palestina pur con il voto contrario degli americani contribuirà a rendere ancora più insicuro il futuro di una regione abitata da quasi ventisei milioni di individui agitati da sentimento di odio nei confronti di un solo unico Paese e dei suoi alleati. 

Aleggia un’ombra sul futuro mondiale basta dare una occhiata alle agenzie arabe e persiane e alla loro malcelata soddisfazione. Non potevano sperare di meglio, anche i regimi islamici totalitari vecchi e nuovi (Iran, Egitto e Tunisia) sanno che non avranno nulla da temere da quel presidente neppure quando si astiene dal votare contro Israele e a favore della Palestina perchè alla fine a loro della Palestina non interessa poi molto. 

Cosa cambia ora in Medio Oriente? Dipende da alcune cose. La prima e forse più importante questione che risentirà di questa rielezione di Obama è la vicenda del nucleare iraniano. Se sono vere le voci che vogliono contatti diretti tra Iran e USA prepariamoci a un durissimo braccio di ferro tra Gerusalemme e Washington. Israele, come ha ribadito Netanyahu, non permetterà all’Iran di dotarsi di armi nucleari dietro al paravento dell’uso civile. Al contrario, Obama sembra credere alla favoletta del nucleare ad uso civile ed è tentato di trattare con gli Ayatollah. Un attacco israeliano alle centrai nucleari iraniane, già rinviato più volte e persino interrotto in una occasione, potrebbe scombinare i piani iraniani e americani. Lo vedremo presto, molto presto credo.

E per la Palestina riesploderanno le polemiche degli ultimi mesi in tutta la loro virulenza. C’è da giurare che Obama tornerà alla carica per spingere verso un accordo tra arabi e israeliani. Solo che l’accordo che vogliono gli arabi non è proprio un accordo nel vero senso della parola, che prevede due parti e due posizioni diverse, loro pretendono semplicemente di imporre a Israele le loro volontà. 

Ora però la questione potrebbe cambiare con Obama che ha quattro anni davanti a se con l’impossibilità di ricandidarsi probabilmente smetterà di essere “simpatico”. Potrebbe finalmente alzare la voce, e porre la questione sul piatto del contenzioso iraniano. Tenere buono Israele con l’Iran in cambio di un supporto per la questione palestinese. Il problema però è che per Israele la questione palestinese non è affatto di vitale importanza come invece lo è la vicenda del nucleare iraniano. 

Sappiamo che gli assetti geopolitici in Medio Oriente sono a rischio ogni giorno, non esistono accordi alla luce del sole, tutto avviene nelle stanze buie delle rispettive cancellerie e nei centri di controllo, l’ordine di colpire gli iraniani potrebbe partire in ogni momento mentre scrivo questo pezzo e cogliere impreparati tutti i Paesi coinvolti in un senso o nell’altro in questo scenario con un alto pericolo esplosivo. 

Guardiamo tutti a Obama  che sposta l’asse del proprio interesse verso Ankara con un’occhio al Cairo. Credo, anzi ne sono certo che altro non siano che goffi tentativi di accontentare quelle potenze e distrarre l’occhio attento della diplomazia non statunitense da altre e sottili questioni guarda caso tutte legate al petrolio e suoi derivati. Perchè diciamocelo seriamente, l’Unione Europea non ha ancora imparato la lezione e non ha diversificato le proprie fonti energetiche per rendersi indipendenti dal mondo arabo, in primo luogo l’Italia, che, con il voto a favore della Palestina ha evidenziato ancora il proprio interesse verso l’oro nero che, sempre per caso, è saldamente nelle mani di quelle stesse popolazioni a maggioranza mussulmana come i palestinesi. 

Cosa cambia per la Palestina oggi? Tutto e niente, dipende dai punti di vista. Di certo oggi il riconoscimento dello Stato di Palestina passa obbligatoriamente per il riconoscimento da parte palestinese di Israele come Stato ebraico. Stiamo a vedere la prossima mossa di chi sarà e quali saranno i coinvolgimenti dei vari Paesi nello scacchiere internazionale. Forse contrariamente alla regola, in questo caso "Tutti i mali verranno per nuocere?"


2012/11/26

Apparenze e realtà


Ho scritto un testo su un noto forum, non mi concentrerò sul forum, si trattava solo di un mezzo per affermare un mio punto di vista, evidenziare un pensiero assillante, eppure volevo essere breve, volevo riassumere alcuni concetti, confrontarli, sentirli miei e allo stesso tempo negarne la paternità, serviva a dare un significato ai questi pensieri, a quello che osservo e che leggo, agli attaggiamenti della gente virtuale che mi circonda, forte dell’essere invisibile e quindi temeraria.


Nulla è come sembra, nulla è come appare perché nulla è reale? La realtà è soggettiva, e pertanto nulla è come appare (come sembra) perché siamo noi a dare l'interpretazione alla nostra realtà che cambierà da soggetto a soggetto! Se nulla è reale e se tutto appare diverso a ognuno, a questo punto nulla appare allo stesso modo a tutti!. Se la realtà non esiste, ogni cosa, ogni singola cosa è soggettiva, e qui si spiegano i diversi ragionamenti da persona a persona, le opinioni che non collimano, e le infinite discussioni per avere ragione.

È allora tutta una questione di apparenza, a qualcuno puo' sembrare semplicemente apparenza, a qualcuno  e spero tanti, contenuti.
I contenuti del sito principale in primo luogo e di del forum forum in seconda fase.
Che messaggio sublimale scaturisce da questo sito?
Che vuole significare?
Gli Italiani? popolo di santi, poeti e navigatori, o meglio: popolo di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di navigatori, di colonizzatori, di trasmigratori.
Gli italiani che viaggiano, gli italiani che emigrano e quelli che tornano, gli italiani che sognano di partire ma che non partono mai, gli italiani che vorrebbero e non possono e quelli che possono ma non vogliono.

Siamo tutti italiani, figli dello stesso virtuale uomo preistorico che ha preso possesso dello stivale italico dichiarandolo proprio, da lui, virtualmente, siamo arrivati noi.
E noi, in barba alla sua conquista quest'Italia vogliamo lasciarla perchè ormai stiamo male, ce la sentiamo stretta, non più a misura d'uomo, che dico? non più a misura d'italiano.
E quando partiamo e colonizziamo, diventiamo imprenditori di successo, professionisti, c'inventiamo mestieri che nemmeno sognavamo potessero esistere, diventiamo gente che conta a cui nessuno puo' dir nulla, tanto di cappello signori, sono italiani.

E poi che succede, si va su un forum e tutti a pianger miseria, a parlare di umiltà di lavoro nero, di lavoro dignitoso.
Il successo non è più per noi ma se altri ne dispongono è motivo d'invidia, non un modello da seguire ma un cattivo esempio da additare.

Ma siete proprio sicuri che debba essere davvero cosi'?


2012/11/25

Arroganza e Democrazia

Il termine democrazia deriva dal greco δμος (démos): popolo e κράτος (cràtos): potere, e etimologicamente significa governo del popolo.
Il concetto di democrazia non è cristallizzato in una sola versione o in un'unica concreta traduzione, ma può trovare ed ha trovato la sua espressione storica in diverse espressioni ed applicazioni, tutte caratterizzate per altro dalla ricerca di una modalità capace di dare al popolo la potestà effettiva di governare. Questa la definizione. Ineccepibile salvo che per un dettaglio, non si parla infatti di una parte del popolo ma di tutto il popolo altrimenti una citazione l’avremmo evidenziata. Nulla.
Quindi la democrazia non è il governo di una parte del popolo ma di tutto il popolo.
Approfondiamo il concetto.
Scorrendo le pagine dei vari siti web che trattano l’argomento, scopriamo che le forme di democrazia sono molteplici. Si continua a utilizzare il termine democrazia però anche quando democrazia non è più.
Perchè?
Perchè la Democrazia inventata dai Greci era di tipo diretto, quindi rendeva merito al nome, il popolo, tutto, governava, poteva esercitare il potere di decidere delle cose che riguardavano la comunità, la città di Athene in quel caso.
Mi si dirà che nella Grecia antica la popolazione era costituita da meno individui di quanti sono ai giorni nostri. A quel tempo mettere d’accordo 20/30,000 individui era relativamente semplice, può essere che non si riunissero tutti insieme nello stesso anfiteatro a discutere, come sembrerebbe certo che alla vita politica non partecipassero ne gli schiavi e neppure le donne e naturalmente i giovani sotto un determinata età. Pertanto alla fine il numero di cittadini che costituivano l’ossatura della democrazia erano sufficientemente contenibili nell’agorà, nella piazza a cui il termine fa riferimento.
Non voglio entrare nel merito delle altre formule di democrazia e nemmeno soffermarmi sull’organizzazione di quella diretta, l’espressione della volontà del popolo e la forma per esprimerla e farla valere nelle decisioni importanti.

Vorrei invece analizzare il contesto democratico dei giorni nostri dove una massa di individui, con un minimo del 50%+1 impone le proprie scelte alla rimanente massa del 50%-1 e non accetta alcuna ingerenza ne controproposta da parte dell’altrui schieramento.
Mi direte che non corrisponde alla verità perchè ci sono i rappresentanti della maggioranza e della minoranza che amministrano la cosa comune, quindi la democrazia e decidono secondo il volere del popolo.

Non è affatto vero.
È un’infame menzogna.
Vi spiego perchè.

Nell’antica Grecia il popolo non governava attraverso la domocrazia, in effetti non governava affatto, il popolo si limitava a discuterne nella piazza, detta agorà e il suo potere e decisioni venivano utilizzate dai rappresentanti dell’assemblea del popolo e messi in pratica.
La democrazia non era una forma di governo ma esclusivamente una forma simbolica per indicare il potere detenuto dal popolo. Vorrei aggiungere che il termine democrazia non fu utilizzato per indicare la volontà del popolo,  pare trattarsi invece di una espressione dispregiativa utilizzata dagli avversari del sistema di governo pericleo. Infatti kratos, più che il concetto di governo (designato da archìa) rappresentava quello di "forza materiale" e, quindi, "democrazia" voleva dire, pressappoco, "dittatura del popolo". Il popolo sovrano, e solo esso, dettava le regole ai propri rappresentanti affinché fossero eseguite. Il popolo forniva le linee guida di governabilità e impartiva gli ordini necessari.

Leggo su un sito che ne tratta in modo esauriente che i sostenitori del regime ateniese utilizzavano comunque altri termini per indicare come una condizione di parità fosse necessaria al buon funzionamento di un sistema politico: "isonomia" (ovvero eguaglianza delle leggi per tutti i cittadini) e "isegoria" (eguale diritto di ogni cittadino a prendere parola nell'assemblea). Peraltro, a queste forme di eguaglianza si legavano i principi di parresìa (libertà di parola) ed eleutherìa (libertà in genere).
Forme di equaglianza, diritto, libertà anche di parola.
Comunque la si rigiri la frittata arriviamo alla stessa soluzione: i più forti governano a scapito dei più deboli senza lasciar loro il diritto di espressione.
Non parliamo ovviamente dell’antica Grecia ma dei giorni nostri e, in particolare, giusto per lavare i panni sporchi in famiglia, del nostro parlamento e dei politici che, ahinoi, abbiamo eletto a rappresentarci.
Dove sono stati generati costoro? Da dove deriva il potere che noi cittadini siamo stati capaci di concedere questi individui ora che sentiamo il bisogno e desiderio di toglierglielo?
Sarebbe un lungo discorso da affrontare, lo riassuno a grandi linee.

Il primo parlamento democraticamente eletto e’ del 930 d.c. in Islanda, seguito a breve distanza da una simile organizzazione dei nativi americani, quale grande esempio abbiamo ricevuto, e in premio l’uomo bianco è quasi riuscito anche a sterminare quel popolo, degno esempio di una forma di governo che noi, poveretti uomini bianchi, non siamo mai stati capaci di applicare, islandesi esclusi naturalmente. E arriviamo alla rivoluzione francese e poi via via passando da varie e alternate fasi ai giorni nostri. La forma di democrazia, si ostinano a chiamarla tale, però non deriva dall’originale utilizzata nell’antica Grecia ma da una fomula di trasformazione che trasferiva il potere diretto e indiretto dal popolo ai suoi rappresentanti anche non eletti ma nominati da un esecutivo solo apparentemente nominato dal popolo. Che assurdità potreste farmi notare. Esatto assurdità e siamo stati noi elettori a concedere loro il diritto di sottrarci la possibilità di scegliere quali dovevano essere i nostri rappresentanti. Di fatto siamo governati da qualcuno che il popolo non ha eletto ne voluto, con leggi e programmi che il popolo non vuole ne gradisce e costretti a pagare tasse per spese che compensino spese che nessuno di noi ha mai autorizzato.

Ma che razza di democrazia sarebbe questa? Allora era meglio quando c’era il Re, almeno sapevamo benissimo chi fosse il respondabile del nostro malumore, il bersaglio preferito del nostro astio, la cartina tornasole della situazione economico-finanziaria italiana. Così com’è ora con uno stuolo di politici che non riescono a scollarsi dalla poltrona ricevuta in regalo, non più in prestito, in regalo perchè una volta presa non se ne vanno più, vedere una luce seppur flebile alla fine del tunnel diventa un miraggio.
Pertanto anche le parole di un certo Monti sulla vicina fine del tunnel sembrano messe li apposta per confondere o illudere l’italiano che forse dalla democrazia, la democrazia salvatrice, non si era mai usciti.

Io dissento, mai entrati volevate dire?

Un po’ di storia. Durante i lavori dell'Assemblea Costituente Piero Calamandrei affermò che nel "popolo dei morti", ossia nell'eccezionale tributo di vite umane pagato alla seconda guerra mondiale, si doveva scorgere la più importante fonte di legittimazione della rinata democrazia italiana ed europea. Analizzando questa prospettiva, qualcuno intravvide l’evidenza che il passaggio alla Repubblica fu uno svolgimento storico più corale, e anche più contraddittorio, di quello solitamente prospettato dalla tradizione che accentua il ruolo preminente della resistenza armata, tralasciando, nella transizione alla democrazia, la violenza dei bombardamenti angloamericani, a lungo taciuta nel rispetto del paradigma della "guerra giusta", e sui suoi effetti politici di breve e lungo periodo.

Perchè tacere, per quale motivo il popolo non doveva sapere di quello che pure succedeva al nostro vicino di casa, nelle città della nostra regione dove italiani e nonostante tutto, morivano ancora in nome di una guerra che non è mai stata nostra. Quale poteva essere l’equazione affinchè l’italiano medio potesse affermare che era stato salvato dalla politica? La politica e la democrazia non esistono, siamo noi entrambe, sono l’estensione di un pensiero di trasformismo filosofico che ci porta verso uno status di maniacale masochismo tale da farci eleggere gli aguzzini e poi criticarli per giustificare il malumore, chiedere a gran voce al grande puffo in cima al colle di rimuovere i cattivi e poi torniamo alle urne per rieleggere non già i partiti che sono solo delle scatole con etichette che di volta in volta vengono sostituite per dare l’impressione che tutto cambi, no, noi rieleggiamo gli stessi aguzzini che nella precedente lagislatura si sono resi complici dei furbi e dei ladri, dei disonesti e dei razziatori della cosa pubblica a loro esclusivo vantaggio e in totale disprezzo del cittadino elettore.
Ma quale democrazia è questa, qui si parla di arroganza della politica, una politica che non ci rappresenta più da almeno 50 anni. Non sono solo in questa tesi, altri e più titolati di me filosofi e uomini di scienza e cultura, l’hanno abbracciata prima di me.
Di che si tratta? Quale tesi?

La mia posizione riguardo la frase infelice di Calamandrei nonchè l’affermazione non è in totale sintonia. Primo non è chiaro per quale motivo il passaggio alla Repubblica possa sembrare un evento corale, storico siamo d’accordo ma corale? Sappiamo benissimo che il referendum costituzionale del 2 giugno 1946 fu fortemente voluto dagli inglesi e americani anche se non dichiararono mai apertamente la richiesta, si impegnarono assiduamente affinchè fosse istituito. Poi si volle giustificarlo con la volontà degli italiani di decidere sul loro futuro mentre sappiamo benissimo che non fu assolutamente così. Il gruppo dei Monarchici, a quel tempo ancora forti e compatti, attribuì al referendum brogli e manovre dimostrate anche se nessuna vera prova fu fornita, ci fu qualche episodio dubbio, anche quelle schede già barrate pro repubblica ritrovate in un campo alla periferia di Roma, non furono però giudicate sufficienti altrimenti avrebbe dovuto essere invalidato. C'era però qualcosa di più di semplici supposizioni: ci furono dei ricorsi, il governo non attese l'esito del ricorso e dichiarò la vittoria per la Repubblica in tutta fretta, nessuna coralità dunque ma il disegno egemone di chi accarezzava già l’idea di una democrazia esclusivamente nel nome ma non nei fatti.

Sappiamo comunque che che la casa regnante italiana era invisa sia a gran parte del ceto politico uscito dalla Resistenza - la questione dell'appoggio di Vittorio Emanuele II al fascismo non si poteva risolvere così, in amicizia, con una semplice successione - sia a molti degli Alleati e sappiamo quanto la Gran Bretagna fosse diventata particolarmente ostile ai Savoia. Tutto ma non coralità e nemmeno democrazia ma arroganza, l’arroganza di chi sapeva, aveva già in mente un piano per rodere la sovranità del popolo italiano e portarlo a essere succube in casa propria di una casta politica arrogante. I fatti di questi ultimi mesi non fanno che supportare questa tesi.

Al popolo italiano hanno lasciato solo gli occhi per piangere. I diritti sociali sono annullati, e quelli costituzionali soppiantati col governo tecnico. La sovranità e' un'aspirazione. Un anno con Mario Monti e' stato terribile: e' morta la democrazia in nome dell’arroganza e per questo decine di milioni di uomini e donne che hanno paura del domani e avvertono il vuoto attorno. Maledici il mondo, in casi così. E in effetti e' globale il terrorismo economico che ha distrutto le capacità decisionali degli Stati. Oggi siamo governati da poteri irresponsabili, ci comandano centrali finanziarie che decidono decimando ogni forma democratica. Ad opporsi dovrebbero essere i popoli; ma sono annichiliti nella protesta e rischiano di diventare strumento di violenze come quelle che si sono registrate in questi giorni. Poliziotti contro studenti, poveri contro poveri; a far da mazzieri i Black block e da cospiratore quel gruppo Bilderberg al quale Monti non si vergogna di presenziare. La protesta sociale ormai divampa. I governi, a partire da quello italiano, infliggono mazzate che tolgono il respiro a chiunque tenta di sopravvivere; non c'e' spazio per sperare nel futuro finché non arriva una classe dirigente capace di dire basta agli impostori che ci impongono il loro credo, il dogma della loro finanza indistruttibile.

Che rapporto intercorre tra la cosiddetta libertà degli antichi e la libertà dei moderni? L’unico modo di intendersi quando si parla di democrazia è davvero quello di considerarla come un insieme di regole che stabiliscono chi è autorizzato a prendere le decisioni collettive e con quali procedure? È lecito esportare la democrazia? Il nostro è veramente il secolo della fine delle ideologie? Dove finisce la democrazia e inizia l’arroganza politca del prendere tutto e lasciare solo briciole? Per quale motivo siamo costretti a prendere tutto ciò che l’arroganza della politica vuole venderci anche  acaro prezzo e non siamo capaci di ribellarci per respingere al mittente le richieste?